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Giovanni Marinelli – Progetti
mostra fotografica
Comunicato stampa
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Come Sindaco di Piobbico ho il piacere di informarla che sabato 23 luglio alle ore 18, Vittorio Sgarbi presenterà al Castello Brancaleoni la mostra fotografica “Progetti” di Giovanni Marinelli. Il volume da lui curato contiene un suo testo sull’opera dell’artista.
I “Progetti” sono dedicati a Piobbico (nell’ambito degli spazi riferiti all’esposizione delle immagini sulla città è stata realizzata, nel salone principale del castello, una grandiosa installazione dedicata alle piante), a Vita Silente (immagini dell’ex manicomio di Pesaro) con scritti di Mariastella Margozzi, al Jazz con scritti di Monica Miretti ed alle Ombre con scritti di Silvia Pegoraro. La pubblicazione, Edizioni Cinquantasei Bologna, formato cm 21x27, è composta di 224 pagine.
PROGETTI
A cura di Vittorio Sgarbi
Vedendo le immagini di Giovanni Marinelli, imprenditore con una quarantennale passione per la fotografia, mi viene subito in mente un tipo di considerazione. È una riflessione di carattere generale che avevo già proposto in termini simili per un altro fotografo non professionista, un grande esponente del jet set internazionale che l’apprezzò poco, forse perché nella circostanza era troppo desideroso di farsi considerare un artista piuttosto che il bon viveur - yachts, champagne, belle donne - fino a quel momento conosciuto. La ripropongo in questa occasione, sicuro che l’intelligenza del mio interlocutore e dei lettori le farà fare miglior fine, e convinto come sono che per capire Marinelli sia necessario capire la fotografia, cosa che non è affatto scontata.
Ecco la riflessione: Giovanni Marinelli è la dimostrazione vivente di quanto la fotografia sia stata e sia tutt’ora un mezzo di portata rivoluzionaria. In che senso? La fotografia, strumento capace di comunicare per immagini e di farci esprimere senza bisogno di imparare il difficile mestiere tradizionale con cui una volta si faceva altrettanto (la pittura, la scultura), ha aperto il campo dell’espressione a un numero infinito di persone, come mai c’erano state prima della sua invenzione. Marinelli conferma la regola: non è un fotografo di professione, è un affermato industriale del vetro, se non fosse esistita la fotografia, forse non avrebbe trovato modo e tempo per dedicarsi all’espressione. Anche uno dei maggiori fotografi del Novecento, Lartigue, è stato un fotografo amatoriale (“dilettante”, si diceva una volta) per la maggior parte della sua esistenza. Per Lartigue, come per Marinelli, la fotografia era qualcosa di più di una semplice passione o di un divertissement artistico: era un’appendice della vita, un modo con il quale capire il mondo e se stessi in rapporto con esso. Eppure nessuno si sognerebbe di non considerare Lartigue non solo un fotografo, ma un maestro assoluto della fotografia, molto più importante della maggior parte dei professionisti. Difficile, molto più difficile che altrettanto possa capitare con un pittore o uno scultore “dilettante”.
Perché questo è possibile? Perché la fotografia è il mezzo che ha tradotto nel modo più diretto il rapporto che esiste fra il nostro occhio e le immagini: anche nel mestiere più sofisticato, bastano poche operazioni tecniche, invece di quelle lunghe e difficili della pittura o della scultura. In teoria, tutti possiamo considerarci fotografi potenziali, non importa se più o meno capaci: tutti, davanti a una fotografia, avvertiamo la sensazione, “democratica” e pienamente in linea con i valori collettivi della società di massa, di appartenere alla stessa razza di chi l’ha realizzata, diversamente da quanto capita davanti a una pittura o una scultura di pregio. Si potrebbe credere che questo piano comune che si stabilisce fra chi realizza e chi guarda le fotografie finisca per ridurre l’“aura” del mezzo, diminuendo il rispetto “tecnico” che di solito il secondo rivolge al primo; non a caso molta arte contemporanea non viene apprezzata perché coloro che la guardano sono convinti di essere in grado anche loro di potere fare dei buchi su una tela o di costruire un igloo di pietre sovrapposte. E invece ci si accorge che questa familiarità è solo apparente e potenziale, perché quando ci si addentra un po’ nel dettaglio, ci si rende conto che la capacità di vedere o di realizzare immagini come ci mostrano altri è molto più illusoria di quanto non crediamo. Ci accorgiamo, cioè, che anche noi potremmo essere nello stesso luogo e nella situazione in cui si è trovato Marinelli, che anche noi avremmo potuto riprendere quel suonatore jazz, ma che quell’hic et nunc espresso dalle sue fotografie, e con esse la visione più generale da cui dipendono, il modo di concepire e di sentire il mondo circostante, la vita, l’emozione, la bellezza, la forma, è un elemento irripetibile in quelle manifestazioni, anche perché non avrebbe senso ripeterlo. Tutti siamo in grado di fare la stessa cosa, almeno in teoria, ma nella pratica tutti facciamo una cosa diversa. Perché tutti abbiamo occhi diversi, anime e cervelli diversi. Ecco, quindi, che la fotografia rispetta ugualmente la “democraticità” (tutti possiamo fare la stessa cosa) e l’individualità (tutti la facciamo in modo non uguale): non è un mezzo rivoluzionario anche dal punto di vista sociale, rispetto all’insopportabile aristocraticità dell’arte tradizionale (solo gli artisti possono lavorare)?
Fatta la premessa concettuale con cui ci mettiamo davanti al fotografo, vediamo ora di considerare più da vicino l’individualità fotografica di Marinelli. Sono indubbiamente vari i registri espressivi affrontati da Marinelli, ma direi che fra di essi è possibile individuare alcune tematiche più evidenti di altre. Una di queste, forse la principale, è certamente concentrata sul rapporto civiltà-natura nell’attuale epoca moderna. Sotto questo aspetto, Marinelli ha un punto di vista privilegiato, le Marche, dove l’equilibrio raggiunto in questo rapporto ha profondamente segnato la storia culturale dei suoi luoghi. I borghi marchigiani sono un perfetto esempio di una visione del mondo di tipo umanistico, nella quale l’uomo cerca la simbiosi con la natura, ma non rinuncia allo sviluppo della cultura che lo fa stare, in quanto essere superiore e diretta emanazione del divino, al centro di essa. Marinelli sembra voler ricercare nel presente i segni di questo antico equilibrio, con esiti talvolta sorprendenti. Il borgo è attorniato da una natura così fulgida da apparire anche invadente, è contraddistinto da dominanti rimanenze del passato, le presenze umane sono rare e non determinanti. Sono scenari in qualche modo spettrali, archeologici, quelli propositi da Marinelli, con gli spazi vuoti e il silenzio a fare da padroni, come se Atget avesse voluto ritrovare i caratteri della sua Parigi in luoghi completamente diversi dalla metropoli. Tutto il contrario dei ritmi della vita moderna, dove sono le attività dell’uomo a dominare, i suoi tempi frenetici, i suoi affanni non sempre senza ragione. Si direbbe che anche rispetto alla visione umanistica delle civilissime Marche, Marinelli ne privilegi una ancora più naturalistica: è la natura il vero centro del mondo, l’uomo è un suo elemento come tanti altri, è a essa che dobbiamo tornare a rivolgerci per riconquistare il senso delle nostre esistenze, troppo conformate a misura dei nuovi bisogni dell’uomo moderno. Il bosco, nelle fotografie di Marinelli, diventa quasi un motivo di culto neo-pagano e neo-romantico, un luogo di meditazione e di purificazione che può ricondurci alla rettitudine, ma che viene riproposto attraverso un mezzo moderno, apparentemente asettico e analitico, fino al limite della perlustrazione botanica, come la fotografia. A dimostrare che anche nei tempi attuali il ritorno alla natura non è una chimera, ma è un obiettivo perfettamente raggiungibile, sempre che lo si voglia.
Altra tematica che mi pare di particolare rilievo in Marinelli è la ricerca di una dimensione visiva che si dia come valore sinestetico. Marinelli, cioè, non afferma il primato assoluto della visualità, come se non avesse bisogno di altro di diverso da se stessa, ma aspira a conferire un aspetto visivo a sensazioni che di per sé non sarebbero visive: gli odori, il fresco, i rumori di un bosco, per esempio, oppure la musica di un suonatore di jazz, nella quale l’effetto fotografico del “mosso”, come aveva insegnato Bragaglia, finisce per diventare un correlativo diretto della vibrazione del suono. Direi che anche la rinuncia al colore svolga una funzione in questo senso, limita la visualità delle sue fotografie per favorire meglio l’interpretazione sinestetica. Lo scopo di questa operazione è l’individuazione dell’emozione nella sua totalità e complessità, nella sua capacità di coinvolgimento che nello stesso tempo è viscerale e mentale. L’emozione conduce al sentimento come strumento di conoscenza, come parametro con cui l’uomo si confronta con l’universo. Marinelli crede fortemente nel sentimento, in quello della natura, in quello dell’arte e del bello, in quello della vita. Vedere le sue fotografie significa intraprendere un percorso intellettuale rivolto alla sua riscoperta, in un mondo come l’attuale che crede di poter fare a meno di esso. Lasciamo che Marinelli sia il nostro Virgilio, bucolico e georgico non meno di lui: non ci pentiremo di seguirlo.
I “Progetti” sono dedicati a Piobbico (nell’ambito degli spazi riferiti all’esposizione delle immagini sulla città è stata realizzata, nel salone principale del castello, una grandiosa installazione dedicata alle piante), a Vita Silente (immagini dell’ex manicomio di Pesaro) con scritti di Mariastella Margozzi, al Jazz con scritti di Monica Miretti ed alle Ombre con scritti di Silvia Pegoraro. La pubblicazione, Edizioni Cinquantasei Bologna, formato cm 21x27, è composta di 224 pagine.
PROGETTI
A cura di Vittorio Sgarbi
Vedendo le immagini di Giovanni Marinelli, imprenditore con una quarantennale passione per la fotografia, mi viene subito in mente un tipo di considerazione. È una riflessione di carattere generale che avevo già proposto in termini simili per un altro fotografo non professionista, un grande esponente del jet set internazionale che l’apprezzò poco, forse perché nella circostanza era troppo desideroso di farsi considerare un artista piuttosto che il bon viveur - yachts, champagne, belle donne - fino a quel momento conosciuto. La ripropongo in questa occasione, sicuro che l’intelligenza del mio interlocutore e dei lettori le farà fare miglior fine, e convinto come sono che per capire Marinelli sia necessario capire la fotografia, cosa che non è affatto scontata.
Ecco la riflessione: Giovanni Marinelli è la dimostrazione vivente di quanto la fotografia sia stata e sia tutt’ora un mezzo di portata rivoluzionaria. In che senso? La fotografia, strumento capace di comunicare per immagini e di farci esprimere senza bisogno di imparare il difficile mestiere tradizionale con cui una volta si faceva altrettanto (la pittura, la scultura), ha aperto il campo dell’espressione a un numero infinito di persone, come mai c’erano state prima della sua invenzione. Marinelli conferma la regola: non è un fotografo di professione, è un affermato industriale del vetro, se non fosse esistita la fotografia, forse non avrebbe trovato modo e tempo per dedicarsi all’espressione. Anche uno dei maggiori fotografi del Novecento, Lartigue, è stato un fotografo amatoriale (“dilettante”, si diceva una volta) per la maggior parte della sua esistenza. Per Lartigue, come per Marinelli, la fotografia era qualcosa di più di una semplice passione o di un divertissement artistico: era un’appendice della vita, un modo con il quale capire il mondo e se stessi in rapporto con esso. Eppure nessuno si sognerebbe di non considerare Lartigue non solo un fotografo, ma un maestro assoluto della fotografia, molto più importante della maggior parte dei professionisti. Difficile, molto più difficile che altrettanto possa capitare con un pittore o uno scultore “dilettante”.
Perché questo è possibile? Perché la fotografia è il mezzo che ha tradotto nel modo più diretto il rapporto che esiste fra il nostro occhio e le immagini: anche nel mestiere più sofisticato, bastano poche operazioni tecniche, invece di quelle lunghe e difficili della pittura o della scultura. In teoria, tutti possiamo considerarci fotografi potenziali, non importa se più o meno capaci: tutti, davanti a una fotografia, avvertiamo la sensazione, “democratica” e pienamente in linea con i valori collettivi della società di massa, di appartenere alla stessa razza di chi l’ha realizzata, diversamente da quanto capita davanti a una pittura o una scultura di pregio. Si potrebbe credere che questo piano comune che si stabilisce fra chi realizza e chi guarda le fotografie finisca per ridurre l’“aura” del mezzo, diminuendo il rispetto “tecnico” che di solito il secondo rivolge al primo; non a caso molta arte contemporanea non viene apprezzata perché coloro che la guardano sono convinti di essere in grado anche loro di potere fare dei buchi su una tela o di costruire un igloo di pietre sovrapposte. E invece ci si accorge che questa familiarità è solo apparente e potenziale, perché quando ci si addentra un po’ nel dettaglio, ci si rende conto che la capacità di vedere o di realizzare immagini come ci mostrano altri è molto più illusoria di quanto non crediamo. Ci accorgiamo, cioè, che anche noi potremmo essere nello stesso luogo e nella situazione in cui si è trovato Marinelli, che anche noi avremmo potuto riprendere quel suonatore jazz, ma che quell’hic et nunc espresso dalle sue fotografie, e con esse la visione più generale da cui dipendono, il modo di concepire e di sentire il mondo circostante, la vita, l’emozione, la bellezza, la forma, è un elemento irripetibile in quelle manifestazioni, anche perché non avrebbe senso ripeterlo. Tutti siamo in grado di fare la stessa cosa, almeno in teoria, ma nella pratica tutti facciamo una cosa diversa. Perché tutti abbiamo occhi diversi, anime e cervelli diversi. Ecco, quindi, che la fotografia rispetta ugualmente la “democraticità” (tutti possiamo fare la stessa cosa) e l’individualità (tutti la facciamo in modo non uguale): non è un mezzo rivoluzionario anche dal punto di vista sociale, rispetto all’insopportabile aristocraticità dell’arte tradizionale (solo gli artisti possono lavorare)?
Fatta la premessa concettuale con cui ci mettiamo davanti al fotografo, vediamo ora di considerare più da vicino l’individualità fotografica di Marinelli. Sono indubbiamente vari i registri espressivi affrontati da Marinelli, ma direi che fra di essi è possibile individuare alcune tematiche più evidenti di altre. Una di queste, forse la principale, è certamente concentrata sul rapporto civiltà-natura nell’attuale epoca moderna. Sotto questo aspetto, Marinelli ha un punto di vista privilegiato, le Marche, dove l’equilibrio raggiunto in questo rapporto ha profondamente segnato la storia culturale dei suoi luoghi. I borghi marchigiani sono un perfetto esempio di una visione del mondo di tipo umanistico, nella quale l’uomo cerca la simbiosi con la natura, ma non rinuncia allo sviluppo della cultura che lo fa stare, in quanto essere superiore e diretta emanazione del divino, al centro di essa. Marinelli sembra voler ricercare nel presente i segni di questo antico equilibrio, con esiti talvolta sorprendenti. Il borgo è attorniato da una natura così fulgida da apparire anche invadente, è contraddistinto da dominanti rimanenze del passato, le presenze umane sono rare e non determinanti. Sono scenari in qualche modo spettrali, archeologici, quelli propositi da Marinelli, con gli spazi vuoti e il silenzio a fare da padroni, come se Atget avesse voluto ritrovare i caratteri della sua Parigi in luoghi completamente diversi dalla metropoli. Tutto il contrario dei ritmi della vita moderna, dove sono le attività dell’uomo a dominare, i suoi tempi frenetici, i suoi affanni non sempre senza ragione. Si direbbe che anche rispetto alla visione umanistica delle civilissime Marche, Marinelli ne privilegi una ancora più naturalistica: è la natura il vero centro del mondo, l’uomo è un suo elemento come tanti altri, è a essa che dobbiamo tornare a rivolgerci per riconquistare il senso delle nostre esistenze, troppo conformate a misura dei nuovi bisogni dell’uomo moderno. Il bosco, nelle fotografie di Marinelli, diventa quasi un motivo di culto neo-pagano e neo-romantico, un luogo di meditazione e di purificazione che può ricondurci alla rettitudine, ma che viene riproposto attraverso un mezzo moderno, apparentemente asettico e analitico, fino al limite della perlustrazione botanica, come la fotografia. A dimostrare che anche nei tempi attuali il ritorno alla natura non è una chimera, ma è un obiettivo perfettamente raggiungibile, sempre che lo si voglia.
Altra tematica che mi pare di particolare rilievo in Marinelli è la ricerca di una dimensione visiva che si dia come valore sinestetico. Marinelli, cioè, non afferma il primato assoluto della visualità, come se non avesse bisogno di altro di diverso da se stessa, ma aspira a conferire un aspetto visivo a sensazioni che di per sé non sarebbero visive: gli odori, il fresco, i rumori di un bosco, per esempio, oppure la musica di un suonatore di jazz, nella quale l’effetto fotografico del “mosso”, come aveva insegnato Bragaglia, finisce per diventare un correlativo diretto della vibrazione del suono. Direi che anche la rinuncia al colore svolga una funzione in questo senso, limita la visualità delle sue fotografie per favorire meglio l’interpretazione sinestetica. Lo scopo di questa operazione è l’individuazione dell’emozione nella sua totalità e complessità, nella sua capacità di coinvolgimento che nello stesso tempo è viscerale e mentale. L’emozione conduce al sentimento come strumento di conoscenza, come parametro con cui l’uomo si confronta con l’universo. Marinelli crede fortemente nel sentimento, in quello della natura, in quello dell’arte e del bello, in quello della vita. Vedere le sue fotografie significa intraprendere un percorso intellettuale rivolto alla sua riscoperta, in un mondo come l’attuale che crede di poter fare a meno di esso. Lasciamo che Marinelli sia il nostro Virgilio, bucolico e georgico non meno di lui: non ci pentiremo di seguirlo.
23
luglio 2005
Giovanni Marinelli – Progetti
Dal 23 luglio al 18 settembre 2005
fotografia
Location
PALAZZO BRANCALEONI
Piobbico, Via Brancaleoni, 1, (Pesaro E Urbino)
Piobbico, Via Brancaleoni, 1, (Pesaro E Urbino)
Orario di apertura
dal martedì alla domenica feriali 9-12 e 15,30-18,30; festivi 10,30-13 e 15,30-18,30
Vernissage
23 Luglio 2005, ore 18
Sito web
www.giovannimarinelli.com
Autore
Curatore