Le foto di Carlo Ferrara raccontano l’isolamento dell’Uomo contemporaneo con una narrazione in bianco e nero che passa attraverso un molteplice sdoppiamento; una frammentazione che è del corpo ma anche dello spirito e che usa il viaggio come metafora per potersi ricomporre. Sullo sfondo di un mondo fatto di macerie e di luoghi dimenticati e vandalizzati, all’individuo viene garantito un certo anonimato ma è una condizione che impone la schizofrenia e un dialogo che diventa soggettivo. La solitudine è quindi il centro della storia, il perno sul quale si costruisce la simmetria imperfetta delle composizioni. È l’idea di Camilo José Vergara che usa i suoi spettrali paesaggi urbani come ambientazione di esempi di desolazione sociale. Dal nulla quotidiano di un lavoro grigio e monotono, il protagonista entra nella temporalità e, grazie alla definizione di uno spazio, giunge ad un altro scenario, se vogliamo più “esotico” ma comunque decentrato (potrebbe essere la “Macondo” del fotografo Fausto Giaccone come anche un punto qualsiasi delle nostre periferie). In questi scatti rimane sempre un fondo di amarezza: il presente s’insedia nel passato ma non lascia mai campo al futuro creando soltanto un orizzonte ben delimitato. Conoscendo se stessi, ci si proietta all’esterno cercando un compromesso tra violenza e Bellezza, esattamente come avveniva per “La Donna nel Bagno di Hitler” della surrealista Lee Miller. Qui però l’elemento estetico sembra perdersi. E la perdita si sviluppa come un interrogativo privato che si scioglie solo in parte con lo spostamento: i simboli intimi riflessi nella vasca di Frida Kahlo si sono trasformati in un mucchio di detriti che coronano la naturalità del corpo e la spiritualità della ricerca. Il tema delle reliquie industriali, che ha alle spalle numerosi esempi nella fotografia contemporanea internazionale, è qui rivisto in chiave concettuale con un’originalità e una maestria uniche.