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Chris Steele-Perkins – Echi, visioni private, frammenti di un anno
L’estetica di Steele-Perkins si ispira ai concetti giapponesi della bellezza, oscilla tra una volontaria sobrietà grafica e l’imperfezione del wabi-sabi, che trova la bellezza nel familiare, nella ruggine, nell’usura.
Comunicato stampa
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È il diario di un anno da guardare.
No, il ramo di ciliegio in fiore non è in Giappone bensì nel parcheggio di Dulwich. No, questo cane errante che si stira in diagonale non si aggira per il Medio Oriente o il Sudafrica, bensì per la campagna inglese. Raggruppate in una semplice sequenza cronologica, le foto sconfinano ben presto l’una nell’altra, cambiano la loro qualità sotto il nostro sguardo. È un privilegio dell’età matura giocare con i luoghi, con il tempo: è ieri e domani, e persino oggi, un oggi in cui il tempo ordinario talvolta si quieta: pioggia, neve, sole, ombre, riflessi. Volti: volti amati al chiarore delle candeline dei compleanni, in passeggiata, assenza, lutto, pietra tombale aperta come un altro libro.
Nelle camere d’albergo, tutte uguali, dopo il fuso orario di un lungo viaggio, le percezioni si confondono e si disperdono. Nel cuore della notte il viaggiatore si sveglia di soprassalto fra lenzuola ruvide dall’odore strano. Il corpo amato non è al suo fianco. È forse a Dushambe, nel Tajikistan – o si tratta di un’altra stanza, per un’altra ordinazione, tra l’insonnia e la gioia del lavoro futuro? Il Monte Fuji si vede dal lato posteriore, da un parcheggio, e il Giappone comincia ad assomigliare a New York. Non sempre il bambino sorride e brandisce una figurina dei Pokemon made in Japan.
Così, Steele-Perkins rigira le cartoline e accarezza l’album di famiglia. Gli angoli sono smussati. Le categorie si confondono. I fogli del calendario si raccolgono a palate. Come le foglie morte della canzone.
A metà della sua vita, Chris Steele-Perkins, un globe-trotter ma ben radicato nel suo giardino in cui fioriscono le rose, sa qual è il vero prezzo della vita e ne ama i momenti intensamente. Perché nel giro di qualche giorno passerà dalla sua casa, dalla sua famiglia, all’alloggio dei senza tetto a Londra. Contrasti violenti, ma anche sottili ed ironici. Come tutti coloro che vorrebbero abbracciare l’intera gamma della vita e rimanere aperti al vento della Storia, si ritrova ora scapolo errante, ora marito di Miyako, padre di Cedric e Cameron, ora fratello di Thein e Seyna, ora figlio di una madre strappata da una morte improvvisa, e il suo sguardo è attirato dalle curve del corpo nudo della moglie, poi dagli abiti vistosi della giovane prostituta che batte il marciapiede in Costa d’Avorio.
Come un esule stretto fra due lingue – ognuna delle quali si affina frequentando l’altra – il suo linguaggio visivo si eleva e si depura in questi contrasti che costituiscono il calendario di un anno: lavoro sulla prospettiva, grande attenzione prestata alla disposizione delle foto in sequenza. Mi sembra che l’estetica di Steele-Perkins si ispiri ai concetti giapponesi della bellezza. Oscilla tra una volontaria sobrietà grafica e l’imperfezione del wabi-sabi, che trova la bellezza nel familiare, nella ruggine, nell’usura. L’indefinito caratterizza il viaggio, la velocità, il quotidiano preferisce spesso la spontaneità dei gesti, il primo piano sui volti amati, il remake della foto di famiglia.
L’ambiente del giornalismo fotografico è spesso ancora incentrato sui miti consunti e le metafore di guerra; alterna l’andare in guerra (conflitti e violenze, ma sempre altrove) al riposo del guerriero (poco fotografato o quanto meno non mostrato). Queste foto ci travolgono nella loro fuga in avanti.
In questo progetto attuato a lungo e intuitivamente, Steele-Perkins tenta al contrario di ridefinire un territorio che integra nel viaggio il sottile tessuto del quotidiano. Delimita questo territorio come fa un pittore con il verde acido di un prato disposto di sbieco nella cornice, con le piccole luci velate delle candeline dei compleanni o i neon della città, con la cornice intima della sua casa o l’immensità di un cielo nuvoloso nell’oblò di un oceano, la sensualità delle stagioni, la brina di un paesaggio, il raggio che accende una capigliatura.
È la vita di un anno intero: giornate troppo lunghe, un anno troppo breve, il tempo per alcune foto a colori.
Carole Naggar, scrittrice. 8 marzo 2004
Faccio parte di tutto quello che ho incontrato. Tuttavia ogni esperienza è come un’arcata attraverso cui risplende questo mondo inesplorato, i cui limiti svaniscono per sempre quando mi sposto.
Alfred Lord Tennyson, Ulysses
La vigilia di Capodanno del 2001 fu fredda e secca. Passeggiata nella campagna del Surrey con mia moglie, i miei due figli e una coppia di amici, David e Annie. Il paesaggio ci appartiene mentre camminiamo sulle foglie e il fango gelati, un velo di vapore esce dalle nostre bocche, attraversiamo ponti di pietra e di legno sotto i quali scorrono i ruscelli che trasportano rami di legno gettati in acqua dai ragazzini; passiamo davanti a rovi selvatici e fabbriche abbandonate. Le voci scompaiono nei boschi e nei campi vuoti. È inverno e il sole è basso. Ho fatto delle foto, come faccio sempre quando passeggiamo. Foto di noi, del paesaggio, delle piante e degli edifici. Ci siamo arrampicati fino a raggiungere una chiesa sulla Pilgrims' Way mentre la luce va calando e siamo tornati alle nostre automobili quando è già buio. Ritornati al calore della casa, abbiamo cenato a lume di candela, abbiamo bevuto, guardato la televisione, i bambini si sono lavati e poi sono andati a letto, mi sono addormentato tra le braccia di mia moglie in un comodo letto. L’ultimo giorno, straordinario senza esserlo, prima del nuovo millennio.
Ho pensato alle foto che avevo fatto; i ricordi riportati dall’altro capo del mondo e quelli, estranei, riportati dall’angolo della strada; la vita che conduco, le macchine fotografiche a tracolla, che rubano immagini dei movimenti che mi circondano perché è il mio mestiere, ma anche perché non posso fare diversamente, se non riunire queste tracce del tempo con la mia piccola scatola nera. Penso a come è fatta ogni foto che scelgo e come ogni foto contenga una parte di me.
L'anno è trascorso velocissimo. Gli eventi che costituiscono la nostra storia si infiammano e si fondono. I bambini sono cresciuti. Il giardino è cambiato, Ho viaggiato, lavorato, amato, ho avuto dei dispiaceri. Ho viaggiato per i quattro angoli del mondo, subendo i capricci della natura, percorrendo i continenti con il dito appoggiato sullo scatto della mia macchina fotografica. È l’anno in cui è morta mia madre; il suo corpo è stato consumato dalle fiamme; le sue ceneri sono state disperse tra l’edera e l’erba di una chiesetta di Northampton. Le giornate si sono accorciate. È arrivato l’inverno. Un anno è finito. I frammenti del tempo erano raccolti ed esposti qui: ricostruzione frammentata, eco silenziosa di un anno che mi sono lasciato alle spalle.
La mattina del 1° gennaio 2002 fu piacevole, fredda e secca. Io e mia moglie abbiamo litigato, poi abbiamo fatto pace. Passeggiata nella campagna del Kent con Miyako, i miei due figli e una coppia di amici, David e Annie. Agrifoglio tra le querce, argilla che si attacca alle scarpe, barba di un vecchio che cattura la luce dell’inverno, alziamo le mani per accogliere le nostre lunghe ombre. All’anno che finisce, all’anno che inizia. Ho fatto delle foto.
Chris Steele Perkins
Prefazione del libro Echoes che accompagna la mostra, edizioni Trolley, distribuito da Phaidon.
Biografia
Chris Steele-Perkins, nato nel 1947, cresce a Londra con la sua famiglia. Nel 1949 ottiene la laurea con lode in psicologia all’università di Newcastle-upon-Tyne (1967-70) e al contempo lavora come fotografo e editor di immagini per il giornale studentesco.
Nel 1971 si trasferisce a Londra, diventa fotografo indipendente e inizia il suo primo progetto estero nel 1973 in Bangladesh, seguito da un lavoro di assistenza ad organismi in missione di soggiorno. Nel 1975 è co-fondatore del gruppo Exit, organizza con Mark Edwards alcune mostre alla Photographers Gallery di Londra. Entra a far parte dell’agenzia Viva, con sede a Parigi, nel 1976 e della Magnum a partire dal 1979. Realizza numerosi reportage in Gran Bretagna, in America Centrale, in Libano e in Africa.
Nel 1979, pubblica il suo primo libro, The Teds. Il suo ultimo progetto di grande portata riguarda la situazione in Afghanistan. Attualmente lavora spesso in Giappone. I suoi reportage sono unanimemente apprezzati dal pubblico ed hanno vinto numerosi premi, tra cui il premio di Fotogiornalismo britannico di Tom Hopkinson (1988), il premio Oscar Barnack (1988), la medaglia d’oro di Robert Capa (1989) e il One World Award (1994).
No, il ramo di ciliegio in fiore non è in Giappone bensì nel parcheggio di Dulwich. No, questo cane errante che si stira in diagonale non si aggira per il Medio Oriente o il Sudafrica, bensì per la campagna inglese. Raggruppate in una semplice sequenza cronologica, le foto sconfinano ben presto l’una nell’altra, cambiano la loro qualità sotto il nostro sguardo. È un privilegio dell’età matura giocare con i luoghi, con il tempo: è ieri e domani, e persino oggi, un oggi in cui il tempo ordinario talvolta si quieta: pioggia, neve, sole, ombre, riflessi. Volti: volti amati al chiarore delle candeline dei compleanni, in passeggiata, assenza, lutto, pietra tombale aperta come un altro libro.
Nelle camere d’albergo, tutte uguali, dopo il fuso orario di un lungo viaggio, le percezioni si confondono e si disperdono. Nel cuore della notte il viaggiatore si sveglia di soprassalto fra lenzuola ruvide dall’odore strano. Il corpo amato non è al suo fianco. È forse a Dushambe, nel Tajikistan – o si tratta di un’altra stanza, per un’altra ordinazione, tra l’insonnia e la gioia del lavoro futuro? Il Monte Fuji si vede dal lato posteriore, da un parcheggio, e il Giappone comincia ad assomigliare a New York. Non sempre il bambino sorride e brandisce una figurina dei Pokemon made in Japan.
Così, Steele-Perkins rigira le cartoline e accarezza l’album di famiglia. Gli angoli sono smussati. Le categorie si confondono. I fogli del calendario si raccolgono a palate. Come le foglie morte della canzone.
A metà della sua vita, Chris Steele-Perkins, un globe-trotter ma ben radicato nel suo giardino in cui fioriscono le rose, sa qual è il vero prezzo della vita e ne ama i momenti intensamente. Perché nel giro di qualche giorno passerà dalla sua casa, dalla sua famiglia, all’alloggio dei senza tetto a Londra. Contrasti violenti, ma anche sottili ed ironici. Come tutti coloro che vorrebbero abbracciare l’intera gamma della vita e rimanere aperti al vento della Storia, si ritrova ora scapolo errante, ora marito di Miyako, padre di Cedric e Cameron, ora fratello di Thein e Seyna, ora figlio di una madre strappata da una morte improvvisa, e il suo sguardo è attirato dalle curve del corpo nudo della moglie, poi dagli abiti vistosi della giovane prostituta che batte il marciapiede in Costa d’Avorio.
Come un esule stretto fra due lingue – ognuna delle quali si affina frequentando l’altra – il suo linguaggio visivo si eleva e si depura in questi contrasti che costituiscono il calendario di un anno: lavoro sulla prospettiva, grande attenzione prestata alla disposizione delle foto in sequenza. Mi sembra che l’estetica di Steele-Perkins si ispiri ai concetti giapponesi della bellezza. Oscilla tra una volontaria sobrietà grafica e l’imperfezione del wabi-sabi, che trova la bellezza nel familiare, nella ruggine, nell’usura. L’indefinito caratterizza il viaggio, la velocità, il quotidiano preferisce spesso la spontaneità dei gesti, il primo piano sui volti amati, il remake della foto di famiglia.
L’ambiente del giornalismo fotografico è spesso ancora incentrato sui miti consunti e le metafore di guerra; alterna l’andare in guerra (conflitti e violenze, ma sempre altrove) al riposo del guerriero (poco fotografato o quanto meno non mostrato). Queste foto ci travolgono nella loro fuga in avanti.
In questo progetto attuato a lungo e intuitivamente, Steele-Perkins tenta al contrario di ridefinire un territorio che integra nel viaggio il sottile tessuto del quotidiano. Delimita questo territorio come fa un pittore con il verde acido di un prato disposto di sbieco nella cornice, con le piccole luci velate delle candeline dei compleanni o i neon della città, con la cornice intima della sua casa o l’immensità di un cielo nuvoloso nell’oblò di un oceano, la sensualità delle stagioni, la brina di un paesaggio, il raggio che accende una capigliatura.
È la vita di un anno intero: giornate troppo lunghe, un anno troppo breve, il tempo per alcune foto a colori.
Carole Naggar, scrittrice. 8 marzo 2004
Faccio parte di tutto quello che ho incontrato. Tuttavia ogni esperienza è come un’arcata attraverso cui risplende questo mondo inesplorato, i cui limiti svaniscono per sempre quando mi sposto.
Alfred Lord Tennyson, Ulysses
La vigilia di Capodanno del 2001 fu fredda e secca. Passeggiata nella campagna del Surrey con mia moglie, i miei due figli e una coppia di amici, David e Annie. Il paesaggio ci appartiene mentre camminiamo sulle foglie e il fango gelati, un velo di vapore esce dalle nostre bocche, attraversiamo ponti di pietra e di legno sotto i quali scorrono i ruscelli che trasportano rami di legno gettati in acqua dai ragazzini; passiamo davanti a rovi selvatici e fabbriche abbandonate. Le voci scompaiono nei boschi e nei campi vuoti. È inverno e il sole è basso. Ho fatto delle foto, come faccio sempre quando passeggiamo. Foto di noi, del paesaggio, delle piante e degli edifici. Ci siamo arrampicati fino a raggiungere una chiesa sulla Pilgrims' Way mentre la luce va calando e siamo tornati alle nostre automobili quando è già buio. Ritornati al calore della casa, abbiamo cenato a lume di candela, abbiamo bevuto, guardato la televisione, i bambini si sono lavati e poi sono andati a letto, mi sono addormentato tra le braccia di mia moglie in un comodo letto. L’ultimo giorno, straordinario senza esserlo, prima del nuovo millennio.
Ho pensato alle foto che avevo fatto; i ricordi riportati dall’altro capo del mondo e quelli, estranei, riportati dall’angolo della strada; la vita che conduco, le macchine fotografiche a tracolla, che rubano immagini dei movimenti che mi circondano perché è il mio mestiere, ma anche perché non posso fare diversamente, se non riunire queste tracce del tempo con la mia piccola scatola nera. Penso a come è fatta ogni foto che scelgo e come ogni foto contenga una parte di me.
L'anno è trascorso velocissimo. Gli eventi che costituiscono la nostra storia si infiammano e si fondono. I bambini sono cresciuti. Il giardino è cambiato, Ho viaggiato, lavorato, amato, ho avuto dei dispiaceri. Ho viaggiato per i quattro angoli del mondo, subendo i capricci della natura, percorrendo i continenti con il dito appoggiato sullo scatto della mia macchina fotografica. È l’anno in cui è morta mia madre; il suo corpo è stato consumato dalle fiamme; le sue ceneri sono state disperse tra l’edera e l’erba di una chiesetta di Northampton. Le giornate si sono accorciate. È arrivato l’inverno. Un anno è finito. I frammenti del tempo erano raccolti ed esposti qui: ricostruzione frammentata, eco silenziosa di un anno che mi sono lasciato alle spalle.
La mattina del 1° gennaio 2002 fu piacevole, fredda e secca. Io e mia moglie abbiamo litigato, poi abbiamo fatto pace. Passeggiata nella campagna del Kent con Miyako, i miei due figli e una coppia di amici, David e Annie. Agrifoglio tra le querce, argilla che si attacca alle scarpe, barba di un vecchio che cattura la luce dell’inverno, alziamo le mani per accogliere le nostre lunghe ombre. All’anno che finisce, all’anno che inizia. Ho fatto delle foto.
Chris Steele Perkins
Prefazione del libro Echoes che accompagna la mostra, edizioni Trolley, distribuito da Phaidon.
Biografia
Chris Steele-Perkins, nato nel 1947, cresce a Londra con la sua famiglia. Nel 1949 ottiene la laurea con lode in psicologia all’università di Newcastle-upon-Tyne (1967-70) e al contempo lavora come fotografo e editor di immagini per il giornale studentesco.
Nel 1971 si trasferisce a Londra, diventa fotografo indipendente e inizia il suo primo progetto estero nel 1973 in Bangladesh, seguito da un lavoro di assistenza ad organismi in missione di soggiorno. Nel 1975 è co-fondatore del gruppo Exit, organizza con Mark Edwards alcune mostre alla Photographers Gallery di Londra. Entra a far parte dell’agenzia Viva, con sede a Parigi, nel 1976 e della Magnum a partire dal 1979. Realizza numerosi reportage in Gran Bretagna, in America Centrale, in Libano e in Africa.
Nel 1979, pubblica il suo primo libro, The Teds. Il suo ultimo progetto di grande portata riguarda la situazione in Afghanistan. Attualmente lavora spesso in Giappone. I suoi reportage sono unanimemente apprezzati dal pubblico ed hanno vinto numerosi premi, tra cui il premio di Fotogiornalismo britannico di Tom Hopkinson (1988), il premio Oscar Barnack (1988), la medaglia d’oro di Robert Capa (1989) e il One World Award (1994).
04
gennaio 2005
Chris Steele-Perkins – Echi, visioni private, frammenti di un anno
Dal 04 al 28 gennaio 2005
fotografia
Location
FNAC
Verona, Via Cappello, 34, (Verona)
Verona, Via Cappello, 34, (Verona)
Orario di apertura
Lunedì-sabato: dalle 9.30 alle 20.00
Domenica dalle 10.30 alle 20.00
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