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Amedeo Vergani – Feste religiose in Sicilia: tra fede cristiana e riti pagani
Le oltre quaranta fotografie di questo reportage, che indaga per immagini la natura sincretica degli apparati e dei riti religiosi siciliani, ci riporta nell’isola continente con la prima mostra postuma dedicata, a circa un anno dalla sua scomparsa, ad Amedeo Vergani
Comunicato stampa
Segnala l'evento
“L'Italia senza la Sicilia non lascia immagine nello spirito: soltanto qui è la chiave di tutto.”
Johann Wolfgang von GOETHE, Viaggio in Italia, 1817
La Galleria Fotografica Luigi Ghirri di Caltagirone CT,
nasce in Sicilia oltre dieci anni fa e in Sicilia oggi torna a specchiarsi attraverso le fotografie di uno splendido reportage che l’obiettivo e lo sguardo di Amedeo VERGANI – fotoreporter comasco, globetrotter accorto e curioso – avevano sapientemente composto percorrendo, da Oriente a Occidente, l’isola per città, paesi e villaggi teatro di enfatiche feste religiose, successivamente illustrate su prestigiose riviste internazionali.
Una mostra preziosa, questa proposta in concomitanza con la XIII Settimana della Cultura promossa dal MIBAC, che, grazie ad una nuova e lungimirante intuizione della Ghirri, ha trovato la pronta disponibilità dei famigliari del fotografo scomparso nonché l’attiva collaborazione di Fausto GIACCONE, fotoreporter amico recentemente ospitato in Galleria. A tutti loro, pubblicamente, qui esprimiamo la nostra gratitudine.
Noi non abbiamo avuto la ventura di conoscere personalmente Amedeo VERGANI.
Il nostro immaginario visivo però certamente conosce – anzi riconosce – il codice cifrato della sua tavolozza fotografica dai colori saturi, la gamma mutevole e atmosferica delle luci, i tagli sapienti e la maestria di chi, per sensibilità innata ed esperienza acquisita sul campo, sa come trattare con le innumerevoli possibilità che la visione sottopone allo sguardo.
Amedeo – il fotografo, come tanti prima e dopo di lui – qui compie il suo tour antropologico in uno dei luoghi, forse, più rischiosamente impregnati di storia del pianeta: in questa terra che brucia in mezzo al mare, dove il presente continua a crepitare in cortocircuiti di dubbia matrice interculturale, pur componendo abilmente i suoi scatti stranianti professionalmente ritagliati sui format editoriali – quante di queste fotografie rimandano ad altre latitudini e culture? – lui, VERGANI, tratteggia la sua ricerca che non è mai freddo inventario o distaccata documentazione ma anzi tradisce l’incanto, la meraviglia e la sorpresa che poi ritornano in chi si ferma a indugiare su quei cieli infiniti, quegli orizzonti smisurati, quelle luci taglienti o quegli sguardi profondi.
Lui, VERGANI, è uomo anche se fotografo: anche se professionalmente impegnati, in queste immagini, i suoi occhi restano umani di fronte allo stupore di una terra dove la stratificazione e la contaminazione di riti, culture, teatralità e gestualità contribuiscono ancora a rimescolare date e coordinate geografiche.
Fotografare la Sicilia, forse, è più facile per un siciliano.
Forse il fantasma della cartolina e l’ombra del cliché, sedimentati da secoli di raffigurazioni dell’isola e dei suoi abitanti non sono mai realmente attecchiti nei siciliani che quest’isola la vivono e la vedono dall’interno. Forse come Fabrizio, il principe Gattopardo, la visione come l’obiettivo di un siciliano, uomo e fotografo, non possono non esprimere quella disillusione atavica che ne vela e frena la curiosità e la fantasmagoria.
Ma nessuno conosce il proprio volto se non toccandolo o guardandone il riflesso o la sua raffigurazione.
Forse sta proprio qui la chiave dell’inganno affabulatore delle fotografie di VERGANI: anche un siciliano, per quanto disilluso, necessita di uno specchio ove guardare e riconoscere i suoi volti millenari. E Amedeo, con la sua fotografia, ci dona la sua quintessenza della nostra immagine riflessa.
Sebastiano FAVITTA e Attilio GERBINO
Galleria Fotografica Luigi GHIRRI
Caltagirone, aprile 2011
“Dove c'è molta luce, l'ombra è più nera.”
Johann Wolfgang von GOETHE, dal Götz von Berlichingen, Atto I, 1773
“ In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di 'fare'.
Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui noi abbiamo dato il 'la'; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei Chevalley, e quanto la regina d'Inghilterra; eppure da duemilacinquecento anni siamo colonia.
Non lo dico per lagnarmi: è colpa nostra. Ma siamo stanchi e svuotati lo stesso."
Giuseppe TOMASI di LAMPEDUSA, il Principe Fabrizio ad Ainone Chevalley di Montezemolo ne Il Gattopardo, Feltrinelli, 1958
L’attimo d’anticipo di Amedeo VERGANI
Con molti suoni e molti
balli, quest’oggi il Santo
celebra la sua sagra
nel fervore dei vivi.
Calano, allegri rivi
dal teatro dei monti
ruvidi, i trafelati
cori.
Mentre acri roghi
bruciano fra gli spari,
al centro dei fatui giochi
puerili s’appaiano gai
i giovani ai subitanei
fuochi.
(Col viso secco, e senza
riso, è cieca intanto
chiusa nella sua urna
la reliquia del Santo).
Giorgio CAPRONI, Sagra, 1935 – 1937
Apro questa riflessione sull’opera di Amedeo VERGANI, oggi in esposizione alla Galleria Luigi GHIRRI di Caltagirone, con una poesia di Giorgio CAPRONI che mi pare significativa nel fornire una delle possibili chiavi di lettura delle sue fotografie.
La poesia di CAPRONI può essere letta, in un gioco di specchi, come una sequenza di immagini colte in una sagra paesana: è possibile figurarsi – quasi si possano vedere e annusare – una processione, dei balli, la banda, i cori, i falò che incendiano la notte di fumo acre, spari, fuochi d’artificio, giochi di bambini. E in questa festa, colta nel fervore della vita, la reliquia del Santo ha un viso secco, senza riso, e viene chiusa cieca nella sua urna.
Stride il contrasto fra la vita che pulsa nel cuore di una festa paesana, e la fissità assente delle reliquie portate proprio nella processione per cui la sagra è celebrata.
Questo è ciò che mi colpisce nelle fotografie di Amedeo VERGANI: la vita che vibra da ogni immagine al di là del rituale che viene messo in scena. Può essere l’occhio che guarda nell’obiettivo attraverso il cappuccio della tonaca di un confratello, il giovane appoggiato a un portone che osserva la ragazza in abito popolare, il bambino che sbuca da un fianco dell’anziano portatore di una corona di datteri. E se di persone non si tratta, la vita freme nel ritaglio di una pin-up inaspettatamente sorpresa sul cimiero di uno dei Giudei di San Fratello, nella coppia di danzatori ricamati sulla giubba di un altro, nelle colombe che si librano in cielo. La vita palpita in sapienti giochi di luce e di ombra, nei cieli gonfi di nubi, nel sole che riscalda e riluce in un cuore votivo appuntato sul petto di una devota, nella luce di un viso tagliato di tre quarti, splendente quanto la gloria dietro alla quale si ripara.
Urge il contrasto fra la fissa immobilità dei Cristi lignei, e i volti intensi di donne in preghiera, di persone anziane segnate dalle rughe che la vita ha inciso sui loro volti. Volti intensi, su sfondi di paesi e panorami siciliani, velluti, broccati, tabarri e perfino fucili in questo reportage che si dipana fra liturgia e humanitas.
E’ un vento che rotola,
tiepido,
a primavera veste di sé i fiori
e di colori i bastioni.
Franano le pietre
e quel che resta io colgo
sul ciglio dell’acque.
E il canto delle cose perdute
si fa vivo tra oleandri
e fichi d’India.
La mia gente.
La mia piazza.
E dai balconi,
l’eco dei singhiozzi
avvolti in scialli neri
di donne sole.
Riemersa malinconia
riappari e non sei più qui.
Alfonso MICELI, A sud del mio cuore, 2010
E’ nato in Sicilia il poeta che in questa lirica celebra la sua terra, e ci fa riflettere come l’eco dei poeti si annidi fra le luci e le ombre di qualsiasi iconografia, tanto quanto molte poesie si trasfigurano nella nostra immaginazione nella visione di ciò che il poeta ha scelto di cantare.
E’ con una poesia, quindi, che voglio chiudere questa riflessione dedicata ad Amedeo VERGANI, questo artista che ha celebrato la vita in forme così intense, e la cui vita è stata interrotta in modo inatteso e improvviso. Amedeo VERGANI ci ha lasciati fisicamente, ma la sua vita e il suo pensiero, quel pensiero passante per l’obiettivo della sua camera, innamorato della vita stessa, non smettono di palpitare attraverso le sue fotografie, eredità vibrante con la quale egli ha sconfitto la morte, arrivata comunque in ritardo di un attimo, incapace di sottrargli i traguardi raggiunti.
I cuori battono nelle uova. Crescono gli scheletri dei neonati.
Dai semi spuntano le prime due foglioline,
e spesso anche grandi alberi all'orizzonte.
Chi ne afferma l'onnipotenza
è lui stesso la prova vivente
che essa onnipotente non è.
Non c'è vita
che almeno per un attimo
non sia immortale.
La morte
è sempre in ritardo di quell'attimo.
Invano scuote la maniglia
d'una porta invisibile.
A nessuno può sottrarre
il tempo raggiunto.
Wislawa SZYMBORSKA , Sulla morte, senza esagerare, 1986
Marina BENEDETTO
Galleria Fotografica Luigi GHIRRI
Savona, marzo 2011
È “festa”
“Nella liturgia, pubblico servizio offerto dalla comunità per custodire la memoria, è facile riconoscere e distinguere le forme dei segni che ci siamo inventati: innanzi tutto, il “teatro”, odèon laddove un uomo immola il tragos chiedendo al dramma il senso della propria esistenza; poi, il “cammino”, itinerario entro cui risolvere l’attenzione alla natura, al tempo ed al suo volgersi e mutarsi; ed infine il “rito”, cerimonia per rendere e restituire l’espressione visiva e sonora dell’evento.
Ritorna, quindi, l’immagine quale eterna mediatrice tra la vita e la morte, tra il visibile e l’invisibile.
Torna l’imago che nell’antichità è la maschera funebre, il legame con la morte che trapassa agevolmente dal mondo pagano nel mondo cristiano proprio perché le immagini difendono il significato “diverso” della morte, ne preservano la memoria e quell’identità che ha intrappolato tempo e spazio e che, ormai, attende solo chi la liberi e gli dia vita ed espressione.
La rappresentazione diventa, allora, l’occasione che rende presente l’assente, assumendo quel valore simbolico chiaro ed evidente nell’etimo di simbòlon, la tessera spezzata le cui metà si utilizzano per il reciproco riconoscimento.
Nella Passione Santa la comunità si riconosce, s’immedesima, diventa interprete di ogni momento di quest’intreccio di festa e teatro; penetra fiduciosamente l’evento del mondo con gli strumenti della recitazione e della rappresentazione, fa partecipare al rito la natura stessa. BUFALINO vi individuerà il desiderio tutto siciliano di sentirsi attore prima dolente, poi esultante, di un mistero che è la sua stessa esistenza.
Ma questo mistero dell’esistenza trova nella rappresentazione dei misteri pasquali – morte, resurrezione ed ascesa al cielo – la più sincera rivelazione: tutto è segno.
Segno è sema, pietra tombale, e nella lingua di Omero sema chein significa erigere un sepolcro. Nella liturgia della Passione Santa (ed ancor più nella tradizione greca ortodossa) non facciamo altro che recuperare queste evidenze e somiglianze per riaffermare che la discesa agli inferi di Gesù attesta che lui è morto veramente. Lo sa per prima sua madre che, addolorata, ne accompagna il corpo alla sepoltura. La Madre è assolutamente consapevole che quel figlio ha conosciuto la vera morte: è la morte, infatti, quella che ormai si è spenta nel corpo di suo figlio. La morte vera ha colpito solo lui che è morto di una morte che nessuno prima di lui aveva redento. Oltre questa morte c’è la vita, ed è realtà tutta ed ancora da rappresentare.
Non è per questa ragione che cerchiamo, nelle Settimane di Sante Passioni, in Sicilia e dappertutto, la contemplazione che contrasti la rappresentazione di una morte mero orizzonte del nulla?
Si, è vero, tutto muore nello stesso attimo in cui vive, e passa e svanisce. E questa morte contrassegna i nostri sentimenti e definisce i nostri pensieri ed i nostri atti segnandoli con l’esperienza dolorosa del limite. Ma oggi camminiamo tutti per accompagnare la nostra umanità che, come quella di Cristo, vuol tornare alla casa del padre. E vogliamo conservare l’immagine del nostro cammino”.
Qualche anno addietro, annotando gli illustri contributi dei fotografi, chiudevo con queste considerazioni il mio lavoro sulle Feste Religiose in Sicilia. Ma, nel tempo circolare della festa, e di tutte le feste, ecco, inaspettata, giungere una nuova visione. E tale novità giunge provvidenziale non tanto a riconciliarci con quanto ogni festa riesce ancora a rappresentare o effettualmente rappresenta (io amo le “feste” sempre e comunque) quanto con il loro desiderio di sopravvivere che, se un tempo trovava nella mediazione tra memoria pagana e metamorfosi cristiana una logica di continuità, oggi incredibilmente riafferma la propria vitalità tra un non voler scomparire agli occhi di chi vuole fare festa ed un apparentamento con le istituzioni civili che ne amministrano, in modo interessato, la memoria.
Alla loro vitalità, in ogni caso, contribuiscono gli sguardi fotografici che spingono la “bella rappresentazione” verso il documento di una vicenda nuova che riesce a raccogliere gli elementi di un paesaggio ancora bellissimo, l’umano contesto urbano che un tempo ebbe un senso anche in funzione di una processione, una comunità che intende ritornare protagonista della propria esistenza, e i simboli, tanti simboli, senza i quali saremmo costretti a fare sempre domande, troppe domande.
VERGANI aggiunge il suo sguardo attento, curioso, benevolo, a volte stupito. Sa dove trovare il momento vitale della festa, il cardine emotivo, il fulcro della passione. Lo fa con gentilezza, con cortesia rispettando i volti che ha davanti, i loro tempi, le loro emozioni. Per sé, trattiene il tempo della discrezione, del rispetto, ed ancora, la ricerca del dettaglio prezioso, del contrappunto visivo, dell’affioramento del peculiare.
Perché fotografando le feste religiose in Sicilia, di là delle considerazioni di natura demologica o antropologica o religiosa, di questo, se si è fotografi, si tratta: attendere che qualcosa affiori, che si manifesti, che si renda visibile.
VERGANI in queste immagini sorride ancora (e per sempre) nell’attesa di questo affiorare. Conseguentemente le sue immagini ci parlano ancora (e per sempre) della fiducia nella comune, convissuta esistenza.
Pippo PAPPALARDO
per la Galleria Fotografica Luigi GHIRRI
Catania, marzo 2011
È facile essere felici in Sicilia, ma è un’operazione che richiede un adattamento biologico oltre che culturale:
bisogna imparare a vivere il tempo alla maniera siciliana.
Francine PROSE, Odissea siciliana, Feltrinelli 2004
Lo conoscevo già e conoscevo il suo lavoro
Ma sono convinto che sia determinante, per capire un fotografo, il suo approccio alla vita, al fatto, al mestiere, vederlo lavorare. Una certa maniera di stare lì, apparentemente distratto, imbambolato, e poi vederlo improvvisamente scattare come un centometrista, fare quella danza misteriosa, tre passi veloci, uno indietro, una piccola flessione. Quel sollevarsi in punta di piedi e a te, che sei del mestiere, sembra di capire esattamente che cosa ha visto, che inquadratura farà, che obiettivo ha sulla macchina, perché quel momento e non un altro, quel particolare, e magari senti una fitta di invidia. E di amicizia, se hai scoperto una sintonia, psicologica, tecnica, etica, narrativa.
Uno lo annusa subito un buon fotografo, e dico un fotografo consapevole, onesto, che non ciurla per il manico, che non vuol darla a bere. Amedeo era un buon fotografo, e onesto.
Lo testimoniano le sue fotografie. Lo ha testimoniato, fino alla fine, la sua vita.
Ferdinando SCIANNA
per la Galleria Fotografica Luigi GHIRRI
Milano, marzo 2011
Johann Wolfgang von GOETHE, Viaggio in Italia, 1817
La Galleria Fotografica Luigi Ghirri di Caltagirone CT,
nasce in Sicilia oltre dieci anni fa e in Sicilia oggi torna a specchiarsi attraverso le fotografie di uno splendido reportage che l’obiettivo e lo sguardo di Amedeo VERGANI – fotoreporter comasco, globetrotter accorto e curioso – avevano sapientemente composto percorrendo, da Oriente a Occidente, l’isola per città, paesi e villaggi teatro di enfatiche feste religiose, successivamente illustrate su prestigiose riviste internazionali.
Una mostra preziosa, questa proposta in concomitanza con la XIII Settimana della Cultura promossa dal MIBAC, che, grazie ad una nuova e lungimirante intuizione della Ghirri, ha trovato la pronta disponibilità dei famigliari del fotografo scomparso nonché l’attiva collaborazione di Fausto GIACCONE, fotoreporter amico recentemente ospitato in Galleria. A tutti loro, pubblicamente, qui esprimiamo la nostra gratitudine.
Noi non abbiamo avuto la ventura di conoscere personalmente Amedeo VERGANI.
Il nostro immaginario visivo però certamente conosce – anzi riconosce – il codice cifrato della sua tavolozza fotografica dai colori saturi, la gamma mutevole e atmosferica delle luci, i tagli sapienti e la maestria di chi, per sensibilità innata ed esperienza acquisita sul campo, sa come trattare con le innumerevoli possibilità che la visione sottopone allo sguardo.
Amedeo – il fotografo, come tanti prima e dopo di lui – qui compie il suo tour antropologico in uno dei luoghi, forse, più rischiosamente impregnati di storia del pianeta: in questa terra che brucia in mezzo al mare, dove il presente continua a crepitare in cortocircuiti di dubbia matrice interculturale, pur componendo abilmente i suoi scatti stranianti professionalmente ritagliati sui format editoriali – quante di queste fotografie rimandano ad altre latitudini e culture? – lui, VERGANI, tratteggia la sua ricerca che non è mai freddo inventario o distaccata documentazione ma anzi tradisce l’incanto, la meraviglia e la sorpresa che poi ritornano in chi si ferma a indugiare su quei cieli infiniti, quegli orizzonti smisurati, quelle luci taglienti o quegli sguardi profondi.
Lui, VERGANI, è uomo anche se fotografo: anche se professionalmente impegnati, in queste immagini, i suoi occhi restano umani di fronte allo stupore di una terra dove la stratificazione e la contaminazione di riti, culture, teatralità e gestualità contribuiscono ancora a rimescolare date e coordinate geografiche.
Fotografare la Sicilia, forse, è più facile per un siciliano.
Forse il fantasma della cartolina e l’ombra del cliché, sedimentati da secoli di raffigurazioni dell’isola e dei suoi abitanti non sono mai realmente attecchiti nei siciliani che quest’isola la vivono e la vedono dall’interno. Forse come Fabrizio, il principe Gattopardo, la visione come l’obiettivo di un siciliano, uomo e fotografo, non possono non esprimere quella disillusione atavica che ne vela e frena la curiosità e la fantasmagoria.
Ma nessuno conosce il proprio volto se non toccandolo o guardandone il riflesso o la sua raffigurazione.
Forse sta proprio qui la chiave dell’inganno affabulatore delle fotografie di VERGANI: anche un siciliano, per quanto disilluso, necessita di uno specchio ove guardare e riconoscere i suoi volti millenari. E Amedeo, con la sua fotografia, ci dona la sua quintessenza della nostra immagine riflessa.
Sebastiano FAVITTA e Attilio GERBINO
Galleria Fotografica Luigi GHIRRI
Caltagirone, aprile 2011
“Dove c'è molta luce, l'ombra è più nera.”
Johann Wolfgang von GOETHE, dal Götz von Berlichingen, Atto I, 1773
“ In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di 'fare'.
Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui noi abbiamo dato il 'la'; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei Chevalley, e quanto la regina d'Inghilterra; eppure da duemilacinquecento anni siamo colonia.
Non lo dico per lagnarmi: è colpa nostra. Ma siamo stanchi e svuotati lo stesso."
Giuseppe TOMASI di LAMPEDUSA, il Principe Fabrizio ad Ainone Chevalley di Montezemolo ne Il Gattopardo, Feltrinelli, 1958
L’attimo d’anticipo di Amedeo VERGANI
Con molti suoni e molti
balli, quest’oggi il Santo
celebra la sua sagra
nel fervore dei vivi.
Calano, allegri rivi
dal teatro dei monti
ruvidi, i trafelati
cori.
Mentre acri roghi
bruciano fra gli spari,
al centro dei fatui giochi
puerili s’appaiano gai
i giovani ai subitanei
fuochi.
(Col viso secco, e senza
riso, è cieca intanto
chiusa nella sua urna
la reliquia del Santo).
Giorgio CAPRONI, Sagra, 1935 – 1937
Apro questa riflessione sull’opera di Amedeo VERGANI, oggi in esposizione alla Galleria Luigi GHIRRI di Caltagirone, con una poesia di Giorgio CAPRONI che mi pare significativa nel fornire una delle possibili chiavi di lettura delle sue fotografie.
La poesia di CAPRONI può essere letta, in un gioco di specchi, come una sequenza di immagini colte in una sagra paesana: è possibile figurarsi – quasi si possano vedere e annusare – una processione, dei balli, la banda, i cori, i falò che incendiano la notte di fumo acre, spari, fuochi d’artificio, giochi di bambini. E in questa festa, colta nel fervore della vita, la reliquia del Santo ha un viso secco, senza riso, e viene chiusa cieca nella sua urna.
Stride il contrasto fra la vita che pulsa nel cuore di una festa paesana, e la fissità assente delle reliquie portate proprio nella processione per cui la sagra è celebrata.
Questo è ciò che mi colpisce nelle fotografie di Amedeo VERGANI: la vita che vibra da ogni immagine al di là del rituale che viene messo in scena. Può essere l’occhio che guarda nell’obiettivo attraverso il cappuccio della tonaca di un confratello, il giovane appoggiato a un portone che osserva la ragazza in abito popolare, il bambino che sbuca da un fianco dell’anziano portatore di una corona di datteri. E se di persone non si tratta, la vita freme nel ritaglio di una pin-up inaspettatamente sorpresa sul cimiero di uno dei Giudei di San Fratello, nella coppia di danzatori ricamati sulla giubba di un altro, nelle colombe che si librano in cielo. La vita palpita in sapienti giochi di luce e di ombra, nei cieli gonfi di nubi, nel sole che riscalda e riluce in un cuore votivo appuntato sul petto di una devota, nella luce di un viso tagliato di tre quarti, splendente quanto la gloria dietro alla quale si ripara.
Urge il contrasto fra la fissa immobilità dei Cristi lignei, e i volti intensi di donne in preghiera, di persone anziane segnate dalle rughe che la vita ha inciso sui loro volti. Volti intensi, su sfondi di paesi e panorami siciliani, velluti, broccati, tabarri e perfino fucili in questo reportage che si dipana fra liturgia e humanitas.
E’ un vento che rotola,
tiepido,
a primavera veste di sé i fiori
e di colori i bastioni.
Franano le pietre
e quel che resta io colgo
sul ciglio dell’acque.
E il canto delle cose perdute
si fa vivo tra oleandri
e fichi d’India.
La mia gente.
La mia piazza.
E dai balconi,
l’eco dei singhiozzi
avvolti in scialli neri
di donne sole.
Riemersa malinconia
riappari e non sei più qui.
Alfonso MICELI, A sud del mio cuore, 2010
E’ nato in Sicilia il poeta che in questa lirica celebra la sua terra, e ci fa riflettere come l’eco dei poeti si annidi fra le luci e le ombre di qualsiasi iconografia, tanto quanto molte poesie si trasfigurano nella nostra immaginazione nella visione di ciò che il poeta ha scelto di cantare.
E’ con una poesia, quindi, che voglio chiudere questa riflessione dedicata ad Amedeo VERGANI, questo artista che ha celebrato la vita in forme così intense, e la cui vita è stata interrotta in modo inatteso e improvviso. Amedeo VERGANI ci ha lasciati fisicamente, ma la sua vita e il suo pensiero, quel pensiero passante per l’obiettivo della sua camera, innamorato della vita stessa, non smettono di palpitare attraverso le sue fotografie, eredità vibrante con la quale egli ha sconfitto la morte, arrivata comunque in ritardo di un attimo, incapace di sottrargli i traguardi raggiunti.
I cuori battono nelle uova. Crescono gli scheletri dei neonati.
Dai semi spuntano le prime due foglioline,
e spesso anche grandi alberi all'orizzonte.
Chi ne afferma l'onnipotenza
è lui stesso la prova vivente
che essa onnipotente non è.
Non c'è vita
che almeno per un attimo
non sia immortale.
La morte
è sempre in ritardo di quell'attimo.
Invano scuote la maniglia
d'una porta invisibile.
A nessuno può sottrarre
il tempo raggiunto.
Wislawa SZYMBORSKA , Sulla morte, senza esagerare, 1986
Marina BENEDETTO
Galleria Fotografica Luigi GHIRRI
Savona, marzo 2011
È “festa”
“Nella liturgia, pubblico servizio offerto dalla comunità per custodire la memoria, è facile riconoscere e distinguere le forme dei segni che ci siamo inventati: innanzi tutto, il “teatro”, odèon laddove un uomo immola il tragos chiedendo al dramma il senso della propria esistenza; poi, il “cammino”, itinerario entro cui risolvere l’attenzione alla natura, al tempo ed al suo volgersi e mutarsi; ed infine il “rito”, cerimonia per rendere e restituire l’espressione visiva e sonora dell’evento.
Ritorna, quindi, l’immagine quale eterna mediatrice tra la vita e la morte, tra il visibile e l’invisibile.
Torna l’imago che nell’antichità è la maschera funebre, il legame con la morte che trapassa agevolmente dal mondo pagano nel mondo cristiano proprio perché le immagini difendono il significato “diverso” della morte, ne preservano la memoria e quell’identità che ha intrappolato tempo e spazio e che, ormai, attende solo chi la liberi e gli dia vita ed espressione.
La rappresentazione diventa, allora, l’occasione che rende presente l’assente, assumendo quel valore simbolico chiaro ed evidente nell’etimo di simbòlon, la tessera spezzata le cui metà si utilizzano per il reciproco riconoscimento.
Nella Passione Santa la comunità si riconosce, s’immedesima, diventa interprete di ogni momento di quest’intreccio di festa e teatro; penetra fiduciosamente l’evento del mondo con gli strumenti della recitazione e della rappresentazione, fa partecipare al rito la natura stessa. BUFALINO vi individuerà il desiderio tutto siciliano di sentirsi attore prima dolente, poi esultante, di un mistero che è la sua stessa esistenza.
Ma questo mistero dell’esistenza trova nella rappresentazione dei misteri pasquali – morte, resurrezione ed ascesa al cielo – la più sincera rivelazione: tutto è segno.
Segno è sema, pietra tombale, e nella lingua di Omero sema chein significa erigere un sepolcro. Nella liturgia della Passione Santa (ed ancor più nella tradizione greca ortodossa) non facciamo altro che recuperare queste evidenze e somiglianze per riaffermare che la discesa agli inferi di Gesù attesta che lui è morto veramente. Lo sa per prima sua madre che, addolorata, ne accompagna il corpo alla sepoltura. La Madre è assolutamente consapevole che quel figlio ha conosciuto la vera morte: è la morte, infatti, quella che ormai si è spenta nel corpo di suo figlio. La morte vera ha colpito solo lui che è morto di una morte che nessuno prima di lui aveva redento. Oltre questa morte c’è la vita, ed è realtà tutta ed ancora da rappresentare.
Non è per questa ragione che cerchiamo, nelle Settimane di Sante Passioni, in Sicilia e dappertutto, la contemplazione che contrasti la rappresentazione di una morte mero orizzonte del nulla?
Si, è vero, tutto muore nello stesso attimo in cui vive, e passa e svanisce. E questa morte contrassegna i nostri sentimenti e definisce i nostri pensieri ed i nostri atti segnandoli con l’esperienza dolorosa del limite. Ma oggi camminiamo tutti per accompagnare la nostra umanità che, come quella di Cristo, vuol tornare alla casa del padre. E vogliamo conservare l’immagine del nostro cammino”.
Qualche anno addietro, annotando gli illustri contributi dei fotografi, chiudevo con queste considerazioni il mio lavoro sulle Feste Religiose in Sicilia. Ma, nel tempo circolare della festa, e di tutte le feste, ecco, inaspettata, giungere una nuova visione. E tale novità giunge provvidenziale non tanto a riconciliarci con quanto ogni festa riesce ancora a rappresentare o effettualmente rappresenta (io amo le “feste” sempre e comunque) quanto con il loro desiderio di sopravvivere che, se un tempo trovava nella mediazione tra memoria pagana e metamorfosi cristiana una logica di continuità, oggi incredibilmente riafferma la propria vitalità tra un non voler scomparire agli occhi di chi vuole fare festa ed un apparentamento con le istituzioni civili che ne amministrano, in modo interessato, la memoria.
Alla loro vitalità, in ogni caso, contribuiscono gli sguardi fotografici che spingono la “bella rappresentazione” verso il documento di una vicenda nuova che riesce a raccogliere gli elementi di un paesaggio ancora bellissimo, l’umano contesto urbano che un tempo ebbe un senso anche in funzione di una processione, una comunità che intende ritornare protagonista della propria esistenza, e i simboli, tanti simboli, senza i quali saremmo costretti a fare sempre domande, troppe domande.
VERGANI aggiunge il suo sguardo attento, curioso, benevolo, a volte stupito. Sa dove trovare il momento vitale della festa, il cardine emotivo, il fulcro della passione. Lo fa con gentilezza, con cortesia rispettando i volti che ha davanti, i loro tempi, le loro emozioni. Per sé, trattiene il tempo della discrezione, del rispetto, ed ancora, la ricerca del dettaglio prezioso, del contrappunto visivo, dell’affioramento del peculiare.
Perché fotografando le feste religiose in Sicilia, di là delle considerazioni di natura demologica o antropologica o religiosa, di questo, se si è fotografi, si tratta: attendere che qualcosa affiori, che si manifesti, che si renda visibile.
VERGANI in queste immagini sorride ancora (e per sempre) nell’attesa di questo affiorare. Conseguentemente le sue immagini ci parlano ancora (e per sempre) della fiducia nella comune, convissuta esistenza.
Pippo PAPPALARDO
per la Galleria Fotografica Luigi GHIRRI
Catania, marzo 2011
È facile essere felici in Sicilia, ma è un’operazione che richiede un adattamento biologico oltre che culturale:
bisogna imparare a vivere il tempo alla maniera siciliana.
Francine PROSE, Odissea siciliana, Feltrinelli 2004
Lo conoscevo già e conoscevo il suo lavoro
Ma sono convinto che sia determinante, per capire un fotografo, il suo approccio alla vita, al fatto, al mestiere, vederlo lavorare. Una certa maniera di stare lì, apparentemente distratto, imbambolato, e poi vederlo improvvisamente scattare come un centometrista, fare quella danza misteriosa, tre passi veloci, uno indietro, una piccola flessione. Quel sollevarsi in punta di piedi e a te, che sei del mestiere, sembra di capire esattamente che cosa ha visto, che inquadratura farà, che obiettivo ha sulla macchina, perché quel momento e non un altro, quel particolare, e magari senti una fitta di invidia. E di amicizia, se hai scoperto una sintonia, psicologica, tecnica, etica, narrativa.
Uno lo annusa subito un buon fotografo, e dico un fotografo consapevole, onesto, che non ciurla per il manico, che non vuol darla a bere. Amedeo era un buon fotografo, e onesto.
Lo testimoniano le sue fotografie. Lo ha testimoniato, fino alla fine, la sua vita.
Ferdinando SCIANNA
per la Galleria Fotografica Luigi GHIRRI
Milano, marzo 2011
09
aprile 2011
Amedeo Vergani – Feste religiose in Sicilia: tra fede cristiana e riti pagani
Dal 09 aprile al 22 maggio 2011
fotografia
Location
GALLERIA FOTOGRAFICA LUIGI GHIRRI
Caltagirone, Via Duomo, 11, (Catania)
Caltagirone, Via Duomo, 11, (Catania)
Orario di apertura
lun./dom. 9.30 -12.30, 16.00 -19.00
Vernissage
9 Aprile 2011, ore 18.30
Autore
Curatore