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Heidrun Thate – The Devil’s Moustache
H. Thate sceglie di dare a questa “macchia nera” della storia colori dolci,pastello,come il rosa. Qui sta tutta la volontà provocatrice di queste opere:raffigurarlo così è il modo dell’artista di deriderlo, di schernirsi di lui, di renderlo umano contro la sua volontà di dominio sovraumano.
Comunicato stampa
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Banale a dirlo, ma in un’epoca come la nostra dominata dalla spettacolarizzazione del mercato dell’arte, vi sono ancora espressioni artistiche capaci di fondarsi sulle idee. Verrebbe da dire: idee forti per tempi deboli. È il caso dell’artista tedesca Heidrun Thate.
Osservando i suoi lavori, ciò che apparirà subito evidente anche all’occhio meno allenato è la parentela con la tradizione pop, e in particolare vi si potrà riconoscere l’influenza di Andy Warhol. Un’influenza che l’artista non rinnega – e che, anzi, rivendica. Ma è soltanto un punto di partenza. Esteticamente salta subito all’occhio la vicinanza con l’artista americano per la scelta dei colori e l’utilizzazione dell’immagine di personaggi noti, divenuti addirittura icone. Ma se Warhol si affidava alla serigrafia, Heidrun Thate preferisce l’uso esclusivo della pittura. Le sue tele rivendicano la forza narrativa del linguaggio artistico. E in questa rivendicazione vi è una sorta di ribaltamento che l’artista opera nella struttura del discorso dell’arte.
Il Novecento, con la sua rivoluzione nel campo dell’arte, ha compiuto uno spostamento nel processo artistico dal significato al significante: dal contenuto raccontato al segno puro. Da Duchamp a Malevich, sino alla razionalizzazione dell’arte concreta di Van Doesburg, si esigeva che l’opera d’arte non significasse altro che sé stessa. Invece in queste opere di Heidrun Thate, piuttosto che di “puro segno” si dovrà parlare di “puro significato”. Alla rappresentazione estetica si affianca il significato del rappresentato. Il motivo è nella scelta dei soggetti che l’artista decide di dipingere.
Si pensi alla “divina” Marylin, che Warhol ha contribuito a far diventare una vera e propria icona del nostro tempo. Marylin, detta Monroe, prima d’esser un’immagine è un nome. Un archetipo di donna libera, bella, realizzata e moderna – anche se in realtà ha avuto una vita d’inferno. Anche Heidrun Thate raffigura la bella Marylin: ma scandalosamente, al suo fianco, si potrà trovare una tela con la rappresentazione di Adolph. A differenza della prima, il nome non ha un potere così evocativo. Ma se si pronuncia il cognome, Hitler, allora prende forma ciò che il senso comune, la storiografia, la storia stessa e tutti noi pensiamo come “male assoluto”. La figura storica più odiata e odiabile, e che a giusto titolo ha contro di sé l’umanità intera.
Qui l’osservatore è spaesato, e senza dubbio sarà irritato nell’incontrare in maniera ricorrente la rappresentazione dell’uomo più maledetto fra i maledetti. Che ha avuto un nome, come tutti i principali criminali di guerra nazisti: Rudolph Hess, Albert Speer, Hermann Göring, Joseph Gœbbels o Franz Stangl. Forse solo gli storici conoscono questi nomi, mentre tutti possono riconoscerne i cognomi. Ma che significa nominarli, chiamarli per nome come fa Heidrun Thate nelle immagini dedicate a Hitler? Significa considerarli per ciò che sono stati: uomini. Amputare il loro nome significa escluderli in maniera radicale da una categoria, dalla filiazione che li inscrive nell’ordine umano. Eppure erano uomini. Anche Hitler, il quale, come tutti gli uomini, ha avuto genitori… Come tutti gli uomini, è stato figlio di… e sarebbe potuto essere padre di…
Quindi nominare Adolph e raffigurarlo significa restituirlo per ciò che è stato: un uomo. Certo, ci piacerebbe poterlo catalogare nella categoria dei mostri, un essere non soltanto inumano ma addirittura a-umano, al di fuori dell’ordine che popola il nostro mondo. Ma egli è stato e rimane un uomo. Sicuramente un uomo mostruoso, ma pur sempre un uomo. Considerarlo semplicemente un mostro, significherebbe metterlo al di fuori dell’umanità. Ma così facendo, mettendolo fra parentesi, è tutto il nazismo a esser messo fra parentesi. Può esser consolatorio, ma anche pericoloso. Significherebbe affrancarsi dalla continuità storica e dalla posterità del nazismo. Che equivale a dire: «Non io! Non noi!». E invece i criminali nazisti erano uomini tanto quanto noi, oggi. L’idea un po’ ingenua che il peggio è dietro di noi e quindi non potrà avverarsi di nuovo è pericolosa. Considerare Hitler un uomo è un monito, e ricordarlo è un dovere affinché non si ripeta ciò che ha fatto. Del resto vanno ricordate le pagine del filosofo Theodor W. Adorno nel suo Minima Moralia: «Quando il medico emigrato dice che, per lui, Hitler è un caso patologico, i dati clinici potranno forse confermare la sua tesi, ma l’inadeguato rapporto di quest’ultima alla calamità oggettiva che si abbatte sul mondo nel nome del paranoico, rende ridicola la diagnosi in cui chi la formula non fa che pavoneggiarsi. Forse Hitler, in sé, è un caso patologico: ma non lo è certo per lui (…). Chi ragiona nelle forme del giudizio libero, staccato e disinteressato, non è in grado di accogliere in quelle forme l’esperienza della violenza che, in realtà, invalida e annulla ogni pensiero del genere. Il compito quasi insolubile è quello di non lasciarsi accecare né dalla potenza degli altri né dalla propria impotenza».
Queste sono le riflessioni che muovono Heidrun Thate nella scelta delle sue tele. A questo punto l’artista si pone una domanda: ma Hitler è presentabile? Certamente no! Eppure è stato cancelliere del Reich fra gli altri, come Stalin è stato segretario del PCUS fra gli altri, e come Caligola fu imperatore romano fra gli altri… Ma un’altra questione resta in sospeso: se Hitler non è presentabile, è almeno rappresentabile? La risposta è sì. È il modo dell’artista per prestar fede al monito di non disumanizzare quel male e quella violenza che è stata ed è sempre possibile. Si consideri che in molte tradizioni religiose, l’unico essere che non può esser rappresentato è Dio.
Hitler fu ampiamente rappresentato: innumerevoli immagini d’epoca lo mostrano sorridente e allegro, fiero condottiero a capo del suo popolo – come si conviene al teatrino della propaganda. Ma contro l’iconolatria dell’epoca, vi è una certa iconoclastia di oggi. Heidrun Thate crede che questa irrappresentabilità debba finire. Si pensi che, alla vigilia del suo suicidio nel bunker, Hitler confidò ad alcuni testimoni che gli era insopportabile l’idea di continuare a vivere solo come un’immagine, come una sorta di “cera da museo”. Heidrun Thate si chiede se dobbiamo seguire questa sua volontà testamentaria di sparire completamente. La sua risposta è nelle tele che lo raffigurano, quasi come se vi fosse un obbligo di rappresentazione. E lo fa scegliendo di dare a questa “macchia nera” della storia dell’umanità colori dolci, pastello, come il rosa. Qui sta tutta la volontà provocatrice di queste opere: raffigurarlo così è il modo dell’artista di deriderlo, di schernirsi di lui, di renderlo umano (umano troppo umano, direbbe Nietzsche) contro la sua volontà di dominio sovrumana.
Heidrun Thate rompe le convenzioni: e non solo nelle tele raffiguranti Hitler, ma anche in quelle nelle quali rilegge alcuni capolavori della pittura in chiave ironica e con il gusto del paradosso. E il grande merito che ha è quello obbligarci a una riflessione su ciò che stiamo osservando – sia nell’apparente banalità del male hitleriano, sia nell’apodittica rivisitazione del passato pittorico. Non tutta l’arte contemporanea è in grado di farci pensare: uno stimolo del quale l’epoca in cui viviamo sente sempre più il bisogno – e sempre meno, tranne qualche rara e fortunata eccezione, l’arte è in grado di offrire.
Osservando i suoi lavori, ciò che apparirà subito evidente anche all’occhio meno allenato è la parentela con la tradizione pop, e in particolare vi si potrà riconoscere l’influenza di Andy Warhol. Un’influenza che l’artista non rinnega – e che, anzi, rivendica. Ma è soltanto un punto di partenza. Esteticamente salta subito all’occhio la vicinanza con l’artista americano per la scelta dei colori e l’utilizzazione dell’immagine di personaggi noti, divenuti addirittura icone. Ma se Warhol si affidava alla serigrafia, Heidrun Thate preferisce l’uso esclusivo della pittura. Le sue tele rivendicano la forza narrativa del linguaggio artistico. E in questa rivendicazione vi è una sorta di ribaltamento che l’artista opera nella struttura del discorso dell’arte.
Il Novecento, con la sua rivoluzione nel campo dell’arte, ha compiuto uno spostamento nel processo artistico dal significato al significante: dal contenuto raccontato al segno puro. Da Duchamp a Malevich, sino alla razionalizzazione dell’arte concreta di Van Doesburg, si esigeva che l’opera d’arte non significasse altro che sé stessa. Invece in queste opere di Heidrun Thate, piuttosto che di “puro segno” si dovrà parlare di “puro significato”. Alla rappresentazione estetica si affianca il significato del rappresentato. Il motivo è nella scelta dei soggetti che l’artista decide di dipingere.
Si pensi alla “divina” Marylin, che Warhol ha contribuito a far diventare una vera e propria icona del nostro tempo. Marylin, detta Monroe, prima d’esser un’immagine è un nome. Un archetipo di donna libera, bella, realizzata e moderna – anche se in realtà ha avuto una vita d’inferno. Anche Heidrun Thate raffigura la bella Marylin: ma scandalosamente, al suo fianco, si potrà trovare una tela con la rappresentazione di Adolph. A differenza della prima, il nome non ha un potere così evocativo. Ma se si pronuncia il cognome, Hitler, allora prende forma ciò che il senso comune, la storiografia, la storia stessa e tutti noi pensiamo come “male assoluto”. La figura storica più odiata e odiabile, e che a giusto titolo ha contro di sé l’umanità intera.
Qui l’osservatore è spaesato, e senza dubbio sarà irritato nell’incontrare in maniera ricorrente la rappresentazione dell’uomo più maledetto fra i maledetti. Che ha avuto un nome, come tutti i principali criminali di guerra nazisti: Rudolph Hess, Albert Speer, Hermann Göring, Joseph Gœbbels o Franz Stangl. Forse solo gli storici conoscono questi nomi, mentre tutti possono riconoscerne i cognomi. Ma che significa nominarli, chiamarli per nome come fa Heidrun Thate nelle immagini dedicate a Hitler? Significa considerarli per ciò che sono stati: uomini. Amputare il loro nome significa escluderli in maniera radicale da una categoria, dalla filiazione che li inscrive nell’ordine umano. Eppure erano uomini. Anche Hitler, il quale, come tutti gli uomini, ha avuto genitori… Come tutti gli uomini, è stato figlio di… e sarebbe potuto essere padre di…
Quindi nominare Adolph e raffigurarlo significa restituirlo per ciò che è stato: un uomo. Certo, ci piacerebbe poterlo catalogare nella categoria dei mostri, un essere non soltanto inumano ma addirittura a-umano, al di fuori dell’ordine che popola il nostro mondo. Ma egli è stato e rimane un uomo. Sicuramente un uomo mostruoso, ma pur sempre un uomo. Considerarlo semplicemente un mostro, significherebbe metterlo al di fuori dell’umanità. Ma così facendo, mettendolo fra parentesi, è tutto il nazismo a esser messo fra parentesi. Può esser consolatorio, ma anche pericoloso. Significherebbe affrancarsi dalla continuità storica e dalla posterità del nazismo. Che equivale a dire: «Non io! Non noi!». E invece i criminali nazisti erano uomini tanto quanto noi, oggi. L’idea un po’ ingenua che il peggio è dietro di noi e quindi non potrà avverarsi di nuovo è pericolosa. Considerare Hitler un uomo è un monito, e ricordarlo è un dovere affinché non si ripeta ciò che ha fatto. Del resto vanno ricordate le pagine del filosofo Theodor W. Adorno nel suo Minima Moralia: «Quando il medico emigrato dice che, per lui, Hitler è un caso patologico, i dati clinici potranno forse confermare la sua tesi, ma l’inadeguato rapporto di quest’ultima alla calamità oggettiva che si abbatte sul mondo nel nome del paranoico, rende ridicola la diagnosi in cui chi la formula non fa che pavoneggiarsi. Forse Hitler, in sé, è un caso patologico: ma non lo è certo per lui (…). Chi ragiona nelle forme del giudizio libero, staccato e disinteressato, non è in grado di accogliere in quelle forme l’esperienza della violenza che, in realtà, invalida e annulla ogni pensiero del genere. Il compito quasi insolubile è quello di non lasciarsi accecare né dalla potenza degli altri né dalla propria impotenza».
Queste sono le riflessioni che muovono Heidrun Thate nella scelta delle sue tele. A questo punto l’artista si pone una domanda: ma Hitler è presentabile? Certamente no! Eppure è stato cancelliere del Reich fra gli altri, come Stalin è stato segretario del PCUS fra gli altri, e come Caligola fu imperatore romano fra gli altri… Ma un’altra questione resta in sospeso: se Hitler non è presentabile, è almeno rappresentabile? La risposta è sì. È il modo dell’artista per prestar fede al monito di non disumanizzare quel male e quella violenza che è stata ed è sempre possibile. Si consideri che in molte tradizioni religiose, l’unico essere che non può esser rappresentato è Dio.
Hitler fu ampiamente rappresentato: innumerevoli immagini d’epoca lo mostrano sorridente e allegro, fiero condottiero a capo del suo popolo – come si conviene al teatrino della propaganda. Ma contro l’iconolatria dell’epoca, vi è una certa iconoclastia di oggi. Heidrun Thate crede che questa irrappresentabilità debba finire. Si pensi che, alla vigilia del suo suicidio nel bunker, Hitler confidò ad alcuni testimoni che gli era insopportabile l’idea di continuare a vivere solo come un’immagine, come una sorta di “cera da museo”. Heidrun Thate si chiede se dobbiamo seguire questa sua volontà testamentaria di sparire completamente. La sua risposta è nelle tele che lo raffigurano, quasi come se vi fosse un obbligo di rappresentazione. E lo fa scegliendo di dare a questa “macchia nera” della storia dell’umanità colori dolci, pastello, come il rosa. Qui sta tutta la volontà provocatrice di queste opere: raffigurarlo così è il modo dell’artista di deriderlo, di schernirsi di lui, di renderlo umano (umano troppo umano, direbbe Nietzsche) contro la sua volontà di dominio sovrumana.
Heidrun Thate rompe le convenzioni: e non solo nelle tele raffiguranti Hitler, ma anche in quelle nelle quali rilegge alcuni capolavori della pittura in chiave ironica e con il gusto del paradosso. E il grande merito che ha è quello obbligarci a una riflessione su ciò che stiamo osservando – sia nell’apparente banalità del male hitleriano, sia nell’apodittica rivisitazione del passato pittorico. Non tutta l’arte contemporanea è in grado di farci pensare: uno stimolo del quale l’epoca in cui viviamo sente sempre più il bisogno – e sempre meno, tranne qualche rara e fortunata eccezione, l’arte è in grado di offrire.
09
maggio 2019
Heidrun Thate – The Devil’s Moustache
Dal 09 maggio al 09 giugno 2019
arte contemporanea
Location
SACRIPANTE GALLERY
Roma, Via Panisperna, 59, (Roma)
Roma, Via Panisperna, 59, (Roma)
Orario di apertura
da martedi a domenica ore 18-02
Vernissage
9 Maggio 2019, ore 19.00
Autore