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Annamaria Targher – I Dodici
Riscatto o prodotto come quintessenza di quella “tela bianca del quadro” che secondo Marica Rossi è “superficie da vivere e non da riempire”: spazio, dove è possibile “coniugare il gesto pittorico con l’attitudine cromatica” nell’esito, comunque, di un “trasporto vitalistico
Comunicato stampa
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“Gli esseri dell’iperspazio sono suscettibili di definizioni precise come quelli dello spazio ordinario; possiamo concepirli e studiarli ma non rappresentarli.”
Henri Poincaré
“[…] tranne che come forme liberate.”
Marcel Duchamp
Dodici dipinti ad olio abitano, temporaneamente, l’Oratorio dedicato alla Vergine.
Riscatto o prodotto come quintessenza di quella “tela bianca del quadro” che secondo Marica Rossi è “superficie da vivere e non da riempire”: spazio, dove è possibile “coniugare il gesto pittorico con l’attitudine cromatica” nell’esito, comunque, di un “trasporto vitalistico” (Maurizio Scudiero).
Parallelamente a Marcel Duchamp che, riguardo al suo Grande Vetro, sostenne come la genesi fosse “esterna ad ogni preoccupazione religiosa o antireligiosa” per essere in realtà “la copia di una copia dell’Idea”, in tutta la “trepidazione che avvolge la campitura di ogni lavoro” di Annamaria Targher è possibile avvertire (come ha scritto Mario Cossali) anche “un pensiero, un disegno ragionante”. Il gesto pittorico ed il colore sono capaci quindi di “trasformare il dato di realtà attraversandolo con una lente onirica potente e disinibita” (sempre Cossali).
Se la base culturale di Duchamp è rappresentata, anche e non solo, da “quella corrente di neoplatonismo che, dalla fine del XV secolo, ha irrigato il suolo e il sottosuolo della nostra civiltà” (Octavio Paz), la città di Padova si distingue per essere stata caratterizzata, nello stesso periodo, dalla presenza di un particolare tipo di aristotelismo, a tal punto contaminato da Averroè, che il posto del primo viene preso in realtà da Platone, o meglio dalla contemporanea trasposizione neoplatonica. Se nell’opera del maestro francese, è indiscusso vi sia una figura femminile rappresentata (tra le tante ipotesi identificative: la grande Dea, la Vergine, la Madre), nell’Oratorio si evoca la presenza dei Dodici: “nel groviglio di linee” di queste “speciali tavole delle ansietà e dei desideri […] si intravedono figure più o meno consistenti” (Cossali). Similmente, è anche un’ “insospettata leggerezza” (Scudiero) nei lavori della Targher che, in barba alle abbondanti misure, pone un nuovo dialogo con la ricerca e le dichiarazioni di Duchamp: “la realtà vera è sfuggente” non solamente perché è cangiante ma semplicemente “perché vive in un’altra sfera, in un’altra dimensione”. Sempre in Duchamp, alla metafisica di origine neoplatonica si aggiunge infatti come humus, il riferimento a talune nozioni popolari della fisica moderna: speculazioni sulla geometria non – euclidea e, soprattutto, riguardo la quarta dimensione.
Parimenti, nei quadri “su grandi dimensioni” della Targher, Maurizio Scudiero ha individuato, “nel dinamico incalzare di una gestualità che non è mai disordinata”, “ritmi e direzionalità che sono strutturali”.
A questo punto il passaggio ad un riferimento che riguardi l’opera di Mark Rothko può avvenire: sia perché, come ha scritto Harold Rosenberg, Rothko rappresenta “la sfera teologica dell’espressionismo astratto”, sia perché, a partire dagli anni ’50, per il pittore diventa urgente individuare una possibilità conciliatoria tra pittura e architettura. L’artista russo, infatti, supponeva che accanto alla realtà quotidiana esistesse un mondo che sfugge, per sua natura, alla coscienza dell’uomo e che fosse da ricondurre unicamente alla creazione di Dio (e qui, ovviamente, siamo ad una deviazione rispetto all’opera di Duchamp) ma, soprattutto, accanto alle pretesa e potenzialità di sconfinamento che intendeva attribuire Duchamp al “Grande Vetro” (che prevedeva parti plastiche, letterarie e sonore), Rothko matura la necessità di lavorare su grandi formati. Operazione, a suo dire, rischiosa per il pericolo che possa scaturire qualcosa di “grandioso e pomposo” ma, individuando parimenti nella realizzazione di un “grosso quadro” il “desiderio di essere intimo e umano”: trovandovisi al suo interno, dove “non si può decidere nulla”. E qui ritorna Duchamp. È interessante notare come Rothko realizzi al meglio il suo senso di responsabilità nei confronti “della vita che i quadri condurranno fuori, nel mondo” proprio nella stanza a lui dedicata nella casa - museo - mausoleo dei coniugi Phillips, (dove previde l’introduzione di una panca) e nella “Rothko Chapel”, consacrata l’anno successivo la morte dell’artista.
Qui, nell’Oratorio già dedicato alla Vergine del Rosario, corre lungo le pareti laterali un coro in legno che presenta un sedile sostenuto da mensole intagliate a guisa di figure antropomorfe e probabilmente era completato in origine da uno schienale in legno, ora mancante.
Se la collocazione dei dodici lavori non è un site specific propriamente detto (si vuole ignorare cioè, volontariamente, una forma d’arte che tende a scomparire se le viene a mancare l’ambiente circostante e la cui formulazione forse attiene maggiormente all’architettura o al design), è chiaro l’intento nel voler trovare un rapporto sequenziale tra le opere stesse e tra questo e la struttura ospitante.
Dodici “figure” abitano, temporaneamente, l’Oratorio dedicato alla Vergine.
Henri Poincaré
“[…] tranne che come forme liberate.”
Marcel Duchamp
Dodici dipinti ad olio abitano, temporaneamente, l’Oratorio dedicato alla Vergine.
Riscatto o prodotto come quintessenza di quella “tela bianca del quadro” che secondo Marica Rossi è “superficie da vivere e non da riempire”: spazio, dove è possibile “coniugare il gesto pittorico con l’attitudine cromatica” nell’esito, comunque, di un “trasporto vitalistico” (Maurizio Scudiero).
Parallelamente a Marcel Duchamp che, riguardo al suo Grande Vetro, sostenne come la genesi fosse “esterna ad ogni preoccupazione religiosa o antireligiosa” per essere in realtà “la copia di una copia dell’Idea”, in tutta la “trepidazione che avvolge la campitura di ogni lavoro” di Annamaria Targher è possibile avvertire (come ha scritto Mario Cossali) anche “un pensiero, un disegno ragionante”. Il gesto pittorico ed il colore sono capaci quindi di “trasformare il dato di realtà attraversandolo con una lente onirica potente e disinibita” (sempre Cossali).
Se la base culturale di Duchamp è rappresentata, anche e non solo, da “quella corrente di neoplatonismo che, dalla fine del XV secolo, ha irrigato il suolo e il sottosuolo della nostra civiltà” (Octavio Paz), la città di Padova si distingue per essere stata caratterizzata, nello stesso periodo, dalla presenza di un particolare tipo di aristotelismo, a tal punto contaminato da Averroè, che il posto del primo viene preso in realtà da Platone, o meglio dalla contemporanea trasposizione neoplatonica. Se nell’opera del maestro francese, è indiscusso vi sia una figura femminile rappresentata (tra le tante ipotesi identificative: la grande Dea, la Vergine, la Madre), nell’Oratorio si evoca la presenza dei Dodici: “nel groviglio di linee” di queste “speciali tavole delle ansietà e dei desideri […] si intravedono figure più o meno consistenti” (Cossali). Similmente, è anche un’ “insospettata leggerezza” (Scudiero) nei lavori della Targher che, in barba alle abbondanti misure, pone un nuovo dialogo con la ricerca e le dichiarazioni di Duchamp: “la realtà vera è sfuggente” non solamente perché è cangiante ma semplicemente “perché vive in un’altra sfera, in un’altra dimensione”. Sempre in Duchamp, alla metafisica di origine neoplatonica si aggiunge infatti come humus, il riferimento a talune nozioni popolari della fisica moderna: speculazioni sulla geometria non – euclidea e, soprattutto, riguardo la quarta dimensione.
Parimenti, nei quadri “su grandi dimensioni” della Targher, Maurizio Scudiero ha individuato, “nel dinamico incalzare di una gestualità che non è mai disordinata”, “ritmi e direzionalità che sono strutturali”.
A questo punto il passaggio ad un riferimento che riguardi l’opera di Mark Rothko può avvenire: sia perché, come ha scritto Harold Rosenberg, Rothko rappresenta “la sfera teologica dell’espressionismo astratto”, sia perché, a partire dagli anni ’50, per il pittore diventa urgente individuare una possibilità conciliatoria tra pittura e architettura. L’artista russo, infatti, supponeva che accanto alla realtà quotidiana esistesse un mondo che sfugge, per sua natura, alla coscienza dell’uomo e che fosse da ricondurre unicamente alla creazione di Dio (e qui, ovviamente, siamo ad una deviazione rispetto all’opera di Duchamp) ma, soprattutto, accanto alle pretesa e potenzialità di sconfinamento che intendeva attribuire Duchamp al “Grande Vetro” (che prevedeva parti plastiche, letterarie e sonore), Rothko matura la necessità di lavorare su grandi formati. Operazione, a suo dire, rischiosa per il pericolo che possa scaturire qualcosa di “grandioso e pomposo” ma, individuando parimenti nella realizzazione di un “grosso quadro” il “desiderio di essere intimo e umano”: trovandovisi al suo interno, dove “non si può decidere nulla”. E qui ritorna Duchamp. È interessante notare come Rothko realizzi al meglio il suo senso di responsabilità nei confronti “della vita che i quadri condurranno fuori, nel mondo” proprio nella stanza a lui dedicata nella casa - museo - mausoleo dei coniugi Phillips, (dove previde l’introduzione di una panca) e nella “Rothko Chapel”, consacrata l’anno successivo la morte dell’artista.
Qui, nell’Oratorio già dedicato alla Vergine del Rosario, corre lungo le pareti laterali un coro in legno che presenta un sedile sostenuto da mensole intagliate a guisa di figure antropomorfe e probabilmente era completato in origine da uno schienale in legno, ora mancante.
Se la collocazione dei dodici lavori non è un site specific propriamente detto (si vuole ignorare cioè, volontariamente, una forma d’arte che tende a scomparire se le viene a mancare l’ambiente circostante e la cui formulazione forse attiene maggiormente all’architettura o al design), è chiaro l’intento nel voler trovare un rapporto sequenziale tra le opere stesse e tra questo e la struttura ospitante.
Dodici “figure” abitano, temporaneamente, l’Oratorio dedicato alla Vergine.
13
settembre 2008
Annamaria Targher – I Dodici
Dal 13 al 28 settembre 2008
arte contemporanea
Location
ORATORIO DELLA BEATA VERGINE DEL ROSARIO
Limena, Via Roma, 44, (Padova)
Limena, Via Roma, 44, (Padova)
Orario di apertura
Mer. - Ven.: 17.00 - 19.00 Sab. - Dom.: 10.30 - 12.30; 16.30 - 19.30
Sito web
www.annamariatargher.it
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