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Mariangela Calabrese – Mediterraneo
Quasi a ripristinare il senso e la sostanza di un vero e proprio percorso di intenti – mai
interrotto – la mostra è un ulteriore segmento di quel progetto iniziato proprio un
anno fa e che ha visto le opere di Mariangela Calabrese come estensioni narrative di
un’attualità fatta di “transiti, di smarrimenti, di intolleranza, di dolore smisurato e di
paura remota”
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Si inaugura sabato 9 febbraio 2019, negli spazi del MUSEO IRPINO – ex CARCERE
BORBONICO, ad Avellino, la mostra Mediterrando di Mariangela Calabrese.
Quasi a ripristinare il senso e la sostanza di un vero e proprio percorso di intenti – mai
interrotto – la mostra è un ulteriore segmento di quel progetto iniziato proprio un
anno fa e che ha visto le opere di Mariangela Calabrese come estensioni narrative di
un’attualità fatta di “transiti, di smarrimenti, di intolleranza, di dolore smisurato e di
paura remota”.
Mediterrando è pertanto frammento testimoniale di un itinerario metaforico che
attraversa il nostro mondo confidenziale per incrociarsi poi con l’oggettivismo del
dramma collettivo, quello arenato sui confini della speranza e del terrore, ai margini
delle parole superflue, carico di inconciliabilità e di compassione, di lembi e di
mediane, di sguardi e di ignoto.
Un tema assai caro all’artista salernitana, capace oltremodo di dirottare sulla tela il
“sentire sociale” con la voce più intima, più profonda, più segreta, la sua.
“Si ha il sentore di lenti processi effusivi” scrive di Mariangela Calabrese il critico
letterario Marcello Carlino “scanditi sul ritmo di una risacca; e tuttavia a volte si
ascolta il ruggito rosso-sangue del mare. Il colore, periodicamente, si schiarisce
sperimentando i toni dell’azzurro e del bianco: e allora prende di acqua e prende di aria
questa pittura, che assomiglieresti a un che di liquido e di aereo al tempo stesso,
fasciato di silenzio in un’atmosfera sospesa…”
La mostra al MUSEO IRPINO è pertanto un ulteriore “fascicolo di indagine” capace di
puntualizzare il tempo trascorso e di farne fabbrica di osservazione sul divenire. Le
opere di Mariangela Calabrese racchiudono un vero e proprio dualismo dialettico: il
senso intimo e profondo della propria dimensione di donna-artista e, al contempo, di
osservatrice del senso ambiguo dell’esistere.
Rocco Zani, critico d’arte, sottolinea come l’artista affidi al silenzio “il respiro di un
colore che non è conforto o barlume occasionale, piuttosto smisurata inclinazione alla
ricerca dell’essenza e dell’essenziale. Senza esagerare direi che la sua biacca remota, il
suo blu, il rosso argilloso sono oggi sillabario mai stagnante di una narrazione che si fa
giorno dopo giorno itinerario “consueto” della sua presenza artistica, della sua
sostanza…”
Un continuo moto ondoso sospinge la pittura di Mariangela Calabrese, facendola fluire come
corrente da riva a riva. La materia cromatica s’addensa, attratta verso il centro, e calamita i segni,
che s’aggrumano e fanno vortice e tempestano; eppure è costante un dilatarsi su rotte centrifughe,
finché la materia, resa diafana, ossimoricamente si sostanzia di immaterialità e avvista i lidi
dell’altrove.
Si ha il sentore di lenti processi effusivi, scanditi sul ritmo di una risacca; e tuttavia a volte si ascolta
il ruggito rosso-sangue del mare. Il colore, periodicamente, si schiarisce sperimentando i toni
dell’azzurro e del bianco: e allora prende di acqua e prende di aria questa pittura, che assomiglieresti
a un che di liquido e di aereo al tempo stesso, fasciato di silenzio in un’atmosfera sospesa.
E così essa trasporta il suo carico di idee e di sogni tra l’informale, che ha precedenti di gran rilievo
nella ricerca artistica del Novecento, e l’astratto nella cui filigrana sembrano affiorare cenni di figure,
tracce di memorie. E così unisce, da navetta in andata e ritorno, la musica asemantica del gesto che
urge e vuole espressione, anche gridato e dolente, e il significato che si compone in una storia, quello
talora alluso da un ipotesto che si scorge nel profilo di lettere in sequenze. Ed esplode spruzzando
lapilli a raggera e affaccia sulle cascate di un maelstrom. E fa la spola tra le sponde di un’emozione
che sale – e vuole essere partecipata prim’ancora di rapprendersi e di strutturarsi – e di un progetto
che include il pensiero e la ragione e reca testimonianza di un bisogno di comunicare, di condividere,
di aprirsi agli altri entrando nella loro vita. E diviene metafora di un viaggio ininterrotto e senza
confini: un viaggio storico e mitico e metafisico, un viaggio di tragedie e di speranze, un viaggio
integrale per acqua e per aria, dentro e fuori di noi. Per ritrovarci.
Prof. Marcello Carlino Università La Sapienza Roma
“La comunicazione non verbale è più vera, profonda, onesta. Il silenzio cambia l’intero essere” sostiene
Marina Abramovic. E’ in questa direzione che Mariangela Calabrese pone il suo sguardo, la sua coscienza.
E al silenzio affida il respiro di un colore che non è conforto o barlume occasionale, piuttosto smisurata
inclinazione alla ricerca dell’essenza e dell’essenziale. Direi che la sua biacca remota, il suo blu, il rosso
argilloso sono oggi sillabario mai stagnante di una narrazione che si fa giorno dopo giorno itinerario
“consueto” della sua presenza artistica, della sua sostanza.
Quasi a riportare - con l’indugio del dubbio - sull’altrove della tela i frammenti più intensi e intimi della
propria esistenza. Una pittura “autobiografica”? Credo in verità che ogni linguaggio sia simultaneamente
“principio proprio” e accento su criteri di un esistere analogo. Ovvero, l’opera nasce fatalmente dalla
propria consapevolezza di attraversamento e da quella griglia frammentata (di ascolti, di riflessioni, di
memorie) che accoglie le voci di uno stesso patire. Accade allora che le congetture del quotidiano - dai
minuti sostentamenti al destino delle ombre, dalle militanze turbolenti alle parole abbuiate - diventino di
colpo materia per imbastire capitoli o alloggio della propria identità espressiva. E mi aiutano le parole di
Gillo Dorfles recuperate nel suo magico “Elogio della Disarmonia”: …la discontinuità, l’anisocromia del
tempo, l’anisotropia dello spazio, vanno di pari passo con la discontinuità nella vita delle forme. Non è vero
che da una forma determinata derivi, per logica metamorfosi, la forma successiva…una cosa è certa: la vis
creativa dell’uomo è continuamente preda di spettacolari salti e le opere che ne derivano ne sono lo
specchio fedele…
Credo che accada per Mariangela Calabrese. Che svuota pareti per ripristinarne altrove. Il “vincolo
dell’abbraccio” è l’appartenenza al tempo clemente, alle considerazioni sull’equilibrio finanche formale di
una storia incentrata sulle certezze, sull’immaginifico della devozione. Da qui la necessità probabilmente di
una comunicazione latente, affidata ad una prospettiva esplicita e riconoscibile, come notifica alla
percezione comune. Priva di filtri o di meditate profanazioni. Rivelatrice del dialogo. Ma “la vita di sempre”
rinnova enigmi e concede estremi imprevedibili. E nell’arte l’imprevedibilità è foraggio e fame al contempo.
Rimane vivo il “timbro” del prologo fatto di una perentorietà cromatica affidata ad una poetica tonale
identitaria dove il blu, il rosso e la biacca si son fatti via via metalinguaggi preziosi, essenziali, quasi sonori.
Come capitoli ricorrenti - ma originali - di una narrazione che non offre alibi conclusivi ma sopravvive e si
alimenta, di volta in volta, di nuovi “ascolti”, di infrazioni, di registri inediti. Una pittura, quella di
Mariangela Calabrese che vive il presente. Quello trascorso. Quello, non ancora addomesticato, che ci
attende.
Rocco Zani, critico d’arte
BORBONICO, ad Avellino, la mostra Mediterrando di Mariangela Calabrese.
Quasi a ripristinare il senso e la sostanza di un vero e proprio percorso di intenti – mai
interrotto – la mostra è un ulteriore segmento di quel progetto iniziato proprio un
anno fa e che ha visto le opere di Mariangela Calabrese come estensioni narrative di
un’attualità fatta di “transiti, di smarrimenti, di intolleranza, di dolore smisurato e di
paura remota”.
Mediterrando è pertanto frammento testimoniale di un itinerario metaforico che
attraversa il nostro mondo confidenziale per incrociarsi poi con l’oggettivismo del
dramma collettivo, quello arenato sui confini della speranza e del terrore, ai margini
delle parole superflue, carico di inconciliabilità e di compassione, di lembi e di
mediane, di sguardi e di ignoto.
Un tema assai caro all’artista salernitana, capace oltremodo di dirottare sulla tela il
“sentire sociale” con la voce più intima, più profonda, più segreta, la sua.
“Si ha il sentore di lenti processi effusivi” scrive di Mariangela Calabrese il critico
letterario Marcello Carlino “scanditi sul ritmo di una risacca; e tuttavia a volte si
ascolta il ruggito rosso-sangue del mare. Il colore, periodicamente, si schiarisce
sperimentando i toni dell’azzurro e del bianco: e allora prende di acqua e prende di aria
questa pittura, che assomiglieresti a un che di liquido e di aereo al tempo stesso,
fasciato di silenzio in un’atmosfera sospesa…”
La mostra al MUSEO IRPINO è pertanto un ulteriore “fascicolo di indagine” capace di
puntualizzare il tempo trascorso e di farne fabbrica di osservazione sul divenire. Le
opere di Mariangela Calabrese racchiudono un vero e proprio dualismo dialettico: il
senso intimo e profondo della propria dimensione di donna-artista e, al contempo, di
osservatrice del senso ambiguo dell’esistere.
Rocco Zani, critico d’arte, sottolinea come l’artista affidi al silenzio “il respiro di un
colore che non è conforto o barlume occasionale, piuttosto smisurata inclinazione alla
ricerca dell’essenza e dell’essenziale. Senza esagerare direi che la sua biacca remota, il
suo blu, il rosso argilloso sono oggi sillabario mai stagnante di una narrazione che si fa
giorno dopo giorno itinerario “consueto” della sua presenza artistica, della sua
sostanza…”
Un continuo moto ondoso sospinge la pittura di Mariangela Calabrese, facendola fluire come
corrente da riva a riva. La materia cromatica s’addensa, attratta verso il centro, e calamita i segni,
che s’aggrumano e fanno vortice e tempestano; eppure è costante un dilatarsi su rotte centrifughe,
finché la materia, resa diafana, ossimoricamente si sostanzia di immaterialità e avvista i lidi
dell’altrove.
Si ha il sentore di lenti processi effusivi, scanditi sul ritmo di una risacca; e tuttavia a volte si ascolta
il ruggito rosso-sangue del mare. Il colore, periodicamente, si schiarisce sperimentando i toni
dell’azzurro e del bianco: e allora prende di acqua e prende di aria questa pittura, che assomiglieresti
a un che di liquido e di aereo al tempo stesso, fasciato di silenzio in un’atmosfera sospesa.
E così essa trasporta il suo carico di idee e di sogni tra l’informale, che ha precedenti di gran rilievo
nella ricerca artistica del Novecento, e l’astratto nella cui filigrana sembrano affiorare cenni di figure,
tracce di memorie. E così unisce, da navetta in andata e ritorno, la musica asemantica del gesto che
urge e vuole espressione, anche gridato e dolente, e il significato che si compone in una storia, quello
talora alluso da un ipotesto che si scorge nel profilo di lettere in sequenze. Ed esplode spruzzando
lapilli a raggera e affaccia sulle cascate di un maelstrom. E fa la spola tra le sponde di un’emozione
che sale – e vuole essere partecipata prim’ancora di rapprendersi e di strutturarsi – e di un progetto
che include il pensiero e la ragione e reca testimonianza di un bisogno di comunicare, di condividere,
di aprirsi agli altri entrando nella loro vita. E diviene metafora di un viaggio ininterrotto e senza
confini: un viaggio storico e mitico e metafisico, un viaggio di tragedie e di speranze, un viaggio
integrale per acqua e per aria, dentro e fuori di noi. Per ritrovarci.
Prof. Marcello Carlino Università La Sapienza Roma
“La comunicazione non verbale è più vera, profonda, onesta. Il silenzio cambia l’intero essere” sostiene
Marina Abramovic. E’ in questa direzione che Mariangela Calabrese pone il suo sguardo, la sua coscienza.
E al silenzio affida il respiro di un colore che non è conforto o barlume occasionale, piuttosto smisurata
inclinazione alla ricerca dell’essenza e dell’essenziale. Direi che la sua biacca remota, il suo blu, il rosso
argilloso sono oggi sillabario mai stagnante di una narrazione che si fa giorno dopo giorno itinerario
“consueto” della sua presenza artistica, della sua sostanza.
Quasi a riportare - con l’indugio del dubbio - sull’altrove della tela i frammenti più intensi e intimi della
propria esistenza. Una pittura “autobiografica”? Credo in verità che ogni linguaggio sia simultaneamente
“principio proprio” e accento su criteri di un esistere analogo. Ovvero, l’opera nasce fatalmente dalla
propria consapevolezza di attraversamento e da quella griglia frammentata (di ascolti, di riflessioni, di
memorie) che accoglie le voci di uno stesso patire. Accade allora che le congetture del quotidiano - dai
minuti sostentamenti al destino delle ombre, dalle militanze turbolenti alle parole abbuiate - diventino di
colpo materia per imbastire capitoli o alloggio della propria identità espressiva. E mi aiutano le parole di
Gillo Dorfles recuperate nel suo magico “Elogio della Disarmonia”: …la discontinuità, l’anisocromia del
tempo, l’anisotropia dello spazio, vanno di pari passo con la discontinuità nella vita delle forme. Non è vero
che da una forma determinata derivi, per logica metamorfosi, la forma successiva…una cosa è certa: la vis
creativa dell’uomo è continuamente preda di spettacolari salti e le opere che ne derivano ne sono lo
specchio fedele…
Credo che accada per Mariangela Calabrese. Che svuota pareti per ripristinarne altrove. Il “vincolo
dell’abbraccio” è l’appartenenza al tempo clemente, alle considerazioni sull’equilibrio finanche formale di
una storia incentrata sulle certezze, sull’immaginifico della devozione. Da qui la necessità probabilmente di
una comunicazione latente, affidata ad una prospettiva esplicita e riconoscibile, come notifica alla
percezione comune. Priva di filtri o di meditate profanazioni. Rivelatrice del dialogo. Ma “la vita di sempre”
rinnova enigmi e concede estremi imprevedibili. E nell’arte l’imprevedibilità è foraggio e fame al contempo.
Rimane vivo il “timbro” del prologo fatto di una perentorietà cromatica affidata ad una poetica tonale
identitaria dove il blu, il rosso e la biacca si son fatti via via metalinguaggi preziosi, essenziali, quasi sonori.
Come capitoli ricorrenti - ma originali - di una narrazione che non offre alibi conclusivi ma sopravvive e si
alimenta, di volta in volta, di nuovi “ascolti”, di infrazioni, di registri inediti. Una pittura, quella di
Mariangela Calabrese che vive il presente. Quello trascorso. Quello, non ancora addomesticato, che ci
attende.
Rocco Zani, critico d’arte
09
febbraio 2019
Mariangela Calabrese – Mediterraneo
Dal 09 al 23 febbraio 2019
arte contemporanea
Location
MUSEO IRPINO – Complesso Monumentale Carcere Borbonico
Avellino, Piazza Alfredo De Marsico, (Avellino)
Avellino, Piazza Alfredo De Marsico, (Avellino)
Orario di apertura
Dal martedì al sabato 09.00-13.15
Mercoledì e venerdì 09.00-13.15 / 15.30-17.30
Vernissage
9 Febbraio 2019, ore 11
Autore