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Alessandro Bulgini – Hairetikos
9 dipinti ad olio su tela
Comunicato stampa
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Nel lungo cono d’ombra in cui cresce e si afferma la prassi dell’arte concettuale e multimediale, attendere alla pittura può significare alimentare un’eresia, come dimostra l’opera di Alessandro Bulgini. L’artista tarantino ha infatti creato un ciclo di dipinti che si presentano come grandi monocromi neri e lucenti, sotto il cui strato riflettente si celano e conservano ritratti di personaggi, fantasmi che sono protagonisti di una ricerca in continua evoluzione da parte di un artista irrequieto e pensoso. Nei giochi tra la luce e l’oscurità voluti da Bulgini si percepisce l’evoluzione di un artista che nella pittura ha trovato un mezzo capace di farsi testo mistico, viatico per un’esperienza di annichilimento ed esaltazione tipica del furore estatico, che in questo caso avviene tramite un meccanismo artistico gnoseologico; un poco come se la prospettiva rinascimentale fosse sorta per divorare le menti nella profondità delle proprie fughe piuttosto che ripetere sulla tela lo spazio tridimensionale, utile a meglio rappresentare il reale.
La ricerca visiva di Bulgini ci porta ad un’apparente negazione della visione, ma in realtà ne è la massima esaltazione; è un invito rivolto alla volontà di vedere che sfrutta un meccanismo di occultamento (che sia proprio la pittura a fornirlo è un paradosso reso possibile dalla maestria tecnica dell’artista) onde neutralizzare la curiositas dello sguardo al fine di concentrarlo rendendolo acuminato quanto basta per forare la protezione di un sapere che non lascia spazio al concetto, ma apre su una figurazione affascinante come lo sono tutti i ritratti di una umanità ferita, fragile, fotosensibile. In questo ritrarsi per donarsi e darsi ritraendosi, le presenze assenti di Bulgini instaurano un rapporto altro con il tempo (della visione). Possono tacere per sempre sotto una coltre di fuliggine smaltata oppure parlare la lingua sconosciuta dell’Averno, e del suo oblio, come morti di ritorno dal regno di Plutone. E come Orfeo o Euridice possono comparire o svanire.
In questa dinamica conturbante e immobile, il rivelarsi dell’immagine contrasta con la pornografica evidenza e la brutale imposizione di tutte le miriadi di immagini urlate dai media, dall’arte impegnata, sociale, di denuncia, ma anche di quella più piacevole come la neo-barocca o di quella scandalistica e cattiva. Con Bulgini si accede ai luoghi segreti della visione, dove essa non è più il riflesso incondizionato di una palpebra satolla quanto indifferente, ma mette in moto un destino personale: un atto di volontà, di ricerca e di contemplazione.
Questo ciclo pittorico, confessa l’artista, definisce una condizione di isolamento in cui la tecnica è il “risultato di un pensiero”. La pittura secondo Bulgini è infatti una condizione di moderna eresia, rispetto all’imperante diktat della nuova arte postmoderna. Ma tutto ciò è positivo, considerato che “l’eretico è colui che ha ancora la possibilità di scegliere, a prescindere dalla giustezza del suo pensiero; è colui che ha un tema originale, un pensiero originale che non cerca conferme. Si sviluppa, si autorigenera. Si dà ragione da sé”, spiega l’artista. Un eretico può essere un visionario che precorre i secoli o un ottuso che si perde nei gorghi della propria follia. Il solipsismo è la sua dimensione ideale. E Bulgini lo esalta coprendo i suoi quadri di uno strato lucido e nero di pittura, che assorbe e riflette l’ambiente circostante, ma non alla maniera di Pistoletto, che cattura la presenza dello spettatore nell’opera d’arte (in quella tautologia del reale che è lo specchio), ma per creare un meccanismo di difesa, un diversivo che possa proteggere quel mondo fragile e cupo custodito dalla sua arte.
La pittura di Bulgini è una delle espressioni più intense del rapporto tra la superficie e la profondità, tra due dimensioni che per l’artista assumono lo statuto di valori culturali e morali, assumendolo attraverso la costruzione di un meccanismo gnoseologico dove il non vedere è metafora della cecità esistenziale in cui versiamo. “Se tu guardi questi soggetti con una luce comune, quindi con un pensiero comune non riesci a vederli, devi utilizzare assolutamente la loro luce, quindi il loro pensiero”. Costruire dipinti che celano in sé le ombre di esistenze “messe a nudo” perché protette dall’oscurità, ha per Bulgini il senso di autentica espressione di un sé più profondo, eretico. Oltrepassare questa “membrana” che cela la pittura, richiede un sacrificio del sé, delle sue convinzioni più superficiali; come, ad esempio, il fatto che la verità sia una illuminazione, un fascio di luce giunto dall’alto a rischiarare il mondo vero. Nel mondo avvolto dalle tenebre di Bulgini invece sorge e prospera un altro concetto di verità: quello mistico di via autentica, propria di ognuno a modo suo, verso il sapere ultimo, la dove il nulla e l’essere dei filosofi ripongono le armi di una lotta apparente per unirsi in una cosa sola. In questa febbre mistica l’autore annulla la pittura nell’oltrepittura, la quale se rischiarata da una lanterna di Diogene può rivelare la sua vita segreta, il volto malinconico di una passione romantica per l’infinito che nella modernità di Bulgini si esprime secondo gli stilemi classici dell’astrazione e del minimalismo, ma anche della figurazione più esistenziale.
“La tecnica che adopero, permette questo nascondimento negando il consumo facile delle immagini, la loro spettacolarizzazione, il contatto immediato”, dice Bulgini, un artista che usa la pittura come grimaldello anacronistico per toccare alcuni temi imperituri di un sapere eretico quanto quello dell’alchimia e della cabala, dove ogni segno e simbolo si legano, entro un grande ordine prestabilito, ad altri segni e simboli. E in questo mondo parallelo vive e opera un artista che si autodefinisce: “un po’ Don Chisciotte, un po’ scemo del paese e un po’ Giordano Bruno”.
Nicola Davide Angerame
La ricerca visiva di Bulgini ci porta ad un’apparente negazione della visione, ma in realtà ne è la massima esaltazione; è un invito rivolto alla volontà di vedere che sfrutta un meccanismo di occultamento (che sia proprio la pittura a fornirlo è un paradosso reso possibile dalla maestria tecnica dell’artista) onde neutralizzare la curiositas dello sguardo al fine di concentrarlo rendendolo acuminato quanto basta per forare la protezione di un sapere che non lascia spazio al concetto, ma apre su una figurazione affascinante come lo sono tutti i ritratti di una umanità ferita, fragile, fotosensibile. In questo ritrarsi per donarsi e darsi ritraendosi, le presenze assenti di Bulgini instaurano un rapporto altro con il tempo (della visione). Possono tacere per sempre sotto una coltre di fuliggine smaltata oppure parlare la lingua sconosciuta dell’Averno, e del suo oblio, come morti di ritorno dal regno di Plutone. E come Orfeo o Euridice possono comparire o svanire.
In questa dinamica conturbante e immobile, il rivelarsi dell’immagine contrasta con la pornografica evidenza e la brutale imposizione di tutte le miriadi di immagini urlate dai media, dall’arte impegnata, sociale, di denuncia, ma anche di quella più piacevole come la neo-barocca o di quella scandalistica e cattiva. Con Bulgini si accede ai luoghi segreti della visione, dove essa non è più il riflesso incondizionato di una palpebra satolla quanto indifferente, ma mette in moto un destino personale: un atto di volontà, di ricerca e di contemplazione.
Questo ciclo pittorico, confessa l’artista, definisce una condizione di isolamento in cui la tecnica è il “risultato di un pensiero”. La pittura secondo Bulgini è infatti una condizione di moderna eresia, rispetto all’imperante diktat della nuova arte postmoderna. Ma tutto ciò è positivo, considerato che “l’eretico è colui che ha ancora la possibilità di scegliere, a prescindere dalla giustezza del suo pensiero; è colui che ha un tema originale, un pensiero originale che non cerca conferme. Si sviluppa, si autorigenera. Si dà ragione da sé”, spiega l’artista. Un eretico può essere un visionario che precorre i secoli o un ottuso che si perde nei gorghi della propria follia. Il solipsismo è la sua dimensione ideale. E Bulgini lo esalta coprendo i suoi quadri di uno strato lucido e nero di pittura, che assorbe e riflette l’ambiente circostante, ma non alla maniera di Pistoletto, che cattura la presenza dello spettatore nell’opera d’arte (in quella tautologia del reale che è lo specchio), ma per creare un meccanismo di difesa, un diversivo che possa proteggere quel mondo fragile e cupo custodito dalla sua arte.
La pittura di Bulgini è una delle espressioni più intense del rapporto tra la superficie e la profondità, tra due dimensioni che per l’artista assumono lo statuto di valori culturali e morali, assumendolo attraverso la costruzione di un meccanismo gnoseologico dove il non vedere è metafora della cecità esistenziale in cui versiamo. “Se tu guardi questi soggetti con una luce comune, quindi con un pensiero comune non riesci a vederli, devi utilizzare assolutamente la loro luce, quindi il loro pensiero”. Costruire dipinti che celano in sé le ombre di esistenze “messe a nudo” perché protette dall’oscurità, ha per Bulgini il senso di autentica espressione di un sé più profondo, eretico. Oltrepassare questa “membrana” che cela la pittura, richiede un sacrificio del sé, delle sue convinzioni più superficiali; come, ad esempio, il fatto che la verità sia una illuminazione, un fascio di luce giunto dall’alto a rischiarare il mondo vero. Nel mondo avvolto dalle tenebre di Bulgini invece sorge e prospera un altro concetto di verità: quello mistico di via autentica, propria di ognuno a modo suo, verso il sapere ultimo, la dove il nulla e l’essere dei filosofi ripongono le armi di una lotta apparente per unirsi in una cosa sola. In questa febbre mistica l’autore annulla la pittura nell’oltrepittura, la quale se rischiarata da una lanterna di Diogene può rivelare la sua vita segreta, il volto malinconico di una passione romantica per l’infinito che nella modernità di Bulgini si esprime secondo gli stilemi classici dell’astrazione e del minimalismo, ma anche della figurazione più esistenziale.
“La tecnica che adopero, permette questo nascondimento negando il consumo facile delle immagini, la loro spettacolarizzazione, il contatto immediato”, dice Bulgini, un artista che usa la pittura come grimaldello anacronistico per toccare alcuni temi imperituri di un sapere eretico quanto quello dell’alchimia e della cabala, dove ogni segno e simbolo si legano, entro un grande ordine prestabilito, ad altri segni e simboli. E in questo mondo parallelo vive e opera un artista che si autodefinisce: “un po’ Don Chisciotte, un po’ scemo del paese e un po’ Giordano Bruno”.
Nicola Davide Angerame
09
maggio 2006
Alessandro Bulgini – Hairetikos
Dal 09 maggio al 30 giugno 2006
arte contemporanea
Location
PHOTO & CONTEMPORARY
Torino, Via Dei Mille, 36, (Torino)
Torino, Via Dei Mille, 36, (Torino)
Orario di apertura
da martedì a sabato dalle 15.30 alle 19.30
Vernissage
9 Maggio 2006, ore 18
Autore
Curatore