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Luca Bellandi
Le opere di Bellandi non hanno orizzonte perché tutto in esse è orizzonte. E’ l’orizzonte della presenza umana che parla attraverso le tracce che ha lasciato dietro di sé o quelle che sta per consegnare al futuro
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Nel territorio di mezzo di Luca Bellandi
A cura di Gianluca Ranzi
L’arte produce disagio. Lo fa in quanto non penetra frontalmente l’oggetto della
sua osservazione, ma lo aggira alle spalle attraverso la felice manovra di
accerchiamento prodotta dall’artista, che così lo coglie di sorpresa e
impreparato, e tale lo offre al mondo esterno.
Il disagio in questo senso, come avviene anche nella pittura di Luca Bellandi, non
è causato da una particolare accentuazione drammatica, dal senso del tragico o
dalla volontà di premere sugli eccessi angosciosi; il disagio sta invece nell’effetto
stesso del nominare qualcosa di difficilmente afferrabile, del far passare un
messaggio al di fuori delle consuete griglie linguistiche di riferimento. Il disagio è
nel riconoscere che quanto è sospeso, in bilico, tra parentesi, indefinito, sfuocato,
è allo stesso tempo imprescindibile e ineludibile. Con le parole di Ludwig
Wittgenstein: “La soluzione all’enigma della vita nello spazio e nel tempo sta al di
fuori dello spazio e del tempo”.
Anche le figure di Bellandi sono fuori dallo spazio e dal tempo, sono sfrangiate e
sfuocate dai vapori della memoria, danno un senso alle pause del quotidiano e al
riaffiorare di un ricordo. Gli oggetti presi dalla vita quotidiana come fiori, abiti,
cani, chitarre, corpi in pose classiche e statuarie, sono immersi in un magma
pittorico che da luogo a sfondi indefiniti e profondi, che diviene strumento di
connessione e di separazione insieme, che è trasparente ma può divenire
insondabile e impenetrabile, che può riflettere la luce o assorbirla nel dripping del
colore. silvia®anzi
Le opere di Bellandi non hanno orizzonte perché tutto in esse è orizzonte. E’
l’orizzonte della presenza umana che parla attraverso le tracce che ha lasciato
dietro di sé o quelle che sta per consegnare al futuro. Per l’artista la materia
pittorica diventa un maelstrom della memoria che vive di frammenti e di segni,
mentre il suo artefice si destreggia tra i riferimenti al classico e la loro negazione e
superamento, tra la cultura alta e quella pop, tra l’affiorare in superficie e il
perdersi nello sfondo. In questo modo le immagini vivono nel mezzo, quasi in
transito, mai afferrabili fino in fondo, tra il non più e il non ancora, in cerca di
definizione, come il funambolo di Nietzsche in bilico sulla corda tra l’ebbrezza
dell’altezza e la paura della caduta.
Nel far questo Bellandi ha proceduto negli anni mettendo a punto una ricerca
che si basa anche sull’associazione e sulla poetica dell’inclusione, sovrapponendo
i riferimenti della storia della pittura al proprio materiale immaginativo interno. Egli
si destreggia con abilità sul limite di questi due compartimentisenza cadere in una
forma descrittiva o narrativa, fondando un territorio di mezzo in cui questi aspetti si
compenetrano fino a fondersi completamente, scomponendo il reale attraverso il
prisma ottico dell’arte e della sua immaginazione, che cita le banderuole
metafisiche di De Chirico ma le ambienta nella luce soffusa della “Foce del
Cinquale” di Carlo Carrà e che unisce tracce di antiche calligrafie a sofisticate
citazioni segniche provenienti da Cy Twombly, da Jack Tworkov, da certa
grammatica dell’espressionismo astratto americano fino al brutalismo di Basquiat.
Modernità e tradizione vengono così superate nella condizione di un tempo
metastorico che trova nell’epifania della figura il vero parametro dell’universalità
dell’arte. Nell’opera c’è tutto quanto l’artista vi ha posto, ma anche e soprattutto
quanto non vi ha messo per far scoprire in essa quell’aria inafferrabile di varietà e
complessità che ci rimanda con mobilità ad altre figure che credevamo ormai
eclissate per sempre.
In queste opere su tela la luce della ragione non rischiara il mondo più del
necessario perché, come Dürrenmatt ha scritto nella Promessa, “nel bagliore
incerto che regna ai confini del mondo si insedia tutto ciò che è paradossale”, e
quindi tutto ciò che la ragione non riesce ad afferrare. Anche i personaggi statuari
di Bellandi, che ammiccano con ironia alla scultura di Jean-Jacques Caffierì, alle
figurine della manifattura di Sèvres, e su fino alla pittura di storia francese silvia®anzi
dell’Ottocento, Gericault e Delacroix in testa, occupano uno spazio
incommensurabile e godono di un’ambivalenza luminosa che abbraccia e lega
insieme corpi, oggetti e sfondi, dando luogo a una pittura che non pensa ai
confini delle sue figure come a barriere di contenimento, ma come a delle soglie
da attraversare avanti e indietro, diaframmi tra l’ombra e la luce, sfumato tra la
coscienza e il nulla, soglie tra l’oblio e la consapevolezza, vibrazioni immobili di
un’enunciazione atipica, atopica e atemporale.
In questo modo Luca Bellandi sembra voler fondare quella che Fernando Pessoa
chiama «la precaria rappresentazione del visibile», dove il precario assume una
valenza positiva, corrispondente ad una visione del mondo e dell'arte aperta a
valorizzare il particolare ed il frammento, il relativo ed il quotidiano, figlia di quel
senso del disagio a cui si accennava all’inizio. Il campo di battaglia è quello della
storia della pittura, restituito dall'artista con la citazione, dunque con una memoria
culturale che raffredda l'apparente clima vitalistico di quello stile veloce che
appare come una sorta di precipitato dell'espressività soggettiva. Così alla
citazione di un codice alto si accompagna quello di uno basso appartenente alla
produzione corrente e al flusso della vita, e qui scatta il corto circuito
dell'immagine capace di tenere insieme entrambi i versanti in un felice equilibrio
che ci restituisce proprio quella «precaria rappresentazione del visibile» di cui parla
Pessoa.
Gianluca Ranzi
info:
Silvia Ranzi Srl | Corso Buenos Aires, 23 | 20124 Milano
info@silviaranzi.com
Ph: +39 02 83420920
press:
Barbara Cologni Silvia Ranzi Srl | Corso Buenos Aires, 23 | 20124 Milano
press@silviaranzi.com
Ph: +39 02 83420920
Mobile: +39 333 5607518
A cura di Gianluca Ranzi
L’arte produce disagio. Lo fa in quanto non penetra frontalmente l’oggetto della
sua osservazione, ma lo aggira alle spalle attraverso la felice manovra di
accerchiamento prodotta dall’artista, che così lo coglie di sorpresa e
impreparato, e tale lo offre al mondo esterno.
Il disagio in questo senso, come avviene anche nella pittura di Luca Bellandi, non
è causato da una particolare accentuazione drammatica, dal senso del tragico o
dalla volontà di premere sugli eccessi angosciosi; il disagio sta invece nell’effetto
stesso del nominare qualcosa di difficilmente afferrabile, del far passare un
messaggio al di fuori delle consuete griglie linguistiche di riferimento. Il disagio è
nel riconoscere che quanto è sospeso, in bilico, tra parentesi, indefinito, sfuocato,
è allo stesso tempo imprescindibile e ineludibile. Con le parole di Ludwig
Wittgenstein: “La soluzione all’enigma della vita nello spazio e nel tempo sta al di
fuori dello spazio e del tempo”.
Anche le figure di Bellandi sono fuori dallo spazio e dal tempo, sono sfrangiate e
sfuocate dai vapori della memoria, danno un senso alle pause del quotidiano e al
riaffiorare di un ricordo. Gli oggetti presi dalla vita quotidiana come fiori, abiti,
cani, chitarre, corpi in pose classiche e statuarie, sono immersi in un magma
pittorico che da luogo a sfondi indefiniti e profondi, che diviene strumento di
connessione e di separazione insieme, che è trasparente ma può divenire
insondabile e impenetrabile, che può riflettere la luce o assorbirla nel dripping del
colore. silvia®anzi
Le opere di Bellandi non hanno orizzonte perché tutto in esse è orizzonte. E’
l’orizzonte della presenza umana che parla attraverso le tracce che ha lasciato
dietro di sé o quelle che sta per consegnare al futuro. Per l’artista la materia
pittorica diventa un maelstrom della memoria che vive di frammenti e di segni,
mentre il suo artefice si destreggia tra i riferimenti al classico e la loro negazione e
superamento, tra la cultura alta e quella pop, tra l’affiorare in superficie e il
perdersi nello sfondo. In questo modo le immagini vivono nel mezzo, quasi in
transito, mai afferrabili fino in fondo, tra il non più e il non ancora, in cerca di
definizione, come il funambolo di Nietzsche in bilico sulla corda tra l’ebbrezza
dell’altezza e la paura della caduta.
Nel far questo Bellandi ha proceduto negli anni mettendo a punto una ricerca
che si basa anche sull’associazione e sulla poetica dell’inclusione, sovrapponendo
i riferimenti della storia della pittura al proprio materiale immaginativo interno. Egli
si destreggia con abilità sul limite di questi due compartimentisenza cadere in una
forma descrittiva o narrativa, fondando un territorio di mezzo in cui questi aspetti si
compenetrano fino a fondersi completamente, scomponendo il reale attraverso il
prisma ottico dell’arte e della sua immaginazione, che cita le banderuole
metafisiche di De Chirico ma le ambienta nella luce soffusa della “Foce del
Cinquale” di Carlo Carrà e che unisce tracce di antiche calligrafie a sofisticate
citazioni segniche provenienti da Cy Twombly, da Jack Tworkov, da certa
grammatica dell’espressionismo astratto americano fino al brutalismo di Basquiat.
Modernità e tradizione vengono così superate nella condizione di un tempo
metastorico che trova nell’epifania della figura il vero parametro dell’universalità
dell’arte. Nell’opera c’è tutto quanto l’artista vi ha posto, ma anche e soprattutto
quanto non vi ha messo per far scoprire in essa quell’aria inafferrabile di varietà e
complessità che ci rimanda con mobilità ad altre figure che credevamo ormai
eclissate per sempre.
In queste opere su tela la luce della ragione non rischiara il mondo più del
necessario perché, come Dürrenmatt ha scritto nella Promessa, “nel bagliore
incerto che regna ai confini del mondo si insedia tutto ciò che è paradossale”, e
quindi tutto ciò che la ragione non riesce ad afferrare. Anche i personaggi statuari
di Bellandi, che ammiccano con ironia alla scultura di Jean-Jacques Caffierì, alle
figurine della manifattura di Sèvres, e su fino alla pittura di storia francese silvia®anzi
dell’Ottocento, Gericault e Delacroix in testa, occupano uno spazio
incommensurabile e godono di un’ambivalenza luminosa che abbraccia e lega
insieme corpi, oggetti e sfondi, dando luogo a una pittura che non pensa ai
confini delle sue figure come a barriere di contenimento, ma come a delle soglie
da attraversare avanti e indietro, diaframmi tra l’ombra e la luce, sfumato tra la
coscienza e il nulla, soglie tra l’oblio e la consapevolezza, vibrazioni immobili di
un’enunciazione atipica, atopica e atemporale.
In questo modo Luca Bellandi sembra voler fondare quella che Fernando Pessoa
chiama «la precaria rappresentazione del visibile», dove il precario assume una
valenza positiva, corrispondente ad una visione del mondo e dell'arte aperta a
valorizzare il particolare ed il frammento, il relativo ed il quotidiano, figlia di quel
senso del disagio a cui si accennava all’inizio. Il campo di battaglia è quello della
storia della pittura, restituito dall'artista con la citazione, dunque con una memoria
culturale che raffredda l'apparente clima vitalistico di quello stile veloce che
appare come una sorta di precipitato dell'espressività soggettiva. Così alla
citazione di un codice alto si accompagna quello di uno basso appartenente alla
produzione corrente e al flusso della vita, e qui scatta il corto circuito
dell'immagine capace di tenere insieme entrambi i versanti in un felice equilibrio
che ci restituisce proprio quella «precaria rappresentazione del visibile» di cui parla
Pessoa.
Gianluca Ranzi
info:
Silvia Ranzi Srl | Corso Buenos Aires, 23 | 20124 Milano
info@silviaranzi.com
Ph: +39 02 83420920
press:
Barbara Cologni Silvia Ranzi Srl | Corso Buenos Aires, 23 | 20124 Milano
press@silviaranzi.com
Ph: +39 02 83420920
Mobile: +39 333 5607518
09
maggio 2013
Luca Bellandi
Dal 09 al 24 maggio 2013
arte contemporanea
Location
IFD GALLERY RESEARCH
Milano, Via Marco Polo, 4, (Milano)
Milano, Via Marco Polo, 4, (Milano)
Vernissage
9 Maggio 2013, h 19
Autore
Curatore