Un diario di viaggio per immagini dell’allora ventiduenne fotografa (siamo nel 2019) diviene, senza volerlo, toccante testimonianza della vita serena delle comunità rurali birmane, all’epoca del tutto inconsapevoli del drammatico mutamento in procinto di compiersi, di lì a due anni, nell’intero Paese. La fragilissima armonia della civiltà ritratta nelle ventiquattro fotografie in mostra assume una vena tanto più melanconica se considerata in relazione alla brutalità del venturo rivolgimento politico e, pur attraverso le vicende di un frammento minuscolo del mondo, apre in maniera fin troppo conseguente un’ampia prospettiva di riflessione sul destino degli uomini. Esemplare il modo in cui Agnese Garrone si avvicina all’arcaico microcosmo dei suoi scatti. La visione partecipe, per così dire fraterna, che sola rende autentico qualsiasi lavoro di reportage, diviene in queste immagini – che reportage non volevano essere – parte stessa della composizione della scena. Lo vediamo nell’andamento solenne e contenuto di certi ritratti, da cui emana tanto la seria e stabilita concezione dell’esistenza dei personaggi, quanto il senso empatico e il rispetto profondo di chi si trova dall’altra parte della fotocamera. C’è poi una qualità specialmente evidente in quest’artista, un istintivo talento per la pura costruzione geometrica, che ha modo di esprimersi in prove di vera bravura di fronte all’intrico di linee, canali e vegetazione dei palafitticoli villaggi birmani e che, collimando perfettamente con l’irrequieta fragilità di quegli ambienti ci restituisce, attraverso un paesaggio determinato dall’adattamento dell’azione umana alla legge naturale, il senso autentico di una cultura. Con questa mostra Agnese Garrone spera di poter prestare un aiuto alle persone conosciute in Birmania, e rimaste nel loro Paese a fronteggiare il pesantissimo scenario determinatosi con il colpo di stato del Febbraio 2021.