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Giulio Agostino – Fantasticando
Nella pittura di Giulio Agostino il maggio odoroso dei poeti non è reminiscenza malinconica di un passato definitivamente trascorso ma solare, vigoroso e presente germinare di vita della Madre Terra
Comunicato stampa
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È come essere sbucati, repentinamente, fuori da “selve spaventose e scure”, dopo aver corso, in un incubo assillante, “per lochi inabitati, ermi, selvaggi”, ai limiti estremi di un “boschetto adorno, / che lievemente la fresca aura muove” e dove “duo chiari rivi, mormorando intorno, / sempre l’erbe vi fan tenere e nuove”1: per dire, come ritrovarti, all’improvviso, in Arcadia, senza sapere come, dopo esserti lasciato alle spalle molte Waste Lands della tradizione culturale novecentesca. Questa è la pittura di Giulio Agostino. Questa la sua Weltanschauung. E questo ti è trasmesso miscelando sabbie con resine acriliche e materiali edili: il risultato che ne scaturisce è un impasto materico sul quale, una volta essiccato, vengono stesi i colori ad olio i quali, assorbiti lievemente dal fondo, conferiscono alle opere questa loro peculiarità: tonalità morbide, gradazioni pastellate.
Nella pittura di Giulio Agostino, in breve, il maggio odoroso dei poeti non è reminiscenza malinconica di un passato definitivamente trascorso2 ma solare, vigoroso e presente germinare di vita della Madre Terra.
E, di ricordo in ricordo, ti rammenti di certe reminescenze proustiane che un Emilio Cecchi (1884-1966) ebbe per esempio ad avere, che sanno di usi e abitudini di una vita agreste e arcadica d’un tempo che fu, che –credo- sarebbe già stata favola, mythos, anche per mia nonna, e che Agostino, invece, ti (ri)mette lì di fronte, in un vivace dagherrotipo policromo e variegato: “Ho sentito dire che da piccolo io ero molto debole; e mi mettevano a dormire in lenzuoli bagnati nel vino in cui avevano bollito foglie di noce; raccontavano questo, elogiando una donna di servizio che allora mi aveva tenuto a dormire seco, nonostante quel tanfo”3.
Colline, distese, campi di grano e di papaveri, con quel Chiaro di luna che riveste “di luce limpidissima i…colli / per vendemmia (o per altro) festanti”4. Campagne e colline antropizzate da almeno un paio di millenni, lo si capisce dalla geometricità delle spatolate che delimitano campi e sentieri, ma, nel contempo, non faticate (mi si passi l’enallage), sulle quali più che sudore agro e copioso si è riversata come una certa qual ambrosia, nettare degli dèi. E da quei campi, da quelle distese, non spuntano pietre spigolose e nude (lapis nudus –scrisse Virgilio), ma sbocciano come fiori intere colline (penso alla Collina di papaveri) o si squadernano Dolci sere che digradano, prospettiche, ondulando: strisce di pastelli materici, sinestesie di bande sonore.
Altrove intravedi viottoli sterrati, tratturi di tra le colline, nell’ora meridiana di Pan, strade che “riescono agli erbosi fossi” dove una presenza-assenza metafisica si sostituisce al vociare di ragazzi che cercano di afferrare “qualche sparuta anguilla”5. E laggiù, lontanissimi, se aguzzi lo sguardo e strizzi le ciglia per concentrarti oltre una Doratura di sole, oltre la penultima collina di Madre terra, puoi meravigliarti di una realtà incredibile e mai creduta6: un borgo che palpebra abbacinante, “un gruppo di abitati che distesi / allo sguardo sul fianco d’un declivo / si parano di gale e di palvesi”7.
E se lo riabbassi, lo sguardo, fino a terra, scrutando il suolo (o è mare, già mare?), intravedi forse una sola stella marina ma, certo, numerose conchiglie, tutte simili e nel contempo dissimili: “il loro aspetto, infatti, non è del tutto uguale per tutte quante, ma, tuttavia, nemmeno troppo diverso: proprio come capita, come si conviene, a delle sorelle”8.
Conchiglie vive, variegate di colori. O già fossili variegati d(a)i colori viv(ac)i, di Agostino?
E poi.
E poi?
E poi:
e poi si evidenziano certe evoluzioni di querce in fiori, ma va notato anche, altrove, in altre opere di Agostino, il metamorf(izz)arsi di boccioli in specie di tornadi o uragani che inquieterebbero se non fossero multicolori imbuti di festoni e stelle filanti, cornucopie lievi e festose.
Se fossero tornadi –insistiamo- lo sarebbero solamente di petali di fiori (in quel suo mondo, dico, quello di Agostino, scevro di violenza, permeato di calma meridiana estiva, dolcemente canicolare, mediterranea).
Se fossero tornadi, quelle trombe d’aria d’oro multicromatiche della solarità, non potrebbero avere che la medesima (in)consistenza surreale di quegli uragani insistentemente citati negli statuti quattrocenteschi di un paese alle falde del Viso prima che l’America fosse scoperta!9
Se fossero tornadi, sarebbero un trionfo barocco di pirotecnie perfettamente visibili e stagliate (come lo sono nelle opere di Agostino) in una notte solare, diurna, candente.
E se fossero gelati? Qui, allora, ci vorrebbe un titolo aulico, per distrarli dallo scioglimento in un diluvio-effluvio-profluvio di essenze, profumi e, ancora, colori.
Trovato (il titolo): Di un certo cono, algido.
E, infine.
E, infine, ci sono le nuvole. Nuvole turrite. Cumuliformi. Sintesi di una poetica. Di una poesia. Che, a differenza di quelle, anch’esse turrite, di Buzzati, trascorrenti, bianche, neutre, solenni, sul deserto del Kalahari (terra desolatissima, Waste Land) nell’atto di sorvolare indifferenti e prive di pietà “sugli ultimi re delle favole che si incammina(va)no all’esilio”10, le favole, a noi, quelle nuvole di Agostino, le riportano.
Nuvole coloratissime che s’innalzano su terre coloratissime (loci amoeni). Utopia fatta Eutopia. Batuffoli, gomitoli di arcobaleni. Arcobaleni: bande colorate spiraliformi. Ossimorici, gli umido-languidi arcobaleni, alla candenza della luce solare, ma, qui, ora, surrealisticamente consustanziali alla Doratura di sole. Luce da luce. Luce generata da luce. Luce creata da luce.
Nuvole-arcobaleni aggomitolati, dunque.
Nuvole-chiome di querce volanti, che levitano, dunque.
Nuvole-boccioli di rosa, dunque.
Nuvole = levità.
(e vola repentino, alto levato su di noi, sotto quelle nuvole = levità, il trillo pendulo di una calandra di cui ancora non sapevamo11).
Mauro Comba
Nella pittura di Giulio Agostino, in breve, il maggio odoroso dei poeti non è reminiscenza malinconica di un passato definitivamente trascorso2 ma solare, vigoroso e presente germinare di vita della Madre Terra.
E, di ricordo in ricordo, ti rammenti di certe reminescenze proustiane che un Emilio Cecchi (1884-1966) ebbe per esempio ad avere, che sanno di usi e abitudini di una vita agreste e arcadica d’un tempo che fu, che –credo- sarebbe già stata favola, mythos, anche per mia nonna, e che Agostino, invece, ti (ri)mette lì di fronte, in un vivace dagherrotipo policromo e variegato: “Ho sentito dire che da piccolo io ero molto debole; e mi mettevano a dormire in lenzuoli bagnati nel vino in cui avevano bollito foglie di noce; raccontavano questo, elogiando una donna di servizio che allora mi aveva tenuto a dormire seco, nonostante quel tanfo”3.
Colline, distese, campi di grano e di papaveri, con quel Chiaro di luna che riveste “di luce limpidissima i…colli / per vendemmia (o per altro) festanti”4. Campagne e colline antropizzate da almeno un paio di millenni, lo si capisce dalla geometricità delle spatolate che delimitano campi e sentieri, ma, nel contempo, non faticate (mi si passi l’enallage), sulle quali più che sudore agro e copioso si è riversata come una certa qual ambrosia, nettare degli dèi. E da quei campi, da quelle distese, non spuntano pietre spigolose e nude (lapis nudus –scrisse Virgilio), ma sbocciano come fiori intere colline (penso alla Collina di papaveri) o si squadernano Dolci sere che digradano, prospettiche, ondulando: strisce di pastelli materici, sinestesie di bande sonore.
Altrove intravedi viottoli sterrati, tratturi di tra le colline, nell’ora meridiana di Pan, strade che “riescono agli erbosi fossi” dove una presenza-assenza metafisica si sostituisce al vociare di ragazzi che cercano di afferrare “qualche sparuta anguilla”5. E laggiù, lontanissimi, se aguzzi lo sguardo e strizzi le ciglia per concentrarti oltre una Doratura di sole, oltre la penultima collina di Madre terra, puoi meravigliarti di una realtà incredibile e mai creduta6: un borgo che palpebra abbacinante, “un gruppo di abitati che distesi / allo sguardo sul fianco d’un declivo / si parano di gale e di palvesi”7.
E se lo riabbassi, lo sguardo, fino a terra, scrutando il suolo (o è mare, già mare?), intravedi forse una sola stella marina ma, certo, numerose conchiglie, tutte simili e nel contempo dissimili: “il loro aspetto, infatti, non è del tutto uguale per tutte quante, ma, tuttavia, nemmeno troppo diverso: proprio come capita, come si conviene, a delle sorelle”8.
Conchiglie vive, variegate di colori. O già fossili variegati d(a)i colori viv(ac)i, di Agostino?
E poi.
E poi?
E poi:
e poi si evidenziano certe evoluzioni di querce in fiori, ma va notato anche, altrove, in altre opere di Agostino, il metamorf(izz)arsi di boccioli in specie di tornadi o uragani che inquieterebbero se non fossero multicolori imbuti di festoni e stelle filanti, cornucopie lievi e festose.
Se fossero tornadi –insistiamo- lo sarebbero solamente di petali di fiori (in quel suo mondo, dico, quello di Agostino, scevro di violenza, permeato di calma meridiana estiva, dolcemente canicolare, mediterranea).
Se fossero tornadi, quelle trombe d’aria d’oro multicromatiche della solarità, non potrebbero avere che la medesima (in)consistenza surreale di quegli uragani insistentemente citati negli statuti quattrocenteschi di un paese alle falde del Viso prima che l’America fosse scoperta!9
Se fossero tornadi, sarebbero un trionfo barocco di pirotecnie perfettamente visibili e stagliate (come lo sono nelle opere di Agostino) in una notte solare, diurna, candente.
E se fossero gelati? Qui, allora, ci vorrebbe un titolo aulico, per distrarli dallo scioglimento in un diluvio-effluvio-profluvio di essenze, profumi e, ancora, colori.
Trovato (il titolo): Di un certo cono, algido.
E, infine.
E, infine, ci sono le nuvole. Nuvole turrite. Cumuliformi. Sintesi di una poetica. Di una poesia. Che, a differenza di quelle, anch’esse turrite, di Buzzati, trascorrenti, bianche, neutre, solenni, sul deserto del Kalahari (terra desolatissima, Waste Land) nell’atto di sorvolare indifferenti e prive di pietà “sugli ultimi re delle favole che si incammina(va)no all’esilio”10, le favole, a noi, quelle nuvole di Agostino, le riportano.
Nuvole coloratissime che s’innalzano su terre coloratissime (loci amoeni). Utopia fatta Eutopia. Batuffoli, gomitoli di arcobaleni. Arcobaleni: bande colorate spiraliformi. Ossimorici, gli umido-languidi arcobaleni, alla candenza della luce solare, ma, qui, ora, surrealisticamente consustanziali alla Doratura di sole. Luce da luce. Luce generata da luce. Luce creata da luce.
Nuvole-arcobaleni aggomitolati, dunque.
Nuvole-chiome di querce volanti, che levitano, dunque.
Nuvole-boccioli di rosa, dunque.
Nuvole = levità.
(e vola repentino, alto levato su di noi, sotto quelle nuvole = levità, il trillo pendulo di una calandra di cui ancora non sapevamo11).
Mauro Comba
28
giugno 2008
Giulio Agostino – Fantasticando
Dal 28 giugno al 28 luglio 2008
arte contemporanea
Location
IAT – VILLA BOSELLI
Taggia, Via Paolo Boselli, 2, (Imperia)
Taggia, Via Paolo Boselli, 2, (Imperia)
Orario di apertura
15–23
Vernissage
28 Giugno 2008, ore 18
Autore
Curatore