26 marzo 2010

essai_opinioni Perché il cinema italiano (non) è così?

 
Lodi a Virzì, critiche a Placido e, soprattutto, a Tornatore. Come dire: c’è modo e modo di volgere lo sguardo al passato. Specie in questo paese, dove un’analisi lucida e amara rischia di trasformarsi in mero passatismo...

di

Mi ricordo che in futuro
sarò pieno di ricordi

quella notte a Palinuro

che incontrando Alberto Sordi

lui mi disse: “Mi ricordi

me da vecchio nel passato”

non l’ho mai dimenticato

Elio e le Storie tese,
Effetto Memoria – Estate
(2008)

Il nuovo decennio è stato inaugurato da un film italiano
come non se ne vedevano da anni, forse decenni. Un film al tempo stesso
coraggioso e leggiadro, brillante e profondo. Dotato di quella caratteristica
che sembrava perduta nel nostro cinema e che tuttavia è pressoché unica: la
capacità di (far) ridere con amarezza. Stiamo parlando, ovviamente, de La
prima cosa bella

di Paolo Virzì.
Ma perché quest’opera deve essere un unicum nel suo genere
e nel panorama generale? Perché il cinema italiano non può essere così? Una
risposta sia pur minimamente soddisfacente chiama in causa un insieme di
fattori strettamente collegati tra loro (produzione, distribuzione, fruizione,
situazione culturale, influenza di altre industrie e aree culturali); qualcosa,
peraltro, che dovremmo immediatamente percepire come familiare, dal momento che
gli stessi schemi e le medesime questioni si ripropongono, pur con le dovute
differenze e proporzioni, nel mondo dell’arte nostrano.
Alex (Raoul Bova) e Niki (Michela Quattrociocche) in Scusa ma ti voglio sposare di Federico Moccia
Dunque, dicevamo, perché. Perché siamo costretti a
sorbirci anno dopo anno il cine-panettone spacciato immancabilmente dallo
pseudo-sociologo di turno come specchio fedele delle abitudini italiote e
addirittura destinatario dei contributi statali come “film di interesse
nazionale”? Perché Federico Moccia è giunto al suo quarto, dicasi quarto film tratto dai
suoi libri (Scusa ma ti voglio sposare)? Perché la riproposizione delle vicende
para-amorose e simil-esistenziali di quarantenni spompatissimi (Baciami
ancora
di Gabriele
Muccino
) sbanca
il botteghino, come e più del leggendario predecessore?

Certamente non siamo qui a sostenere che questi prodotti
rappresentino necessariamente la totalità e l’identità del cinema italiano
contemporaneo; ma, insomma, continuando a enumerarli il quadro che ne viene
fuori è quello che è. Di questa situazione, ovviamente, gli autori danno la
colpa ai produttori, i produttori agli autori, e tutti insieme al popolo bue,
che a sua volta se la prende con il cinema italiano, in blocco o in fetta:
anche qui, le analogie con il sistema artistico si sprecano. E non bastano i
soliti Sorrentino
e Garrone,
così come non basta lo splendido L’uomo che verrà (2009) di Giorgio Diritti, omaggio alla grande e (forse)
irripetibile stagione del cinema di denuncia – politico e realistico in maniera
sana, ragionevole e non stucchevole – di Francesco Rosi & Co.

Maya Sansa in L'uomo che verrà
Siamo intrappolati e paralizzati in una condizione di
oggettiva debolezza, che non impedisce comunque tappeti rossi e passerelle cafonal
a go-go,
insopportabilmente consolatorie e autarchiche. Impedisce però, tanto per fare
un esempio, che dal nostro paese venga fuori un film potente, lucido e rigoroso
come Il nastro bianco (Michael Haneke, 2009), di un regista che tradizionalmente, come si usa
dire, “non si perde in chiacchiere” e scava nelle viscere della storia
collettiva. Nel frattempo, i nostri “grandi vecchi”, come le nuove leve, tutto
sommato latitano. E infatti, scotta ancora l’esclusione impietosa di Baarìa non solo dalla corsa agli Oscar,
ma addirittura dalla preselezione a nove titoli. E come potrebbe essere
diversamente? Il film di Giuseppe Tornatore è il simbolo perfetto di un
cinema sostanzialmente adagiato nella nostalgia, attardato su posizioni
obsolete, mentre praticamente tutto il resto della cinematografia mondiale (o
quantomeno quella più interessante) segue direzioni completamente diverse, in
gran parte inedite. Quel bambino volante, il racconto fintamente corale (il
punto di vista rimane infatti uno e uno soltanto…), Renato Guttuso come nobile padre artistico:
tutto questo, e molto altro, ci aiuta a considerare un cinema nazionale che,
anche quando si fa grande nelle aspirazioni economiche e produttive, rimane
sempre incorreggibilmente povero e sgangherato nelle ambizioni rappresentative.
Le semplici dichiarazioni d’intenti, esplicite o implicite (“Volevo fare un
film à la Sergio Leone
”, o peggio ancora “volevo comporre il Novecento di Bagheria”) non bastano a raggiungere gli
obiettivi prefissi; ammesso e non concesso che questi abbiano davvero un senso,
e che non sia invece proprio sbagliata l’impostazione di fondo.
Una scena tratta da Il nastro bianco di Michael Haneke
Un altro esempio di approccio rivolto al passato quasi del
tutto fallimentare è Il grande sogno (2009) di Michele Placido. Lì la nostalgia assume un
carattere obnubilante, oscurando tutto: ragioni storiche, rapporti di
causa-effetto, vicende personali. Il tentativo è quello di rendere attraente
per le giovani generazioni di oggi la storia “gloriosa” del ‘68, quel sogno
collettivo, appunto, che ha impegnato una o due generazioni di questo paese.
Non a caso, proprio quelle in charge oggi, e con gli eccellenti risultati che sappiamo. Il
problema è che – dopo la bella e importante prova di Romanzo criminale (2005), punto di origine, insieme
al libro di Giancarlo De Cataldo da cui era tratto, di uno dei pochi sottogeneri decenti e floridi
degli ultimi anni – il quadro risulta talmente semplicistico e tedioso da
rendere respingente non solo l’operazione artistica, ma addirittura il suo
intero riferimento storico.
In conclusione, non è che lo sguardo verso il passato,
inteso in termini di tradizione e memoria, sia scorretto in sé: semplicemente, non dovrebbe
essere prevedibile, stanco, sterile. Può benissimo essere uno sguardo creativo
e disturbante.

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Prima Linea di Renato De Maria
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Italian Tragedy
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al Museo Alinari
Guttuso
in mostra a Roma

christian caliandro


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n.
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[exibart]


7 Commenti

  1. @christian, hai espresso perfettamente quello che penso anche io, davvero siamo arrivati all’illustrazione patetica e pleonastica del “come e’ stato”. Bell’articolo.

  2. Secosno me Virzì è solo uno bravo a intortare. Non so come fa, ma i suoi film appena li vedi ti entusiasmano ma già da subito cominciano a mostrare la corda e ti ritrovi a considerarli incosistenti. Non ho mai sentito nessuno ricordarli in riflessioni o pensieri (scritti o orali) anche importanti dopo anni. Cosa che, ad esempio, con L’ultimo bacio (che a me non è piaciuto) o Romanzo criminale (che a me è piaciuto molto) è puntualmente successo. Virzì è come il gelato alla soia, quando lo mangi ti sembra buono come un gelato normale, ma poi non ti lascia nulla nello stomaco e in bocca e ti sembra di aver semplicemente bevuto un mezzo bicchiere d’acqua.

  3. A mio avviso uno dei problemi è che la produzione cinematografica italiana è numericamente scarsa se comparata con quella dei vicini paesi europei. SI aggiunga poi il fatto che ciascuno regista si sente così figo da considerarsi figura a sè, autore con la A maiuscola, e non esponente di un genere o di un movimento, di cui non ci sarebbe nulla da vergognarsi. L’ambizione culturale smisurata è una brutta bestia…

  4. Concordo con l’autore, appieno.
    Vorrei solo aggiungere una piccola opinione personale avendone vista la foto nell’articolo: la Maya Sansa è una delle attrici italiane più brave e belle (nel senso proprio di bella, non di bona) in circolazione; peccato che l’hanno capito in pochi… lei, intanto, da lontano, si prende i suoi riconoscimenti – americani, francesi, pochissimi italiani -.

  5. Daniele ha ragione, ormai il cinema nostrano è nelle pessime mani di Gaetano Blandini che fa i cavoli del comodo suo e dei partiti (tutti eh, lui la par condicio la applica da una vita…) e adesso è anche finito nelle intercettazioni della cricca bertolasiana come è venuto fuori da Il Fatto Quotidiano (evidentemente non è un caso che la signora Rosanna Tau, donna che si accompagna a simili arraffatori senza dignità, si sia messa a fare la produttrice), e così i nostri, si fa per dire, registi si mettono a fare film che magari apparentemente parlano delle persone vere (che so, l’operaio cassintegrato con la moglie casalinga e due figli) ma in realtà se la giocano in modo da tirare fuori robetta per bambini che non dia fastidio a nessuno, oppure si rifugiano in pallosissimi film d’autore. E lo dico avendo dei registi come amici, ma l’hanno capito pure loro che non si può andare avanti così.

  6. il cinema italiano è asfittico impelagato nel rappresentare solo storie di intimismo borghese claustrofobico salverei solo i grandi Bellocchio, Bertolucci, certo Soldini e il minimalismo esistenziale di Mazzacurati. Mancano (tranne qualche rara eccezione) le registe, dove sono i corrispettivi italiani di Lynch di Kaurismaki ecc. ecc.??????

  7. Concordo pienamente!
    Già nel 2007 Tarantino aveva criticato certo cinema italiano, nonostante il suo sempre dichiarato amore per alcuni registi nostrani del passato.
    “I nuovi film italiani sono deprimenti. Le pellicole che ho visto negli ultimi tre anni sembrano tutte uguali, non fanno che parlare di: ragazzo che cresce, ragazza che cresce, coppia in crisi, genitori, vacanze per minorati mentali. Che cosa è successo? Ho amato così tanto il cinema italiano degli Anni 60 e 70 e alcuni film degli Anni 80, e ora sento che è tutto finito. Una vera tragedia”.

    Purtroppo è cambiato poco, se non qualche isolato tentativo!

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