Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Giancarlo Pozzi
Saranno esposte 47 opere, alcune in legno altre su carta, che traggono il loro spunto da un viaggio compiuto dall’artista nel 2005 in Etiopia
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Si inaugura giovedì 11 maggio alle ore 21 la mostra di Giancarlo Pozzi dal titolo Portapoesia. Saranno esposte 47 opere, alcune in legno altre su carta, che traggono il loro spunto da un viaggio compiuto dall'artista nel 2005 in Etiopia.
Con queste parole Romano Oldrini ha descritto l'opera di Pozzi in catalogo:
Quanto può pesare una tavola di legno grezzo larga circa due metri, alta cinque e dello spessore di dieci centimetri circa? L’ho chiesto ad un esperto: due quintali circa. Moltiplicate questo numero per venti e avremo un totale di quaranta. Quaranta quintali di legno grezzo e massiccio. Vi chiederete cosa c’entra tutto questo con il lavoro di Giancarlo Pozzi. C’entra e come! Pozzi nel gennaio 2005 compie un viaggio nell’Etiopia del Nord. E’ uno dei tanti viaggi che lui, instancabile viaggiatore e camminatore, ha compiuto durante la sua vita. Per turismo? Per divertimento? Nossignori! Pozzi viaggia per curiosità, per amore di conoscenza; lo attraggono le civiltà scomparse, i lacerti del passato, la perduta Atlantide. Ebbene in questo viaggio Pozzi ne incontra una ventina di queste tavole, e le incontra tutte a custodia di altrettante chiese copte. Intanto va detto che le chiese copte (i copti sono cristiani di origine egiziana che hanno difeso con forza lingua e religione dall’invasione islamica) sono tutte scavate sotto terra (per difendersi dalla calura? o dagli aggressori in una sorta di resistenza catacombale?) e tutte custodite da questi mastodontici portali. Pozzi incontra quindi circa quaranta quintali di “potenza”, quaranta quintali di esuberanza ciclopica, lui che ha fatto della leggerezza aerea la cifra della sua estetica (le sue “carcasse” di macchine degli anni ’60-’70 sembra che volino!). Ne rimane folgorato. L’elaborazione non è immediata. E’ noto il suo metodo di lavoro. Lento, metodico, quasi maniacale, forgiato da anni di applicazione presso i torchi di Upiglio. Poco più di un anno per arrivare a quello che vediamo in questa mostra. Acrilici su legno, tempere su carta, assemblaggi di materiali i più disparati, tutti testimoni del suo lirismo oltre che della sua ecletticità. Pozzi non può riprodurre, è ovvio, quelle enormi tavole. Aggiungiamo noi che Pozzi non “vuole” riprodurre quelle tavole. Lui le interpreta, lui vuole tirar fuori da quei giganti il senso della loro presenza. “Quale senso” ci chiediamo. Vien voglia di pensare ad una linea di difesa contro la modernità ed i suoi miti. Ma non penso sia questo il senso. Lui cerca i segni del passato che informano il presente , lui rincorre la noce della vita, la germinale Atlantide. Pozzi non è un surrealista (come qualcuno ha detto), Pozzi è un “in-realista” e mi si perdoni il neologismo. Non vola al di là del reale ma ne penetra i più intimi recessi, non fugge la materia ma la disossa fino al mallo primigenio. Utopista? Forse, nella misura in cui però diffida del reale in parvenza e delle sue coordinate antropologiche. Lui prima digrigna realisticamente i denti e combatte pesantemente con la materia; solo dopo il combattimento fa scattare la sua levità, la sua leggerezza. Ed ecco allora il colore tenuemente slaminato, ecco il lacerto di carta che ingentilisce il legno combusto, ecco le incisioni abrase sul medesimo ad aprire finestre su antichi alfabeti. Guardiamo soprattutto quelle carte dove la tempera è lavorata su toni di marrone scuro o nero. Ci aspettiamo competizione o cacofonie urlate, troviamo invece calore amniotico e rimandi assonanti. E i suoi incastri di legno, sui modelli visti dal vivo che non solo obbedivano ad una funzione riparativa vista la dimostrata decoratività, si armonizzano splendidamente nell’opera in toto recuperando in chiave lirica anche oggetti poveri come cerniere o tiranti. Dice Pozzi che non lavora su fotografia, e anche questo ci sta. Lui ha bisogno del ricordo, lui deve far gorgogliare la zuppa nel cervello prima di darle un corpo ed una voce . Far decantare i volumi, il peso. Il peso della leggerezza appunto.
Con queste parole Romano Oldrini ha descritto l'opera di Pozzi in catalogo:
Quanto può pesare una tavola di legno grezzo larga circa due metri, alta cinque e dello spessore di dieci centimetri circa? L’ho chiesto ad un esperto: due quintali circa. Moltiplicate questo numero per venti e avremo un totale di quaranta. Quaranta quintali di legno grezzo e massiccio. Vi chiederete cosa c’entra tutto questo con il lavoro di Giancarlo Pozzi. C’entra e come! Pozzi nel gennaio 2005 compie un viaggio nell’Etiopia del Nord. E’ uno dei tanti viaggi che lui, instancabile viaggiatore e camminatore, ha compiuto durante la sua vita. Per turismo? Per divertimento? Nossignori! Pozzi viaggia per curiosità, per amore di conoscenza; lo attraggono le civiltà scomparse, i lacerti del passato, la perduta Atlantide. Ebbene in questo viaggio Pozzi ne incontra una ventina di queste tavole, e le incontra tutte a custodia di altrettante chiese copte. Intanto va detto che le chiese copte (i copti sono cristiani di origine egiziana che hanno difeso con forza lingua e religione dall’invasione islamica) sono tutte scavate sotto terra (per difendersi dalla calura? o dagli aggressori in una sorta di resistenza catacombale?) e tutte custodite da questi mastodontici portali. Pozzi incontra quindi circa quaranta quintali di “potenza”, quaranta quintali di esuberanza ciclopica, lui che ha fatto della leggerezza aerea la cifra della sua estetica (le sue “carcasse” di macchine degli anni ’60-’70 sembra che volino!). Ne rimane folgorato. L’elaborazione non è immediata. E’ noto il suo metodo di lavoro. Lento, metodico, quasi maniacale, forgiato da anni di applicazione presso i torchi di Upiglio. Poco più di un anno per arrivare a quello che vediamo in questa mostra. Acrilici su legno, tempere su carta, assemblaggi di materiali i più disparati, tutti testimoni del suo lirismo oltre che della sua ecletticità. Pozzi non può riprodurre, è ovvio, quelle enormi tavole. Aggiungiamo noi che Pozzi non “vuole” riprodurre quelle tavole. Lui le interpreta, lui vuole tirar fuori da quei giganti il senso della loro presenza. “Quale senso” ci chiediamo. Vien voglia di pensare ad una linea di difesa contro la modernità ed i suoi miti. Ma non penso sia questo il senso. Lui cerca i segni del passato che informano il presente , lui rincorre la noce della vita, la germinale Atlantide. Pozzi non è un surrealista (come qualcuno ha detto), Pozzi è un “in-realista” e mi si perdoni il neologismo. Non vola al di là del reale ma ne penetra i più intimi recessi, non fugge la materia ma la disossa fino al mallo primigenio. Utopista? Forse, nella misura in cui però diffida del reale in parvenza e delle sue coordinate antropologiche. Lui prima digrigna realisticamente i denti e combatte pesantemente con la materia; solo dopo il combattimento fa scattare la sua levità, la sua leggerezza. Ed ecco allora il colore tenuemente slaminato, ecco il lacerto di carta che ingentilisce il legno combusto, ecco le incisioni abrase sul medesimo ad aprire finestre su antichi alfabeti. Guardiamo soprattutto quelle carte dove la tempera è lavorata su toni di marrone scuro o nero. Ci aspettiamo competizione o cacofonie urlate, troviamo invece calore amniotico e rimandi assonanti. E i suoi incastri di legno, sui modelli visti dal vivo che non solo obbedivano ad una funzione riparativa vista la dimostrata decoratività, si armonizzano splendidamente nell’opera in toto recuperando in chiave lirica anche oggetti poveri come cerniere o tiranti. Dice Pozzi che non lavora su fotografia, e anche questo ci sta. Lui ha bisogno del ricordo, lui deve far gorgogliare la zuppa nel cervello prima di darle un corpo ed una voce . Far decantare i volumi, il peso. Il peso della leggerezza appunto.
11
maggio 2006
Giancarlo Pozzi
Dall'undici maggio al 06 giugno 2006
arte contemporanea
Location
GALLERIA GHIGGINI 1822
Varese, Via Albuzzi, 17, (Varese)
Varese, Via Albuzzi, 17, (Varese)
Orario di apertura
dal martedì al sabato: 10 - 12,30; 16 - 19,15. Aperti la prima domenica del mese
Vernissage
11 Maggio 2006, ore 21
Autore