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Castellani | Morellet | Paolini
Figure importanti nella storia dell’arte contemporanea e accomunati da diverse analogie, Enrico Castellani, François Morellet e Giulio Paolini si incontrano per la prima volta negli spazi dello Studio Dabbeni
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Figure importanti nella storia dell’arte contemporanea e accomunati da
diverse analogie, Enrico Castellani, François Morellet e Giulio Paolini
si incontrano per la prima volta negli spazi dello Studio Dabbeni.
Enrico Castellani (1930) presenta quattro “superfici bianche”
appositamente realizzate per l’esposizione. Le estroflessioni e le
introflessioni che modulano le sue superfici-sempre rigorosamente
monocrome- si pongono in relazione con la luce, istituendo un rapporto
luce-ombra ben preciso, calibrato, meditativo.
François Morellet (1926) è presente con alcuni lavori che ben
riassumono la duplice personalità dell’artista. Nel 1991, in un suo
testo, confessava di sognare di essere “un barocco minimalista”. In
questa asserzione provocatoria è contenuta la sostanza delle opere
esposte, dove il caos e il caso si giustappongono al rigore, in un
dialogo ininterrotto tra il passato e il presente dell’artista.
“Finale di partita” è il titolo, fortemente evocativo, memore di
riferimenti letterari, del lavoro di Giulio Paolini (1940), concepito
espressamente per la mostra. Paolini parte da una superficie squadrata,
che si frammenta in un insieme di elementi che assumono una loro
esistenza autonoma, benché non cessino di rimandare ad un “tutto”:
sono frammenti che, come i pezzi di una scacchiera smembrata, vanno a
disporsi sulle pareti dei diversi ambienti del primo piano della
galleria, secondo un ordine studiato che conferisce allo spazio fascino
e tensione.
ENRICO CASTELLANI
Dopo aver compiuto studi di architettura a Bruxelles, Enrico Castellani
esordisce nel 1956 con una pittura di tipo informale materico, da cui
si discosta quasi subito, rivolgendo la propria ricerca ad
un’elaborazione sistematica delle componenti pittoriche costituite
dalla tela e dal colore. La visione della pittura di Jackson Pollock,
nel 1957, e soprattutto di quella di Mark Tobey alla Biennale di
Venezia dell’anno successivo, caratterizzata da piccoli segni bianchi
che preludono al monocromo, saranno determinanti in questo passaggio.
Fondamentale è la lezione di Mondrian che “giunge alla liberazione
totale dell’arte da ogni ipoteca passata, quella dell’essere
decorativa, evocativa, del rappresentare”, per giungere “ad una forma
d’arte ridotta alla semanticità del suo linguaggio”1: così si esprime
Castellani sulla rivista Azimuth, da lui creata insieme a Piero Manzoni
e a Vincenzo Agnetti, con cui aveva stretto rapporti d’amicizia negli
anni in cui lavorava nello studio d’architettura di Franco Buzzi. Tra
l’esordio e la maturità linguistica raggiunta da Castellani, intercorre
un tempo molto breve, poco più di un biennio. L’opera che segna questa
maturità, sintetizzando gli elementi che ritroveremo in tutti i lavori
successivi, è Superficie nera in rilievo (1959). In quest’opera-di cui
già il titolo offre una descrizione oggettiva- l’uso del nero assoluto
è un’aspirazione all’azzeramento, in consonanza con quella tendenza,
manifestatasi in quegli anni, di esprimersi attraverso un linguaggio
impersonale, che affermi la neutralità e il silenzio, lo zero e il
vuoto come unico dominio dell’arte. Dietro la tela, l’artista mette
delle forme sferiche che conferiscono dinamismo alla superficie. Ecco
quindi che l’affermazione della superficie avviene per estroflessione e
attraverso un’energia interiore, negando il ruolo dell’artista. Un
passo avanti sarà dato da una disposizione di chiodi dietro la tela,
posti secondo un ordine preciso, un criterio matematico. Questo
determina una superficie aggettante in alcuni punti, caratterizzata da
estroflessioni ed introflessioni. Dal 1960 le sequenze di Castellani
giungono ad una struttura perpendicolare, in cui il verticale si
incrocia con l’orizzontale. A volte è la linea stessa a divenire
aggettante, quando si estroflette nelle superfici angolari: nascono
Superficie angolare rossa e Superficie angolare nera, entrambe del
1961. Gli angolari si pongono in relazione con l’angolo, quindi con il
volume architettonico. Questa ricerca sfocerà in Ambiente bianco
(1967), presentato in occasione della mostra “Lo spazio dell’immagine”,
a Foligno: le superfici vengono ad occupare più pareti, definendo un
ambiente, in sintonia con ciò che avviene nella scena artistica europea
e americana. Il successivo Spazio ambiente (1970) è concepito come
“un’immersione” nella pittura, da cui ci si trova circondati a 360
gradi.
Due importanti mostre si sono tenute, rispettivamente, a Palazzo
Fabroni a Pistoia (8 giugno- 11 agosto 1996), a cura di Bruno Corà, e
alla Fondazione Prada di Milano (26 aprile- 14 giugno 2001), a cura di
Germano Celant.
FRANCOIS MORELLET
Francois Morellet si esprime inizialmente, a partire dal 1948,
attraverso una pittura caratterizzata da forme organiche fortemente
decorative, che derivano dalla passione dell’artista per l’arte
primitiva. Determinanti per gli sviluppi successivi della sua arte
saranno varie influenze. Innanzitutto, la conoscenza di Mondrian, poi
l’incontro, avvenuto nel 1950, con Max Bill, e la conseguente
comprensione dell’arte concreta, da cui rimane affascinato: “L’arte
concreta per me era un seguito di Mondrian, cioè la prima pittura
concettuale, un’arte che deve essere concepita prima di essere fatta e
la cui esecuzione deve essere la più neutra possibile….la neutralità,
il vuoto”2. In questo senso, importante sarà anche la scoperta di Van
Doesburg, con la sua radicalizzazione dei principi del Neoplasticismo,
che lo orienta verso un’arte sistematica. Nel 1951, durante un viaggio
in Spagna, scopre l’arte mussulmana che ammirerà perché “ha saputo
eliminare nello stesso tempo i richiami naturalistici, la sensibilità
pittorica e la composizione”3. Nel 1958, Morellet introduce un elemento
fondamentale nella sua ricerca: “il caso”, che accostato alla ragione,
si pone in contrasto con la soggettività. Nega anche una geometria
troppo legata alla giustezza matematica. Date queste premesse,
l’artista si cimenta a giustapporre le forme, a sovrapporle, a farle
interferire tra loro, in un’arte caratterizzata da un estremo
riduzionismo. È uno dei primi artisti ad usare il neon, che utilizza
dal 1963 e che lo situa accanto all’arte minimal. Dal 1968 la
sperimentazione va oltre la superficie del quadro investendo anche
l’architettura: “trames” di nastro adesivo aderiscono al supporto
plastico modificandone la percezione visiva. Successivamente,
attraverso perimetri o tracciati, l’artista duplica elementi
architettonici presenti. I tubi al neon, rettilinei o curvilinei,
vengono posti sul muro o al suolo secondo un reticolato preesistente
ma sempre secondo il principio del caso. Morellet definisce le sue
operazioni “disintegrazioni architettoniche”. Dal 1990 utilizza
nuovamente i tubi al neon o argo ponendo in vista lo strumentario
tecnico, che viene a far parte del lavoro (come aveva già fatto a fine
anni’70). Negli anni Novanta Morellet porta all’estremo il principio
dell’“ordine e disordine”, giungendo ad esiti barocchi. È una fase che
l’artista definisce “sistematismo e kitsch”. La vena irrisoria, da
sempre sottointesa alla sua pratica, lo porta ad estremizzare le sue
destrutturazioni raccogliendo i singoli elementi di cui si era servito
fino a quel momento per disporli all’interno di uno schema secondo il
principio, ancora una volta, del caso.
Tra le ultime esposizioni significative segnaliamo quella al museo
Angers (25 giugno – 12 novembre 2006) e attualmente la personale allo
Stedelijk Museum di Gent (27 febbraio – 1 aprile 2007)
GIULIO PAOLINI
Giulio Paolini ritorna spesso con il pensiero al suo primo lavoro:
Disegno geometrico, del 1960, una tela dipinta a tempera su cui aveva
tracciato la squadratura della superficie. È interessante rifarsi alle
“note di lavoro”, in cui l’artista descrive la propria ricerca:
“Disegno geometrico è lontano nel tempo ma sempre visibile in
trasparenza in tante mie opere fino ad oggi. Parlo della facoltà
dell’immagine di assentarsi, di evadere da quel quadro lasciando però
percepire il tracciato lineare, la squadratura, in modo da consentire
alla tela di respirare, di evocare ogni altra immagine che,
virtualmente possa affiorare in superficie”4. Dirà anche: “Disegno
geometrico sembra ancora costituire la falsariga, segreta e invisibile,
seppur avvertibile, del mio lavoro”5. L’artista, spesso avvicinato
all’Arte Povera, ma legato più strettamente all’ambito concettuale,
intraprende un’indagine complessa sugli strumenti del fare
artistico:“L’enigmaticità degli strumenti obbliga alla loro lettura
come soggetto ineffabile. Il quadro cessa di trasmettere un’immagine e
diventa una presenza muta, rappresenta cioè gli elementi stessi con cui
si costituisce”6. Altro elemento che contraddistingue il suo operare
è l’attingere alla Storia dell’Arte come ad un coacervo di immagini,
antiche o recenti, che l’artista cita, riproduce o frammenta, nel
tentativo di far affiorare quell’ immagine sconosciuta, che sfugge
costantemente ad una definizione. Le opere di Paolini costituiscono una
sorta di “teatro dell’evocazione”,nel rappresentare figure mitologiche,
memorie. L’artista utilizza la fotografia, il collage, i calchi in
gesso, realizzando scenografie complesse, in cui gli elementi vengono
ripetuti, accostati, oppure uniti da sovrapposizioni, incastri, o
ancora dispersi a partire dal centro della composizione. Una
riflessione importante, compiuta da Paolini, è quella del ruolo
dell’artista, dell’autore. Un ruolo che egli considera secondario
rispetto al valore dell’opera; un ruolo “di attore, o servo di scena,
nell’inesauribile e grandioso spettacolo della Storia dell’Arte”7:
“L’artista, io credo, non abita lo spazio ma il tempo. È l’opera, non
l’autore, a prendere via via senso e significato nello scorrere del
tempo…L’autore deve dunque sempre ritornare alla sua opera perché è
l’opera a essere immobile e perfetta, inafferrabile, sospesa nel tempo:
per questo mi affanno a cercarla ogni volta”8.
Importanti mostre: “Giulio Paolini, Esposizione Universale”, tenutasi
al Kunstmuseum Winterthur, a cura di Dieter Schwarz; “Giulio Paolini,
1960-1972”, tenutasi alla Fondazione Prada, 29 ottobre- 18 dicembre
2003, a cura di Germano Celant; “Giulio Paolini, Fuori programma”,
tenutasi alla GAMeC Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, a cura di
Giacinto di Pietrantonio, 6 aprile- 16 luglio 2006.
diverse analogie, Enrico Castellani, François Morellet e Giulio Paolini
si incontrano per la prima volta negli spazi dello Studio Dabbeni.
Enrico Castellani (1930) presenta quattro “superfici bianche”
appositamente realizzate per l’esposizione. Le estroflessioni e le
introflessioni che modulano le sue superfici-sempre rigorosamente
monocrome- si pongono in relazione con la luce, istituendo un rapporto
luce-ombra ben preciso, calibrato, meditativo.
François Morellet (1926) è presente con alcuni lavori che ben
riassumono la duplice personalità dell’artista. Nel 1991, in un suo
testo, confessava di sognare di essere “un barocco minimalista”. In
questa asserzione provocatoria è contenuta la sostanza delle opere
esposte, dove il caos e il caso si giustappongono al rigore, in un
dialogo ininterrotto tra il passato e il presente dell’artista.
“Finale di partita” è il titolo, fortemente evocativo, memore di
riferimenti letterari, del lavoro di Giulio Paolini (1940), concepito
espressamente per la mostra. Paolini parte da una superficie squadrata,
che si frammenta in un insieme di elementi che assumono una loro
esistenza autonoma, benché non cessino di rimandare ad un “tutto”:
sono frammenti che, come i pezzi di una scacchiera smembrata, vanno a
disporsi sulle pareti dei diversi ambienti del primo piano della
galleria, secondo un ordine studiato che conferisce allo spazio fascino
e tensione.
ENRICO CASTELLANI
Dopo aver compiuto studi di architettura a Bruxelles, Enrico Castellani
esordisce nel 1956 con una pittura di tipo informale materico, da cui
si discosta quasi subito, rivolgendo la propria ricerca ad
un’elaborazione sistematica delle componenti pittoriche costituite
dalla tela e dal colore. La visione della pittura di Jackson Pollock,
nel 1957, e soprattutto di quella di Mark Tobey alla Biennale di
Venezia dell’anno successivo, caratterizzata da piccoli segni bianchi
che preludono al monocromo, saranno determinanti in questo passaggio.
Fondamentale è la lezione di Mondrian che “giunge alla liberazione
totale dell’arte da ogni ipoteca passata, quella dell’essere
decorativa, evocativa, del rappresentare”, per giungere “ad una forma
d’arte ridotta alla semanticità del suo linguaggio”1: così si esprime
Castellani sulla rivista Azimuth, da lui creata insieme a Piero Manzoni
e a Vincenzo Agnetti, con cui aveva stretto rapporti d’amicizia negli
anni in cui lavorava nello studio d’architettura di Franco Buzzi. Tra
l’esordio e la maturità linguistica raggiunta da Castellani, intercorre
un tempo molto breve, poco più di un biennio. L’opera che segna questa
maturità, sintetizzando gli elementi che ritroveremo in tutti i lavori
successivi, è Superficie nera in rilievo (1959). In quest’opera-di cui
già il titolo offre una descrizione oggettiva- l’uso del nero assoluto
è un’aspirazione all’azzeramento, in consonanza con quella tendenza,
manifestatasi in quegli anni, di esprimersi attraverso un linguaggio
impersonale, che affermi la neutralità e il silenzio, lo zero e il
vuoto come unico dominio dell’arte. Dietro la tela, l’artista mette
delle forme sferiche che conferiscono dinamismo alla superficie. Ecco
quindi che l’affermazione della superficie avviene per estroflessione e
attraverso un’energia interiore, negando il ruolo dell’artista. Un
passo avanti sarà dato da una disposizione di chiodi dietro la tela,
posti secondo un ordine preciso, un criterio matematico. Questo
determina una superficie aggettante in alcuni punti, caratterizzata da
estroflessioni ed introflessioni. Dal 1960 le sequenze di Castellani
giungono ad una struttura perpendicolare, in cui il verticale si
incrocia con l’orizzontale. A volte è la linea stessa a divenire
aggettante, quando si estroflette nelle superfici angolari: nascono
Superficie angolare rossa e Superficie angolare nera, entrambe del
1961. Gli angolari si pongono in relazione con l’angolo, quindi con il
volume architettonico. Questa ricerca sfocerà in Ambiente bianco
(1967), presentato in occasione della mostra “Lo spazio dell’immagine”,
a Foligno: le superfici vengono ad occupare più pareti, definendo un
ambiente, in sintonia con ciò che avviene nella scena artistica europea
e americana. Il successivo Spazio ambiente (1970) è concepito come
“un’immersione” nella pittura, da cui ci si trova circondati a 360
gradi.
Due importanti mostre si sono tenute, rispettivamente, a Palazzo
Fabroni a Pistoia (8 giugno- 11 agosto 1996), a cura di Bruno Corà, e
alla Fondazione Prada di Milano (26 aprile- 14 giugno 2001), a cura di
Germano Celant.
FRANCOIS MORELLET
Francois Morellet si esprime inizialmente, a partire dal 1948,
attraverso una pittura caratterizzata da forme organiche fortemente
decorative, che derivano dalla passione dell’artista per l’arte
primitiva. Determinanti per gli sviluppi successivi della sua arte
saranno varie influenze. Innanzitutto, la conoscenza di Mondrian, poi
l’incontro, avvenuto nel 1950, con Max Bill, e la conseguente
comprensione dell’arte concreta, da cui rimane affascinato: “L’arte
concreta per me era un seguito di Mondrian, cioè la prima pittura
concettuale, un’arte che deve essere concepita prima di essere fatta e
la cui esecuzione deve essere la più neutra possibile….la neutralità,
il vuoto”2. In questo senso, importante sarà anche la scoperta di Van
Doesburg, con la sua radicalizzazione dei principi del Neoplasticismo,
che lo orienta verso un’arte sistematica. Nel 1951, durante un viaggio
in Spagna, scopre l’arte mussulmana che ammirerà perché “ha saputo
eliminare nello stesso tempo i richiami naturalistici, la sensibilità
pittorica e la composizione”3. Nel 1958, Morellet introduce un elemento
fondamentale nella sua ricerca: “il caso”, che accostato alla ragione,
si pone in contrasto con la soggettività. Nega anche una geometria
troppo legata alla giustezza matematica. Date queste premesse,
l’artista si cimenta a giustapporre le forme, a sovrapporle, a farle
interferire tra loro, in un’arte caratterizzata da un estremo
riduzionismo. È uno dei primi artisti ad usare il neon, che utilizza
dal 1963 e che lo situa accanto all’arte minimal. Dal 1968 la
sperimentazione va oltre la superficie del quadro investendo anche
l’architettura: “trames” di nastro adesivo aderiscono al supporto
plastico modificandone la percezione visiva. Successivamente,
attraverso perimetri o tracciati, l’artista duplica elementi
architettonici presenti. I tubi al neon, rettilinei o curvilinei,
vengono posti sul muro o al suolo secondo un reticolato preesistente
ma sempre secondo il principio del caso. Morellet definisce le sue
operazioni “disintegrazioni architettoniche”. Dal 1990 utilizza
nuovamente i tubi al neon o argo ponendo in vista lo strumentario
tecnico, che viene a far parte del lavoro (come aveva già fatto a fine
anni’70). Negli anni Novanta Morellet porta all’estremo il principio
dell’“ordine e disordine”, giungendo ad esiti barocchi. È una fase che
l’artista definisce “sistematismo e kitsch”. La vena irrisoria, da
sempre sottointesa alla sua pratica, lo porta ad estremizzare le sue
destrutturazioni raccogliendo i singoli elementi di cui si era servito
fino a quel momento per disporli all’interno di uno schema secondo il
principio, ancora una volta, del caso.
Tra le ultime esposizioni significative segnaliamo quella al museo
Angers (25 giugno – 12 novembre 2006) e attualmente la personale allo
Stedelijk Museum di Gent (27 febbraio – 1 aprile 2007)
GIULIO PAOLINI
Giulio Paolini ritorna spesso con il pensiero al suo primo lavoro:
Disegno geometrico, del 1960, una tela dipinta a tempera su cui aveva
tracciato la squadratura della superficie. È interessante rifarsi alle
“note di lavoro”, in cui l’artista descrive la propria ricerca:
“Disegno geometrico è lontano nel tempo ma sempre visibile in
trasparenza in tante mie opere fino ad oggi. Parlo della facoltà
dell’immagine di assentarsi, di evadere da quel quadro lasciando però
percepire il tracciato lineare, la squadratura, in modo da consentire
alla tela di respirare, di evocare ogni altra immagine che,
virtualmente possa affiorare in superficie”4. Dirà anche: “Disegno
geometrico sembra ancora costituire la falsariga, segreta e invisibile,
seppur avvertibile, del mio lavoro”5. L’artista, spesso avvicinato
all’Arte Povera, ma legato più strettamente all’ambito concettuale,
intraprende un’indagine complessa sugli strumenti del fare
artistico:“L’enigmaticità degli strumenti obbliga alla loro lettura
come soggetto ineffabile. Il quadro cessa di trasmettere un’immagine e
diventa una presenza muta, rappresenta cioè gli elementi stessi con cui
si costituisce”6. Altro elemento che contraddistingue il suo operare
è l’attingere alla Storia dell’Arte come ad un coacervo di immagini,
antiche o recenti, che l’artista cita, riproduce o frammenta, nel
tentativo di far affiorare quell’ immagine sconosciuta, che sfugge
costantemente ad una definizione. Le opere di Paolini costituiscono una
sorta di “teatro dell’evocazione”,nel rappresentare figure mitologiche,
memorie. L’artista utilizza la fotografia, il collage, i calchi in
gesso, realizzando scenografie complesse, in cui gli elementi vengono
ripetuti, accostati, oppure uniti da sovrapposizioni, incastri, o
ancora dispersi a partire dal centro della composizione. Una
riflessione importante, compiuta da Paolini, è quella del ruolo
dell’artista, dell’autore. Un ruolo che egli considera secondario
rispetto al valore dell’opera; un ruolo “di attore, o servo di scena,
nell’inesauribile e grandioso spettacolo della Storia dell’Arte”7:
“L’artista, io credo, non abita lo spazio ma il tempo. È l’opera, non
l’autore, a prendere via via senso e significato nello scorrere del
tempo…L’autore deve dunque sempre ritornare alla sua opera perché è
l’opera a essere immobile e perfetta, inafferrabile, sospesa nel tempo:
per questo mi affanno a cercarla ogni volta”8.
Importanti mostre: “Giulio Paolini, Esposizione Universale”, tenutasi
al Kunstmuseum Winterthur, a cura di Dieter Schwarz; “Giulio Paolini,
1960-1972”, tenutasi alla Fondazione Prada, 29 ottobre- 18 dicembre
2003, a cura di Germano Celant; “Giulio Paolini, Fuori programma”,
tenutasi alla GAMeC Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, a cura di
Giacinto di Pietrantonio, 6 aprile- 16 luglio 2006.
19
aprile 2007
Castellani | Morellet | Paolini
Dal 19 aprile al 02 giugno 2007
arte contemporanea
Location
STUDIO D’ARTE CONTEMPORANEA DABBENI
Lugano, Corso Enrico Pestalozzi, 1, (Lugano)
Lugano, Corso Enrico Pestalozzi, 1, (Lugano)
Orario di apertura
da martedì a venerdì, 09.30 – 12.00, 14.30 – 18.30, sabato, 09.30 – 12.00. 14.30 – 17
domenica e lunedì chiuso
Vernissage
19 Aprile 2007, ore 18
Autore