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Gianni Pignat – Scritture della mente
Il linguaggio di Pignat è un codice di segni, che spesso appare sempre uguale a se stesso, nella sua ripetizione e aspirazione ad un moto infinito che segna il ritmo speciale di ogni opera
Comunicato stampa
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Sabato 7 giugno è stata inaugurata, nelle sale della Galleria Sagittaria del Centro Culturale Casa A. Zanussi di Pordenone, la mostra “Scritture della mente”, dedicata all’artista pordenonese Gianni Pignat. Documentata da amplio catalogo, sarà aperta, con ingresso libero, fino al 26 luglio 2008, da lunedì a sabato, dalle ore 16.00 alle 19.30; nei giorni festivi dalle 10.30 alle 12.30 e dalle16.00 alle 19.30. Chiuso le domeniche di luglio.
La mostra è stata organizzata dal Centro Iniziative Culturali Pordenone, con il sostegno di Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia e Banca Popolare FriulAdria e in collaborazione con il Centro Culturale Casa A. Zanussi di Pordenone.
Gianni Pignat, architetto, fotografo e artista, è molto noto a Pordenone: le suggestioni che ha riportato in immagini fotografiche dai suoi molti viaggi, soprattutto verso mete lontane dal turismo di massa e, anzi, verso paesi poveri e in conflitto, si traducono, soprattutto da dieci anni a questa parte, in altrettante evocazioni che trovano luogo nell’espressione variegata della sua ricerca artistica. La costruzione contemporaneamente ragionata e razionale dei segni caratteristici di Pignat, che spesso riportano a civiltà antiche e lontane nel tempo e nello spazio, si esprime in una scelta di materiali altrettanto varia. La sperimentazione, infatti, è un altro tratto caratteristico di Pignat, che passa dalla pittura al monotipo, dalla xilografia all’incisione o all’ossidazione dei metalli, dalla ceramica alle tavole incise a fuoco.
Il linguaggio di Pignat è un codice di segni, che spesso appare sempre uguale a se stesso, nella sua ripetizione e aspirazione ad un moto infinito che segna il ritmo speciale di ogni opera. Questo riproporsi esprime una continua tensione che ritrova nel segno la sua certezza espressiva, come nell’uscire quasi dall’opera Pignat crea una sorta di circolarità che prende, affascina, conduce chi guarda il suo lavoro in una dimensione inafferrabile, proprio atemporale, a volte paradossalmente immateriale. Scavare la materia, inciderla, corroderla, per ricrearla, per farla apparire in modo sorprendente e diverso da quella di partenza: tutto questo è anche un viaggio, quello che Pignat intraprende ogni volta che inizia una nuova opera, che porta con sé l’idea di un segno lontano, quindi di un altro viaggio, a qualcosa che ne richiama un’altra, in un moto infinito, per quanto costruito razionalmente, ma che ugualmente cattura, con la sua particolare capacità di instaurare un dialogo ricco di profonda umanità, dialogo che evoca genti lontane e civiltà che esprimono tutte una loro magia.
Aggiungere parole al linguaggio del mondo
Giancarlo Pauletto
Non è per un gusto più o meno rarefatto od intellettuale che questa mostra di Gianni Pignat si intitola “Scritture della mente”.
La scrittura infatti è un assemblaggio di segni, di segni elementari che uniti tra loro formano le lettere dell’alfabeto; le lettere poi formano le parole, le parole le frasi e le frasi il discorso, cioè una descrizione, una constatazione, un giudizio e via via, fino al Canto notturno o agli Ossi di seppia, insomma fino ai capolavori della civiltà.
Di queste scritture di Pignat, e del fatto che siano mentali, cioè controllate da una precisa attenzione “fabbrile”, possiamo fare qualche esempio. Prendiamo Il bosco di Peredelkino, una xilografia del 2005. Qui v’è una struttura di segni che, connettendosi al fondo, creano una sorta di rete alfabetica sulla quale emergono quelle “parole” che sono le forme geometriche stanziate sullo spazio della tavola. L’insieme delle parole, poi, si compone nel “discorso” che è, appunto, il “Bosco di Peredelkino”, un’esperienza metaforizzata attraverso il fitto dei tronchi di betulla – l’alfabeto di fondo – e la forma delle foglie che si librano nello spazio: ma naturalmente, trattandosi di un’esperienza visiva e non verbale, all’autore non interesserà tanto che chi guarda intuisca il modo attraverso il quale egli ha trasformato l’esperienza, quanto che essa gli appaia con la leggerezza e, per così dire, la grazia intensa con cui ha toccato la sua fantasia.
Gli interesserà, insomma, che il dato formale si componga alla fine in una plausibile giustezza, come in effetti accade.
Parole non dissimili si possono dire, altro esempio, per alcune ceramiche del 2008 intitolate Possibile, non probabile.
Qui possiamo intendere come alfabeto le piccole forme – quadrate, più lontane e diverse civiltà. Sappiamo che questi segni sono parte grande del forziere da cui si ingrana la sua elaborazione fantastica. Ma tutti noi, quando facciamo qualsiasi discorso, usiamo – per dire ciò che ci sta a cuore – parole elaborate da lunghe tradizioni culturali, tutti noi siamo figli di qualcuno e ciò che fa la differenza, nei nostri discorsi, è proprio la coscienza più o meno chiara delle nostre ascendenze. Se è più chiara, è probabile che anche il nostro discorso sia, alla fine, più chiaro, se lo è di meno, facilmente le nostre parole si impasteranno, i nostri segni non riusciranno a coordinarsi, i nostri colori cadranno nell’insignificanza.
Il discorso di Pignat, in effetti, è chiarissimo, e nello stesso tempo assai problematico e interrogante proprio per questa sua fondamentale pulsione all’indefinito: inafferrabile nella sua indeterminata variazione, sempre uguale a se stesso nella sua continua tensione a riproporsi.
Del resto anche qui il titolo dell’opera è una spia incontrovertibile, perché è un ossimoro, afferma e nega nello stesso tempo. Nella stazione, infatti, si sta fermi, ma si sta fermi in attesa di partire. Così anche le opere di Pignat sono ferme, controllate, stanti: ma per raccontare di un viaggio, di un andare, di un interrogarsi.
Qualcuno potrebbe obiettare che vi sono lavori che hanno diversa natura, che non tendono affatto a continuare oltre i loro limiti, che vivono bloccati in una circolarità che è la loro forma e la loro immutabile essenza.
I Calendari Maya sarebbero opere di questa specie. In realtà non mi pare che la cosa possa essere interpretata a questo modo. I calendari di Pignat sono metalli che si svolgono per fasce concentriche e ritengono nella loro natura l’indefinita possibilità di essere continuamente racchiusi in altri triangolari, trapezoidali – che, accostate tra loro, producono altre forme, cioè parole, che poi si dispongono in righe che vengono, ancora, unificate dalla scelta di un certo colore e che infine, accostandosi ancora, formano il discorso complessivo delle tavole proposte dall’autore. Perché?
Il titolo può essere o non essere utile a guidare l’osservatore dentro il senso dell’opera, anzitutto perché, talvolta, questo senso non è chiaro neppure all’artista il quale, se è vero che abitualmente non manca di tentare una razionalizzazione di quello che fa, tuttavia spesso non è affatto in grado di chiarire le ragioni profonde del suo lavoro, del fatto cioè che il “discorso”, alla fine, gli sia venuto in un certo modo piuttosto che in un altro: ma allora perché abbiamo posto quella domanda?
Perché è utile a rivelare l’elemento fondante del lavoro di Pignat, all’apparenza tanto vario – per segni parole e tecniche – da apparire quasi incontrollabile e disperso. Quale che sia la ragione esatta per la quale egli ha scelto un titolo siffatto, rimane vero che esso esprime una possibilità, non una certezza, un percorso, non una meta, un cercare, non un aver trovato. E infatti le opere di Pignat sono finite, ma anche non finite, si fermano ai limiti della tavola, ma potrebbero continuare ulteriormente, ripetere le loro “parole” senza un punto d’arresto predeterminato: che è la natura stessa dei lavori a respingere. Qui potremmo esemplificare praticamente con ogni opera, ma prendiamone invece una, sotto questo profilo, assolutamente tipica, una qualunque delle quattro intitolate Tutta la vita è una stazione. Qui Pignat inscena, fondamentalmente, dei labirinti. Il metallo viene traforato secondo misure straordinariamente proprie e, se mi si comprende, anche straordinariamente caotiche, e caotiche proprio perché il loro senso sarebbe quello di continuare indefinitamente, di continuare fino allo stordimento e alla perdita di coscienza non solo di chi fa, ma anche di chi guarda. Non sono importanti le fonti a cui Pignat può avere attinto per costruire queste non descrivibili sequenze: sappiamo bene che è un grande viaggiatore e che sempre lo hanno affascinato i segni lasciati dalle cerchi, e questo in un processo idealmente senza fine, come abbiamo già notato. Per altro verso si può dire che sempre un calendario indica la ripetizione indefinita degli anni, contiene cioè in se stesso un elemento d’identità e un elemento di riproposizione, sta cioè perfettamente dentro la logica delle opere di Pignat.
Questa logica spiega anche le mutazioni nelle tecniche e nei materiali adoperati: la pittura, il monotipo, la xilografia, l’incisione e l’ossidazione di metalli, la ceramica, le tavole incise e naturalmente tutte le altre possibilità che all’artista possano venire in mente. Perché questa tensione all’andare, questa mutabilità nell’identico ha una continua necessità di trovare nuove facce espressive.
Così noi possiamo entusiasmarci per la raffinatezza dei metalli di Pignat, per la misura pressoché infallibile delle sue scansioni, per l’aria antica e nello stesso tempo modernissima delle sue ceramiche, per lo splendore di certe tavole, per la bellezza grafica di tanti monotipi.
Ma se attraverso tutti questi lavori non cogliessimo questa spinta profonda e ininterrotta al dire, al fare, al colloquiare con se stesso e con la realtà, aggiungendo nuove parole all’immenso linguaggio del mondo, rischieremmo di sbagliare Pignat per un raffinato decoratore, per un bravissimo creatore di “oggetti belli”, cioè rischieremmo di collocarlo – assieme a tanta arte contemporanea, del resto per molti versi pregevole – nell’ambito dell’estetico, che riproduce in altre forme il già noto, non invece di attribuirgli quel che gli spetta, una capacità di parlare a noi e a tutti attraverso la sua profonda e umana originalità.
La mostra è stata organizzata dal Centro Iniziative Culturali Pordenone, con il sostegno di Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia e Banca Popolare FriulAdria e in collaborazione con il Centro Culturale Casa A. Zanussi di Pordenone.
Gianni Pignat, architetto, fotografo e artista, è molto noto a Pordenone: le suggestioni che ha riportato in immagini fotografiche dai suoi molti viaggi, soprattutto verso mete lontane dal turismo di massa e, anzi, verso paesi poveri e in conflitto, si traducono, soprattutto da dieci anni a questa parte, in altrettante evocazioni che trovano luogo nell’espressione variegata della sua ricerca artistica. La costruzione contemporaneamente ragionata e razionale dei segni caratteristici di Pignat, che spesso riportano a civiltà antiche e lontane nel tempo e nello spazio, si esprime in una scelta di materiali altrettanto varia. La sperimentazione, infatti, è un altro tratto caratteristico di Pignat, che passa dalla pittura al monotipo, dalla xilografia all’incisione o all’ossidazione dei metalli, dalla ceramica alle tavole incise a fuoco.
Il linguaggio di Pignat è un codice di segni, che spesso appare sempre uguale a se stesso, nella sua ripetizione e aspirazione ad un moto infinito che segna il ritmo speciale di ogni opera. Questo riproporsi esprime una continua tensione che ritrova nel segno la sua certezza espressiva, come nell’uscire quasi dall’opera Pignat crea una sorta di circolarità che prende, affascina, conduce chi guarda il suo lavoro in una dimensione inafferrabile, proprio atemporale, a volte paradossalmente immateriale. Scavare la materia, inciderla, corroderla, per ricrearla, per farla apparire in modo sorprendente e diverso da quella di partenza: tutto questo è anche un viaggio, quello che Pignat intraprende ogni volta che inizia una nuova opera, che porta con sé l’idea di un segno lontano, quindi di un altro viaggio, a qualcosa che ne richiama un’altra, in un moto infinito, per quanto costruito razionalmente, ma che ugualmente cattura, con la sua particolare capacità di instaurare un dialogo ricco di profonda umanità, dialogo che evoca genti lontane e civiltà che esprimono tutte una loro magia.
Aggiungere parole al linguaggio del mondo
Giancarlo Pauletto
Non è per un gusto più o meno rarefatto od intellettuale che questa mostra di Gianni Pignat si intitola “Scritture della mente”.
La scrittura infatti è un assemblaggio di segni, di segni elementari che uniti tra loro formano le lettere dell’alfabeto; le lettere poi formano le parole, le parole le frasi e le frasi il discorso, cioè una descrizione, una constatazione, un giudizio e via via, fino al Canto notturno o agli Ossi di seppia, insomma fino ai capolavori della civiltà.
Di queste scritture di Pignat, e del fatto che siano mentali, cioè controllate da una precisa attenzione “fabbrile”, possiamo fare qualche esempio. Prendiamo Il bosco di Peredelkino, una xilografia del 2005. Qui v’è una struttura di segni che, connettendosi al fondo, creano una sorta di rete alfabetica sulla quale emergono quelle “parole” che sono le forme geometriche stanziate sullo spazio della tavola. L’insieme delle parole, poi, si compone nel “discorso” che è, appunto, il “Bosco di Peredelkino”, un’esperienza metaforizzata attraverso il fitto dei tronchi di betulla – l’alfabeto di fondo – e la forma delle foglie che si librano nello spazio: ma naturalmente, trattandosi di un’esperienza visiva e non verbale, all’autore non interesserà tanto che chi guarda intuisca il modo attraverso il quale egli ha trasformato l’esperienza, quanto che essa gli appaia con la leggerezza e, per così dire, la grazia intensa con cui ha toccato la sua fantasia.
Gli interesserà, insomma, che il dato formale si componga alla fine in una plausibile giustezza, come in effetti accade.
Parole non dissimili si possono dire, altro esempio, per alcune ceramiche del 2008 intitolate Possibile, non probabile.
Qui possiamo intendere come alfabeto le piccole forme – quadrate, più lontane e diverse civiltà. Sappiamo che questi segni sono parte grande del forziere da cui si ingrana la sua elaborazione fantastica. Ma tutti noi, quando facciamo qualsiasi discorso, usiamo – per dire ciò che ci sta a cuore – parole elaborate da lunghe tradizioni culturali, tutti noi siamo figli di qualcuno e ciò che fa la differenza, nei nostri discorsi, è proprio la coscienza più o meno chiara delle nostre ascendenze. Se è più chiara, è probabile che anche il nostro discorso sia, alla fine, più chiaro, se lo è di meno, facilmente le nostre parole si impasteranno, i nostri segni non riusciranno a coordinarsi, i nostri colori cadranno nell’insignificanza.
Il discorso di Pignat, in effetti, è chiarissimo, e nello stesso tempo assai problematico e interrogante proprio per questa sua fondamentale pulsione all’indefinito: inafferrabile nella sua indeterminata variazione, sempre uguale a se stesso nella sua continua tensione a riproporsi.
Del resto anche qui il titolo dell’opera è una spia incontrovertibile, perché è un ossimoro, afferma e nega nello stesso tempo. Nella stazione, infatti, si sta fermi, ma si sta fermi in attesa di partire. Così anche le opere di Pignat sono ferme, controllate, stanti: ma per raccontare di un viaggio, di un andare, di un interrogarsi.
Qualcuno potrebbe obiettare che vi sono lavori che hanno diversa natura, che non tendono affatto a continuare oltre i loro limiti, che vivono bloccati in una circolarità che è la loro forma e la loro immutabile essenza.
I Calendari Maya sarebbero opere di questa specie. In realtà non mi pare che la cosa possa essere interpretata a questo modo. I calendari di Pignat sono metalli che si svolgono per fasce concentriche e ritengono nella loro natura l’indefinita possibilità di essere continuamente racchiusi in altri triangolari, trapezoidali – che, accostate tra loro, producono altre forme, cioè parole, che poi si dispongono in righe che vengono, ancora, unificate dalla scelta di un certo colore e che infine, accostandosi ancora, formano il discorso complessivo delle tavole proposte dall’autore. Perché?
Il titolo può essere o non essere utile a guidare l’osservatore dentro il senso dell’opera, anzitutto perché, talvolta, questo senso non è chiaro neppure all’artista il quale, se è vero che abitualmente non manca di tentare una razionalizzazione di quello che fa, tuttavia spesso non è affatto in grado di chiarire le ragioni profonde del suo lavoro, del fatto cioè che il “discorso”, alla fine, gli sia venuto in un certo modo piuttosto che in un altro: ma allora perché abbiamo posto quella domanda?
Perché è utile a rivelare l’elemento fondante del lavoro di Pignat, all’apparenza tanto vario – per segni parole e tecniche – da apparire quasi incontrollabile e disperso. Quale che sia la ragione esatta per la quale egli ha scelto un titolo siffatto, rimane vero che esso esprime una possibilità, non una certezza, un percorso, non una meta, un cercare, non un aver trovato. E infatti le opere di Pignat sono finite, ma anche non finite, si fermano ai limiti della tavola, ma potrebbero continuare ulteriormente, ripetere le loro “parole” senza un punto d’arresto predeterminato: che è la natura stessa dei lavori a respingere. Qui potremmo esemplificare praticamente con ogni opera, ma prendiamone invece una, sotto questo profilo, assolutamente tipica, una qualunque delle quattro intitolate Tutta la vita è una stazione. Qui Pignat inscena, fondamentalmente, dei labirinti. Il metallo viene traforato secondo misure straordinariamente proprie e, se mi si comprende, anche straordinariamente caotiche, e caotiche proprio perché il loro senso sarebbe quello di continuare indefinitamente, di continuare fino allo stordimento e alla perdita di coscienza non solo di chi fa, ma anche di chi guarda. Non sono importanti le fonti a cui Pignat può avere attinto per costruire queste non descrivibili sequenze: sappiamo bene che è un grande viaggiatore e che sempre lo hanno affascinato i segni lasciati dalle cerchi, e questo in un processo idealmente senza fine, come abbiamo già notato. Per altro verso si può dire che sempre un calendario indica la ripetizione indefinita degli anni, contiene cioè in se stesso un elemento d’identità e un elemento di riproposizione, sta cioè perfettamente dentro la logica delle opere di Pignat.
Questa logica spiega anche le mutazioni nelle tecniche e nei materiali adoperati: la pittura, il monotipo, la xilografia, l’incisione e l’ossidazione di metalli, la ceramica, le tavole incise e naturalmente tutte le altre possibilità che all’artista possano venire in mente. Perché questa tensione all’andare, questa mutabilità nell’identico ha una continua necessità di trovare nuove facce espressive.
Così noi possiamo entusiasmarci per la raffinatezza dei metalli di Pignat, per la misura pressoché infallibile delle sue scansioni, per l’aria antica e nello stesso tempo modernissima delle sue ceramiche, per lo splendore di certe tavole, per la bellezza grafica di tanti monotipi.
Ma se attraverso tutti questi lavori non cogliessimo questa spinta profonda e ininterrotta al dire, al fare, al colloquiare con se stesso e con la realtà, aggiungendo nuove parole all’immenso linguaggio del mondo, rischieremmo di sbagliare Pignat per un raffinato decoratore, per un bravissimo creatore di “oggetti belli”, cioè rischieremmo di collocarlo – assieme a tanta arte contemporanea, del resto per molti versi pregevole – nell’ambito dell’estetico, che riproduce in altre forme il già noto, non invece di attribuirgli quel che gli spetta, una capacità di parlare a noi e a tutti attraverso la sua profonda e umana originalità.
07
giugno 2008
Gianni Pignat – Scritture della mente
Dal 07 giugno al 26 luglio 2008
arte contemporanea
disegno e grafica
disegno e grafica
Location
GALLERIA SAGITTARIA – CENTRO INIZIATIVE CULTURALI PORDENONE
Pordenone, Via Concordia Sagittaria, 7, (Pordenone)
Pordenone, Via Concordia Sagittaria, 7, (Pordenone)
Orario di apertura
da lunedì a sabato dalle 16 alle 19.30; nei giorni festivi dalle 10.30 alle 12.30 e dalle 16 alle 19.30. Chiuso le domeniche di luglio
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