La cifra di Pinocchio è di certo l’ironia della storia e del linguaggio, erede ed anticipatore di numerose figure che, come lui, da Pulcinella a Totò, hanno osato capovolgere il segno, destrutturandolo. E allora, nel guardare le figure uscite dalla mano di Cecile, la prima cosa che mi è venuta in mente è che aprono, sulla falsariga delle grandi avanguardie del Novecento, alla narrazione non solo iconografica, ma anche sonora. Della voce di Pinocchio ricordiamo il toscanare del piccolo Andrea Balestri nel capolavoro televisivo di Comencini. Già i futuristi avevano provato ad interpretare la velocità e il movimento attraverso il tratto pittorico e la scultura, del Pinocchio di Cecile invece sembra di sentire la parlata gergale da ragazzino un po’ strampalata, come quella di certi nostri nipoti. Ce la rimandano colori e figure: una specie di fumetto impazzito. Come non pensare ad una certa tradizione di graffitismo metropolitano, al tratto originale di Basquiat, con le parole inserite nel quadro, pronunciate dal vibrante dinamismo del colore. Ma la voce è una delle autostrade d’espressione dei sentimenti: tenero e confuso, stupito e pauroso Pinocchio è Cecile, col suo sguardo giocoso sul mondo. Pinocchio siamo noi. A dimostrazione che l’arte popolare, qualche volta, raggiunge il sublime.
Vincenzo Capuano docente Storia del Giocattolo all’Università Suor Orsola Benincasa Napoli