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Justin Randolph Thompson / Amber Scoon – Filo:Thread
bipersonale
Comunicato stampa
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Il cuore segreto del rituale
Palme fatte di stracci e toppe, macchiate di ruggine, forse morenti, piccoli agglomerati che vorrebbero divenire foreste, ma languiscono; scatole lanose, che progressivamente si complicano per generare una grana informe che ne divora la superficie, penetra in profondità, trapassa quel mondo chiuso e geometrico.
La consapevolezza del tempo che consuma, del dolore e della distruzione sono aspetti che immediatamente colpiscono nell’opera di Justin Randolph Thompson e Amber Scoon.
Tuttavia l’esegesi può spingersi oltre questa iniziale evidenza e rivelare una visione del mondo complessa e molto lontana dalla nichilistica contemplazione della caducità delle cose.
Le opere dei due artisti statunitensi racchiudo al proprio interno una ricchezza semantica che si articola quanto più l’indagine si approfondisce. Questa lettura “stratigrafica” è suggerita dalla conformazione stessa delle opere-manufatto: le stanche, cadenti palme di Justin e le scatole in disgregazione di Amber Scoon nascondono in effetti al proprio interno vere e proprie strutture che, come formule segrete di un rituale, rimangono celate, protette dallo sguardo dei più. Si tratta di strutture ad incastro, in legno o ferro, costruite secondo procedimenti depositari di una conoscenza che potremmo definire iniziatica, nota esclusivamente all’autore: questi diviene officiante nell’atto stesso di creare l’oggetto-feticcio.
Il rituale privato attraverso cui l’opera d’arte viene a costituirsi è difficilmente sondabile e comprende innumerevoli pratiche tra cui reazioni chimiche quali le ossidazioni, vere e proprie metamorfosi della materia (nel caso di Justin), o la ripetizione di moduli e gesti che, come in un mantra, delineano un universo di senso compiuto proprio grazie al procedimento della reiterazione.
Si potrebbe parlare di una tecnologia magico-rituale rispetto alla quale lo spettatore viene informato e sulla quale è invitato a riflettere ma dalla cui intima essenza rimane escluso. Esiste dunque un versate pubblico e manifesto, ed un altro celato: l’arte, come il culto, delimita un perimetro all’interno del quale non ci è dato accedere.
Scatole narranti
“La Nature est un temple où de vivants piliers / Laissent parfois sortir de confuses paroles; / L’homme y passe à travers des forêts de symbols / Qui l’observent avec des regards familiars. / Comme de long échos qui de loin se confondent / Dans une ténébreuse et profonde unité, / Vaste comme la nuit et comme la clarté, / Les pafums, les couleurs et les sons se répondent…”
Correspondences - Charles Baudelaire
Le scatole di lana di Amber Scoon sono disposte in sequenza, suggeriscono una lettura diacronica, una progressione nel tempo: la narrazione consiste nella complicazione progressiva di un modello semplice e tendenzialmente geometrico che via via si lacera a svelare una struttura complessa ed intrecciata, fatta di pieni ed improvvise lacune, e che tuttavia è portatrice di quell’armonia imprevedibile ed ineffabile del mondo naturale.
Lontana dalla regolarità tranquillizzante della ybris razionalistica, la contemplazione di questo mondo disintegrato apre la strada verso un’ascensione - o inabissamento - nell’universo ciclico delle leggi di natura.
Il complesso intreccio di fili di lana e cotone ricorda le reti sinaptiche, ultima dimora della materia pensante, là dove l’anima s’imbriglia nella natura, nella sua intima e complessa struttura: ecco che dove avevamo intuito distruzione della forma e vuoto semantico scorgiamo interconnessione profonda: il tessuto lacerato è felicemente riconnesso, ricucito.
L’opera della Scoon appare pervasa da un profondo sentimento religioso: il culto a cui sembra voler dare forma è manifestamente culto della natura, ed il suo ultimo prezioso messaggio è accettazione del continuo fluire dalla forma alla non forma, e poi di nuovo alla forma senza soluzione di continuità.
Il vuoto non è mera cancellazione semantica, è vice versa momento di consapevolezza dell’arbitrarietà della propria esistenza individuale e superamento delle angustie del princpium individuationis.
E così quel vuoto terrorizzante che ci attende al termine della nostra esistenza non è altro che il cielo in cui si lanciano i rami dell’allegorico albero della vita, ed il buio fertile della terra nient’altro che il vuoto da cui siamo stati misteriosamente generati.
L’albero stesso è superamento della vertigine di fronte alla morte: come le scatole lanose sono i fragili tabernacoli di un culto naturale così gli alberi, dipinti minuziosamente e, secondo le parole dell’artista, in continuazione, sembrano essere gli ex voto per una grazie ricevuta, ed il realizzarli con tanta cura un atto di devozione, che come una preghiera viene ripetuto quotidianamente.
Idola
Lo sfondo su cui si staglia buona parte della riflessione di Justin Randolph Thompson è la violenza della storia, la secolare genealogia del sopruso, già incarnata nelle lamiere arrugginite della tragica serie Martyrs, in cui il martirio della nazione afro americana era elevato ad emblema universale della ferocia del potere. Ma di fianco a questo potere che deporta milioni di esseri umani attraverso l’oceano, strappandoli alla propria terra e ai propri dei, esiste un altro potere: è il potere magico, il potere dello sciamano, che si dà nella forma del rituale ed il cui luogo di manifestazione è la quotidianità – ma il cui ambito di pertinenza è molto più ampio ed abbraccia la vita, la morte, l’identità privata e quella collettiva.
Credo che per comprendere il significato profondo della serie Palms non possiamo prescindere dal conflitto permanente tra un potere che sradica ed un contro-potere che traccia un nuovo orizzonte di senso, che fonda incessantemente, erigendo un totem o costruendo un idolo, attorno a cui moltitudini disperse di profughi dimentichi della propria terra possano riunirsi.
La palma, formata da innumerevoli frammenti di tessuti differenti1, è il simbolo di questa moltitudine eterogenea che in comune ha la perdita dei propri codici culturali ed il bisogno di un racconto corale, fatto delle innumerevoli storie di ciascuno, e che possa tutti quanti contenere.
Le palme, come idoli sradicati e vomitati su spiagge sconosciute dal metaforico oceano della storia, hanno dunque conosciuto il supplizio: il Dio sofferente è il segno inconfondibile di un sincretismo culturale di cui l’opera di Justin Randolph Thompson è permeata. Il neo-paganesimo, centrale nella sua poetica, è recuperato attraverso i secoli di cristianizzazione delle comunità afro americane che hanno incorporato il messaggio del martirio e della salvazione: riappaiono le divinità naturali, ma svuotate dell’antica ed ingenua potenza, depositarie vice versa di una magia nuova, fatta della consapevolezza del dolore e del rimpianto per un’età dell’oro perduta.
Leone Contini Bonacossi
Palme fatte di stracci e toppe, macchiate di ruggine, forse morenti, piccoli agglomerati che vorrebbero divenire foreste, ma languiscono; scatole lanose, che progressivamente si complicano per generare una grana informe che ne divora la superficie, penetra in profondità, trapassa quel mondo chiuso e geometrico.
La consapevolezza del tempo che consuma, del dolore e della distruzione sono aspetti che immediatamente colpiscono nell’opera di Justin Randolph Thompson e Amber Scoon.
Tuttavia l’esegesi può spingersi oltre questa iniziale evidenza e rivelare una visione del mondo complessa e molto lontana dalla nichilistica contemplazione della caducità delle cose.
Le opere dei due artisti statunitensi racchiudo al proprio interno una ricchezza semantica che si articola quanto più l’indagine si approfondisce. Questa lettura “stratigrafica” è suggerita dalla conformazione stessa delle opere-manufatto: le stanche, cadenti palme di Justin e le scatole in disgregazione di Amber Scoon nascondono in effetti al proprio interno vere e proprie strutture che, come formule segrete di un rituale, rimangono celate, protette dallo sguardo dei più. Si tratta di strutture ad incastro, in legno o ferro, costruite secondo procedimenti depositari di una conoscenza che potremmo definire iniziatica, nota esclusivamente all’autore: questi diviene officiante nell’atto stesso di creare l’oggetto-feticcio.
Il rituale privato attraverso cui l’opera d’arte viene a costituirsi è difficilmente sondabile e comprende innumerevoli pratiche tra cui reazioni chimiche quali le ossidazioni, vere e proprie metamorfosi della materia (nel caso di Justin), o la ripetizione di moduli e gesti che, come in un mantra, delineano un universo di senso compiuto proprio grazie al procedimento della reiterazione.
Si potrebbe parlare di una tecnologia magico-rituale rispetto alla quale lo spettatore viene informato e sulla quale è invitato a riflettere ma dalla cui intima essenza rimane escluso. Esiste dunque un versate pubblico e manifesto, ed un altro celato: l’arte, come il culto, delimita un perimetro all’interno del quale non ci è dato accedere.
Scatole narranti
“La Nature est un temple où de vivants piliers / Laissent parfois sortir de confuses paroles; / L’homme y passe à travers des forêts de symbols / Qui l’observent avec des regards familiars. / Comme de long échos qui de loin se confondent / Dans une ténébreuse et profonde unité, / Vaste comme la nuit et comme la clarté, / Les pafums, les couleurs et les sons se répondent…”
Correspondences - Charles Baudelaire
Le scatole di lana di Amber Scoon sono disposte in sequenza, suggeriscono una lettura diacronica, una progressione nel tempo: la narrazione consiste nella complicazione progressiva di un modello semplice e tendenzialmente geometrico che via via si lacera a svelare una struttura complessa ed intrecciata, fatta di pieni ed improvvise lacune, e che tuttavia è portatrice di quell’armonia imprevedibile ed ineffabile del mondo naturale.
Lontana dalla regolarità tranquillizzante della ybris razionalistica, la contemplazione di questo mondo disintegrato apre la strada verso un’ascensione - o inabissamento - nell’universo ciclico delle leggi di natura.
Il complesso intreccio di fili di lana e cotone ricorda le reti sinaptiche, ultima dimora della materia pensante, là dove l’anima s’imbriglia nella natura, nella sua intima e complessa struttura: ecco che dove avevamo intuito distruzione della forma e vuoto semantico scorgiamo interconnessione profonda: il tessuto lacerato è felicemente riconnesso, ricucito.
L’opera della Scoon appare pervasa da un profondo sentimento religioso: il culto a cui sembra voler dare forma è manifestamente culto della natura, ed il suo ultimo prezioso messaggio è accettazione del continuo fluire dalla forma alla non forma, e poi di nuovo alla forma senza soluzione di continuità.
Il vuoto non è mera cancellazione semantica, è vice versa momento di consapevolezza dell’arbitrarietà della propria esistenza individuale e superamento delle angustie del princpium individuationis.
E così quel vuoto terrorizzante che ci attende al termine della nostra esistenza non è altro che il cielo in cui si lanciano i rami dell’allegorico albero della vita, ed il buio fertile della terra nient’altro che il vuoto da cui siamo stati misteriosamente generati.
L’albero stesso è superamento della vertigine di fronte alla morte: come le scatole lanose sono i fragili tabernacoli di un culto naturale così gli alberi, dipinti minuziosamente e, secondo le parole dell’artista, in continuazione, sembrano essere gli ex voto per una grazie ricevuta, ed il realizzarli con tanta cura un atto di devozione, che come una preghiera viene ripetuto quotidianamente.
Idola
Lo sfondo su cui si staglia buona parte della riflessione di Justin Randolph Thompson è la violenza della storia, la secolare genealogia del sopruso, già incarnata nelle lamiere arrugginite della tragica serie Martyrs, in cui il martirio della nazione afro americana era elevato ad emblema universale della ferocia del potere. Ma di fianco a questo potere che deporta milioni di esseri umani attraverso l’oceano, strappandoli alla propria terra e ai propri dei, esiste un altro potere: è il potere magico, il potere dello sciamano, che si dà nella forma del rituale ed il cui luogo di manifestazione è la quotidianità – ma il cui ambito di pertinenza è molto più ampio ed abbraccia la vita, la morte, l’identità privata e quella collettiva.
Credo che per comprendere il significato profondo della serie Palms non possiamo prescindere dal conflitto permanente tra un potere che sradica ed un contro-potere che traccia un nuovo orizzonte di senso, che fonda incessantemente, erigendo un totem o costruendo un idolo, attorno a cui moltitudini disperse di profughi dimentichi della propria terra possano riunirsi.
La palma, formata da innumerevoli frammenti di tessuti differenti1, è il simbolo di questa moltitudine eterogenea che in comune ha la perdita dei propri codici culturali ed il bisogno di un racconto corale, fatto delle innumerevoli storie di ciascuno, e che possa tutti quanti contenere.
Le palme, come idoli sradicati e vomitati su spiagge sconosciute dal metaforico oceano della storia, hanno dunque conosciuto il supplizio: il Dio sofferente è il segno inconfondibile di un sincretismo culturale di cui l’opera di Justin Randolph Thompson è permeata. Il neo-paganesimo, centrale nella sua poetica, è recuperato attraverso i secoli di cristianizzazione delle comunità afro americane che hanno incorporato il messaggio del martirio e della salvazione: riappaiono le divinità naturali, ma svuotate dell’antica ed ingenua potenza, depositarie vice versa di una magia nuova, fatta della consapevolezza del dolore e del rimpianto per un’età dell’oro perduta.
Leone Contini Bonacossi
27
gennaio 2007
Justin Randolph Thompson / Amber Scoon – Filo:Thread
Dal 27 gennaio al 27 febbraio 2007
arte contemporanea
Location
GALLERIA ARTEMISIA
Perugia, Via Alessi, 14/15, (Perugia)
Perugia, Via Alessi, 14/15, (Perugia)
Vernissage
27 Gennaio 2007, ore 17
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