Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Marianne Werefkin – L’amazzone dell’avanguardia
Una delle artiste più interessanti di inizio Novecento, la sua opera è stata fondamentale per la nascita nel 1909 della “Nuova Associazione degli Artisti di Monaco”, ponendo le basi d’inizio della moderna arte astratta del “Blaue Reiter” (Cavaliere Azzurro). La mostra raccoglie 50 tempere, 12 disegni, 20 libretti di schizzi e un diario
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Coltissima e carismatica pittrice, protagonista della grande rivoluzione artistica dei primi del Novecento, Marianne Werefkin si confrontava quotidianamente con gli artisti-amici Jawlensky, Kandinsky, Münter, Marc, Klee parlando di arte, cultura simbolista ed esoterismo contribuendo così ad aprire a Kandinsky una nuova via artistica.
Alla sua “arte dell’emozione” sarà dedicata la mostra “Marianne Werefkin. L’amazzone dell’avanguardia”, ospitata dal Museo di Roma in Trastevere dal 25 novembre 2009 al 14 febbraio 2010 che raccoglie 50 tempere, 12 disegni, 20 libretti di schizzi e un diario. Promossa dal Comune di Roma Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione – Sovraintendenza ai Beni Culturali, dal Comune di Ascona, dal Museo Comunale d’Arte Moderna Ascona e dalla Fondazione Marianne Werefkin Ascona con il Patrocinio dell’Ambasciata Svizzera in Italia e con la collaborazione dell’Istituto Svizzero di Roma, l’esposizione è a cura di Mara Folini e Federica Pirani da un progetto di Maria Paola Fornasiero. Organizzazione e servizi museali di Zètema Progetto Cultura.
Nata da una famiglia dell’alta nobiltà russa – il padre generale della Fortezza di Pietro e Paolo a San Pietroburgo, la madre pittrice e discendente da un’antica stirpe di principi cosacchi – Marianne Werefkin è una delle artiste più interessanti del panorama europeo di inizio Novecento ma è rimasta quasi sconosciuta al pubblico italiano. La sua opera è stata fondamentale, a livello sia teorico che pittorico, per la nascita nel 1909 della “Neue Künstlervereinigung München” (Nuova Associazione degli artisti di Monaco) e di conseguenza del “Blaue Reiter” (Cavaliere Azzurro), ponendo così le basi per la nascita della moderna arte astratta. Un’arte che doveva esprimere soprattutto le emozioni interiori, non la “verità della vita” ma la “vita vera”.
Per lunghi periodi rimane lontana dall’esercizio della pittura: ricomincia, infatti, a dipingere nel 1906, strutturando le forme con l’uso puro del colore e stilizzando le linee senza mai entrare nell’astrazione pura.
La sua produzione artistica può essere distinta in tre momenti significativi. Il primo, riscontrabile negli schizzi in lapis e matite colorate, vede l’influsso delle correnti mistiche e dell’arte di Kubin e Redon. Il secondo, evidente in diverse opere e schizzi del 1907, è influenzato dall’arte francese impressionista e neo-impressionista nell’iconografia (con le scene di città, caffè e spettacoli teatrali) e dall’opera di Gauguin e Nabis nello stile (con l’uso espressivo del colore e delle linee). Ma in questa fase è soprattutto l’arte di Edvard Munch ad avere influenzato fortemente la sua pittura, per l’uso simbolico e antinaturalistico del colore, per la pennellata fluente e per i richiami iconografici. Nel terzo periodo, con le opere degli anni 1908-13, la Werefkin giunge infine al suo stile lirico, espressivo, personale in cui le forme, le linee e i colori sono spesso assorbiti da una tonalità dominante. Infine, con il suo trasferimento in Svizzera, che si conclude ad Ascona dove risiede negli ultimi 20 anni della sua vita, la sua arte da un lato segue una forma più mistica e visionaria, dall’altro esprime i suoi sentimenti più umanitari e vicini alle problematiche umane.
In occasione dell’inaugurazione della mostra, la Fondazione Internazionale Accademia Arco presenterà un concerto della pianista russa Olga Nikišina.
Da Musa ad Angelo
Il percorso errante di Marianne Werefkin
Federica Pirani
Una creatività febbrile, densa, ininterrotta, quasi un diario intimo fatto di immagini, emerge dai taccuini degli schizzi di Marianne Werefkin: oltre 170 quaderni di piccolo formato, dipinti a pastello o a tempera, che accompagnano la ricerca dell’artista dal 1904 agli ultimi anni della sua vita.
Tra le primissime opere, intrise del simbolismo visionario di Kubin e di Redon, è un disegno intitolato Lufwesen (“Creature aeree”, fig. 4). Tre creature ancestrali, dai corpi informi e trasparenti come nuvole e dai volti stilizzati con le bocche semiaperte, si librano nell’aria, volando sopra un placido mare turchese mentre all’orizzonte l’astro nascente infuocato del sole riempie la superficie con i suoi raggi. Si tratta di figure prive di ali ma è probabile che siano angeli. Naturalmente non le figure alate col ricco e convenzionale bagaglio di attributi comune alla più diffusa iconografia, bensì l’immagine che ne veniva offerta agli albori del cristianesimo. Quando nei cubicoli degli ipogei cristiani iniziavano a comparire le prime raffigurazioni della nuova religione, le figure degli angeli non possedevano un’iconografia propria o, per meglio dire, non avevano caratteristiche somatiche o qualità precipue distintive che ne permettessero un’identificazione al di fuori del contesto narrativo.
Ciò che interessava gli anonimi frescanti o gli scultori cristiani era di evidenziare la funzione di messaggero accordata all’angelo dalle Sacre Scritture piuttosto che differenziarlo tramite particolari attributi. Ancora di più l’enigmatica immagine del taccuino sembra trovare ispirazione nelle antiche fonti dell’esegesi biblica – da Filone d’Alessandria a Dionigi l’Areopagita – per i quali, basandosi sull’interpretazione del Salmo 104 che recita: «Tu sospingi i venti come nunzi veloci», l’angelo si identificava con il vento. Creature fatte d’aria, sospese tra la terra e la luce, tra il visibile e l’invisibile, come il vento si sentono ma non si vedono e spesso hanno la sembianza e la consistenza delle nuvole.1 Protettori e castigatori, allo stesso tempo, sono onniscienti e messaggeri del divino.
Werefkin dipinge di un blu denso e cupo una delle tre figure volanti; a contrasto con la luminosità delle altre questa appare opaca, simile alle nubi cariche di pioggia e, secondo i modelli cosmologici, rappresenta l’angelo castigatore.2
Tra il 1901 e il 1905, Werefkin scrisse le Lettres à un Inconnu, testo intriso dalle tematiche spiritualiste e teosofiche, estremamente diffuse nell’ambiente monacese di quegli anni,3 ma altresì caratterizzato da una drammatica alternanza tra il porsi come scritto rivoluzionario sulle nuove teorie estetiche dell’avanguardia, che segneranno il pensiero e la poetica, tra gli altri, di Kandinsky e di Klee, e le intime necessità, tipiche di un diario, di confessare le proprie vicissitudini esistenziali. In un brano del testo, risalente al 1905, l’artista sembra alludere proprio al disegno con le tre figure volanti: «E poi ci sono le anime folli. Come il procedere cadenzato degli astri è attraversato dalla corsa delle comete, così il procedere tranquillo dell’umanità, il corteo trionfante dei grandi, le regioni luminose dei genii sono attraversate dalla corsa delle anime ardenti, ultime gocce del genio, che si precipitano dal fondo dell’umanità direttamente verso Dio. Esse vengono a “struggersi” alla sua luce per ricadere là da dove provengono. Esse non producono nulla, esse non spiegano niente, esse amano … ma sono esse che recano la vera leggenda di Dio all’umanità che lo teme … Qual è il loro cammino? Esse lo ignorano, ma ovunque esse passano, un raggio celeste è passato, il riflesso di ciò che esse hanno visto per un istante. E l’umanità nella sua ombra, e i genii nella loro gloria e Dio nella sua grandezza, per un istante si fanno uno: l’amore li unisce».4
Per molti anni Werefkin aveva negato il suo essere artista o, meglio, si era ritagliata, dolorosamente ma con un assoluto orgoglio luciferino, la sua parte: sarebbe stata Musa, l’ispiratrice e manipolatrice del più giovane artista Alexej Jawlensky. La Musa è parente della figura angelica, come questa è messaggero, ha un compito di disvelamento, conduce l’artista, a volte suo malgrado, ai limiti dell’umano, in una continua alternanza tra un “di qua” e un “aldilà”. Come l’angelo ha un potere di seduzione, mette in comunicazione i due mondi, è invocata come estremo rifugio di salvezza a fronte dell’insignificanza della vita, del rischio immanente della caduta.
Compagni di viaggio e di esilio, dalla Russia a Monaco di Baviera alla Svizzera, il suo rapporto con Jawlensky, sempre conflittuale, segnerà quella “discesa agli inferi” attraverso la quale Werefkin approderà a una nuova vita artistica passando dal realismo della giovinezza all’espressionismo lirico della maturità. La tematica della sofferenza informa le Lettres à un Inconnu nel doppio registro, intimo ed estetico: dal tradimento reale perpetrato dal compagno all’esperienza del male e del dolore quale viatico alla conoscenza.5 «Solo dopo aver conosciuto il vuoto spaventoso della realtà», solo dopo aver abitato nel nulla, nel «non luogo», sarà possibile non riprodurre il visibile ma «rendere visibile», come affermerà anni dopo Paul Klee,6 nel celebre scritto La confessione creatrice del 1918; del resto per Werefkin l’arte è «un sentimento che prende forma» e ripeteva spesso, quasi come una metafora della sua esperienza estetica, di «amare le cose che non sono».
Sorprendentemente le «anime folli» descritte dall’artista assomigliano alle figure angeliche che, prive di consistenza, si cancellano nel momento stesso del loro dire, confermando il carattere rapsodico di apparizione istantanea e fuggevole, ma altresì il proprio valore iniziatico. Come gli angeli delle Elegie duinesi di Rainer Maria Rilke, queste creature emanano bellezza e amore, riattingendola da loro stesse, offrono senza nulla perdere di quello che hanno emanato ma, quali immagini di autosufficienza mettono l’uomo di fronte alla sua incompiutezza e precarietà, segnalando al contempo la propria irraggiungibile perfezione.7
Peraltro allusioni alla figura angelica erano già presenti negli scritti della Werefkin, ad esempio nella frase «Amo l’amore che non è, che plana su di voi come un’ala invisibile».8 L’ala è lo strumento ascensionale per eccellenza, l’attributo di perfezione ideale per tutti gli esseri e solo attraverso l’angelo può avvenire l’accostamento all’invisibile, all’essenza delle cose e, al contempo, la sconfitta del demone della gravità.9
Gran parte della pittura dell’artista, del resto, sembra segnata dalla paura della gravità, dell’equilibrio instabile, della caduta: le figure umane nei dipinti sono spesso ai margini della composizione, schiacciate dal peso corporeo reso ancora più evidente dall’assenza di prospettiva, dalla vertiginosa inclinazione del piano di fondo, dalla preclusione dello spazio potenzialmente infinito dietro l’orizzonte molte volte sbarrato dall’opprimente immagine della montagna, luogo, per antonomasia, dell’elevazione e dell’assoluto interdetti all’uomo. Anche i viottoli che si inerpicano verso le cime non sembrano portare in qualche luogo: sono piuttosto la drammatica rappresentazione della condizione dell’erranza propria dell’epoca moderna nella quale alla figura del viaggiatore, di colui che ha una meta, seppur immaginaria o mitologica, si sostituisce la condizione esistenziale del vagabondo, del flâneur, di colui che è “senza radici”.
La simbolica rappresentazione della montagna così come la drammatica “pesantezza” umana e la possibile sconfitta della gravità attraverso il volo e l’elevazione sono, inoltre, argomenti dello Zarathustra nietzschiano ben conosciuti dall’artista.
D’altra parte anche il tema dell’angelo fa la sua apparizione con sorprendente frequenza nel cielo dell’arte e del pensiero contemporaneo. Non più creature perfette, ma sedotte o contaminate dall’essere umano, esse popolano, quasi ossessivamente, lo spazio artistico del ventesimo secolo ponendosi come metafora complessa dell’unica opportunità concessa all’uomo di accedere all’invisibile.
Numerose sono le opere dedicate a questa icona del contemporaneo da molti tra gli artisti protagonisti dell’avanguardia – Chagall, Klee, Tzara, Ernst, Arp, Savinio, de Chirico, Licini – e altrettanto ricorrente è la sua presenza nelle espressioni poetiche: Lautréamont, Apollinaire, Alberti, Stevens, Cocteau, Rilke, Mallarmé, Valery, Bulgakov e Kafka. Di derivazione romantica, la metafora dell’angelo ha una delle sue prime formulazioni in senso moderno negli scritti e nell’opera di William Blake, per poi ritrovarsi con diversi significati in Baudelaire e Hugo von Hofmannsthal e nelle pitture simboliste di Odilon Redon e di Gustave Moreau. In questo milieu culturale i significati connessi alla figura angelica si diversificano a seconda dell’autore.
Per Baudelaire, ad esempio – come anche, con sorprendente analogia, per Redon – l’angelo vive la tragica condizione della caduta, è un angelo che ha accettato la sfida del male, del terrestre, dell’impuro. Le sue ali sulla terra divengono ingombranti, quasi si pietrificano, non permettendogli di camminare. All’angelo baudelairiano non è estranea, quindi, una condizione di imperfezione che comporta inevitabilmente, nella formulazione dei caratteri angelici, elementi luciferini, demoniaci.
La condizione angelica arriva per Baudelaire a identificarsi con quella del poeta, per cui la bellezza cercata non può che presentarsi, nel momento del presente, con i caratteri dell’orrido, della necessità poetica del brutto. In altri, come von Hofmannsthal, l’angelo è un guerriero, un messaggero dello spirito, connotandosi principalmente come figura dell’ordine, della necessità.
Nel periodo di crisi della coscienza europea l’angelo diviene non solo il messaggero del trascendente, ma è la sua realtà immanente di custode e simbolo della parola che si trasforma in una sorta di alter ego del poeta e dell’artista. Il silenzio delle cose, la paralisi del linguaggio, l’inadeguatezza della parola ad esprimere sono elementi della coscienza contemporanea. La metafora dell’angelo quale simbolo della creazione diviene, nel momento dell’attesa del rinnovamento, il custode delle possibilità estatiche, della capacità poetica nell’epoca moderna.10
Per una figura come quella di Marianne Werefkin, profondamente informata e partecipe del pensiero contemporaneo, non solo artistico ma anche letterario, filosofico ed estetico, che ha fatto propria una visione interiorizzata dell’arte, indissolubilmente intrecciata alla personale vicenda biografica, un alter ego angelico poteva perfettamente rientrare nel suo universo poetico.
Ed è proprio sul piano dell’immedesimazione che si esplicita l’adesione alla metafora angelica: nell’Autoritratto in veste di angelo (fig. 5) l’artista, pienamente consapevole della propria identità, è avvolta da ali trasparenti screziate da bagliori purpurei e turchini, mentre i grandi occhi fulvi, fiammeggianti, guardano finalmente verso l’invisibile.11
1 M. Bussagli, Quando agli angeli spuntarono le ali, «Art e Dossier», dossier n. 45, 1990, pp. 16-27.
2 E. Kirschbaum, L’angelo rosso e l’angelo turchino, «Rivista di archeologia cristiana», 17, 1940, pp. 210-248.
3 Sulle fonti del pensiero e delle teorie estetiche della Werefkin, si veda M. Folini, Marianne Werefkin: riscoprirla attraverso le fonti, in Marianne Werefkin. Il fervore della visione, catalogo della mostra (Reggio Emilia, Palazzo Magnani, 2001), a cura di S. Parmiggiani, Milano 2001, pp. 43-57.
4 M. Werefkin, Lettres à un Inconnu, 3 voll. (1901-1905), III, 1905 (FMW 19L-3-558/1-274), pp. 150-158. Si cita dal testo originale conservato nel Fondo Marianne Werefkin.
5 Su questi temi, si veda G. Dufour-Kowalska, Marianne Werefkin e Alexej Jawlensky: una stagione all’inferno, in Marianne Werefkin 2001, cit., pp. 87-99.
6 Paul Klee sarà uno dei migliori amici di Werefkin e insieme alla moglie, Lily, si occuperà del suo appartamento a Monaco durante gli anni della guerra.
7 «La bellezza che da voi defluisce, la riattingete nei vostri volti … Ma per noi, sentire è svanire; ah noi! ci esaliamo, sfumiamo», R.M. Rilke, Seconda Elegia, vv. 15-18, in Elegie duinesi, introduzione di A. Destro, traduzione di E. e I. De Portu, Torino 1978, pp. 11-15.
8 Werefkin, Lettres, cit., I, 1901 (FMW 19L-1-556/1-280), p. 138.
9 Cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, a cura di M. Montinari, con un’introduzione di G. Colli, Milano 1976.
10 Sull’angelo nell’arte del XX secolo, si veda J. Jiménez, El ángelo caído. La imagen artistica del ángel en el mundo contemporáneo, Barcelona 1982; M. Cacciari, L’angelo necessario, Milano 1986; F. Pirani, Licini e l’Europa. La nascita dell’iconografia angelica, in Licini, catalogo della mostra (Venezia, Fondazione Bevilacqua La Masa, 1988), a cura di M. Apa, Milano 1988, pp. 39-49; Ead., Licini, l’angelo del Novecento, «Art e Dossier», dossier n. 38, 1989, pp. 16-20; M. Apa, La condizione angelica tra sincretismo e liturgismo, in Le ali di Dio. Messaggeri e guerrieri alati tra Oriente e Occidente, catalogo della mostra (Bari, Castello Svevo-Caen, Abbaye-aux-Dames, 2000), a cura di M. Bussagli e M. D’Onofrio, Milano 2000, pp. 108-118; Chagall, Licini e il sopra naturale in Arp, Ernst, Klee, Miró, Savinio, catalogo della mostra (Ascoli Piceno, Complesso monumentale di Sant’Angelo, 2001-2002), a cura di M. Vescovo, Milano 2001, e F. Pirani, Gli angeli di Klee, in Paul Klee. Uomo, pittore, disegnatore, catalogo della mostra (Roma, Complesso del Vittoriano, 2004), a cura H.C. von Tavel, Milano 2004, pp. 53-60.
11 Sulla vicinanza tra l’Autoritratto in veste di angelo e il dipinto della Salomé, si veda N. Misler, “Come salvare Salomè?”: Marianne Werefkin e la danza, in Marianne Werefkin 2001, cit., pp. 77-85 [infra, pp. 104-105]. Un suggestivo riferimento al valore simbolico del colore degli occhi fulvi si ritrova in R.M. Rilke, nella figura di Erik Brahe, che appartiene, grazie al suo occhio “sano”, al mondo dei vivi e a quello invisibile dei morti cui guarda col suo occhio “fisso”. Il tema è poi ripreso nella Quarta Elegia (vv. 30-35).
Marianne Werefkin: la furia della vita
Mara Folini
«Io credo che oltre all’apparenza del mondo e alle forme mutevoli, ci sia il mondo immutabile del riposo, della Verità, il mondo delle conciliazioni, in cui mi sento trascinata con tutta la mia anima. È la mia sensazione e la mia fede, la mia essenza artistica, il mio io di pittore. Ho lungamente cercato una lingua … con la quale potessi esprimere il mio amore e la mia fede. Attraverso le esigenze di un’educazione artistica tradizionale e sbagliata, attraverso il realismo del mio maestro Repin e l’eleganza dei miei maestri stranieri … sono arrivata infine alla coscienza che nella mia anima, accanto al mio amore e alla mia fede, vivono linee e colori del tutto identici, e che i movimenti e le combinazioni di queste linee e colori possono rendere l’essenza del mio io dualista nel modo il più fedele … Da questa presa di coscienza si risvegliava in me il vero pittore: io cessavo di pensare in simboli di parole …, ma pensavo esclusivamente in simboli di linee e di colori.»1
Marianne Werefkin – donna raffinata, poliglotta, pittrice e scrittrice coltissima – è una di quelle artiste che, dimenticata dalla critica per anni, oggi appare finalmente come una di quelle voci significative che ebbero un ruolo di primo piano nello sviluppo dell’arte moderna nella Monaco di inizio Novecento.2 L’attenzione cade sulla sua scelta di non uniformarsi all’arte del suo amico Vassilij Kandinsky, anche se detta arte era da lei ben compresa, anzi ne fu valida iniziatrice (come attesta il brano di apertura di questo saggio).
La sua aspirazione a un’arte soggettiva, capace di incidere sul presente, nell’esprimere la visione dell’artista creatore e le sue aspirazioni (perché per lei l’arte non deve rappresentare ciò che l’occhio “vede” ma ciò che l’anima “sente”, poiché «la vera arte è quella che esprime l’anima delle cose – e quest’anima è l’anima dell’artista»)3 è già presente negli anni russi della sua formazione (1883-1896). Tuttavia, allora, l’artista non aveva ancora chiaro quale fosse quel linguaggio che opponesse ai valori della società scientista e dogmatica l’aspirazione a un mondo spirituale caratterizzato dalla nostalgia di un’unità organica conglobante, dove anima e corpo fossero tutt’uno.
Nata a Tula (sud di Mosca) il 29 agosto del 1860, cresciuta nell’aristocrazia (figlia del comandante della fortezza di Pietro e Paolo a San Pietroburgo, Vladimir Werefkin, e della pittrice di icone, di nobile origine cosacca, Elizaveta P. Daragan), sviluppò un precoce talento divenendo, negli anni ottanta, allieva del grande realista Ilja Repin. Trasferitasi dalla conservatrice San Pietroburgo nella più moderna Mosca per seguire i corsi di disegno di Illarion Michajlovicˇ Prjanisˇnikov all’Accademia, viene presto riconosciuta per i suoi grandi ritratti a olio legati alla migliore tradizione del Seicento europeo che le valgono l’appellativo di “Rembrandt russo”, ed espone con il gruppo degli Ambulanti,4 sposandone la vocazione – pedagogica, quasi sacerdotale – a portare l’arte al popolo russo.
A Mosca, il confronto con le avanguardie simboliste e post-impressioniste – Savva Mamontov e la colonia degli artisti di Abramcevo,5 il circolo dei Benois e il gruppo del Mondo dell’Arte, il famoso pittore Victor Elpidiforovich Borissov-Moussatov (1870-1905)6 e il movimento della Rosa Scarlatta (1904) anticipatore della Rosa Blu (1907) – interagì fin dagli anni novanta nella relazione conflittuale con il maestro Repin e l’arte realista, preparando il terreno per il suo avvicinamento all’arte francese post-impressionista e simbolista.7 Sono, questi, gli anni delle letture a carattere spiccatamente scientifico, inerenti ai meccanismi profondi dell’inconscio, che mostrano l’intima affinità dell’artista con l’amico Kandinsky nel sottolineare come il problema di un’arte nuova si fondasse sul problema del soggetto, dell’artista che crea.8
Tuttavia ci vollero più di dieci anni prima che le fosse chiaro quale fosse quel linguaggio che, con le sue regole e leggi, potesse esprimere non la disadorna “verità della vita” del mondo positivista, ma l’incandescenza superiore della “vita vera” dell’anima, invocata dai seguaci di Nietzsche. Un’aspirazione che peraltro, secondo la Werefkin, è prerogativa maschile: al punto che quando, nel 1891, conosce Alexej Jawlensky e ne apprezza il talento, si elegge a “musa ispiratrice” della sua arte e smette di dipingere, dal 1896, per quasi dieci anni,9 con lucida quanto delirante e anticonformista presa di posizione nei confronti della sua condizione di donna in una società al maschile, convinta che solo un uomo avrebbe potuto dare un nuovo corso alla storia.
Unite le loro vite sulla base di una semplice promessa d’amore (promessa che per l’anticonformista Marianne ha più valore di qualsiasi atto istituzionale), resteranno insieme per ventinove anni, fino alla separazione nel 1921 ad Ascona (non senza tormento e conflittualità, e non da soli: con loro vivrà la giovane Helene Nesnakomoff, governante della pittrice, amante e modella di Jawlensky, madre nel 1902 del loro figlio Andreas, e sua sposa nel 1922).10
A Monaco, dove si trasferirono nel 1896 (nel quartiere bohémien dello Schwabing, allora culla della modernità, in cui la Secessione, con le riviste «Pan», «Simplicissimus» e «Jugend», contribuiva all’affermazione del nuovo stile in contrapposizione all’accademismo imperante), il “salotto rosa” della Werefkin si trasformò ben presto in quel crogiolo di artisti, pittori, danzatori, in gran parte russi – Igor Grabar, Dmitrij Kardowsky, Alexander Salzmann, Nikolaj Seddler, Walentin Serov, i fratelli Burljuk, Willibord Verkade, Franz e Maria Marc, August, Elisabeth e Helmut Macke, Alexander Kanoldt, Emil Nolde, Adolf Erbslöh, Paul e Lily Klee, Cuno Amiet, Else Lasker-Schüler, Vladimir Bechtiev, Andrej D. Sacharov, Anna Pavlova, Sergej Diaghilev (suo amico d’infanzia), Vaslav Nijinsky, Gabriele Münter e Vasilij Kandinsky, conosciuto dopo i suoi studi alla scuola di Azˇbé (1897) con Jawlensky – del quale lei, la “baronessa”, era il centro intellettuale e affettivo (e che, sull’esempio delle gilde medievali e degli artel degli Ambulanti, chiamò “Confraternita di San Luca”). Qui si dibattevano i temi della cultura simbolista e dell’esoterismo di moda imbastiti al Caffè Stephan, ci si interessava alla psicanalisi e alla teosofia,11 si inneggiava a “un’arte dell’emozione” sottratta alla mimesi e infusa di forza profetica e spirituale.
Nel 1897 Marianne e Jawlensky sono a Venezia, nel 1903 in Normandia e a Parigi, nel 1905 in Bretagna sulle tracce di Gauguin e dei Nabis, poi a Parigi e in Provenza, nella mitica terra di Van Gogh, Cézanne e Matisse, e infine a Ginevra, dove incontrano Ferdinand Hodler. Intanto (dal 1901 al 1905) prende forma il suo diario, le Lettres à un Inconnu, testo di teoria estetica all’avanguardia, dove, attraverso la mediazione dell’arte francese e le dottrine dell’Einfühlung (“empatia”), la Werefkin scopre il valore strutturante e autonomo del colore, quindi la specificità del linguaggio artistico, libero di costruirsi in forme sintetiche e in cifre emozionali espressive dell’interiorità dell’artista, organizzate dinamicamente secondo le leggi dell’arte pittorica – simmetria, contrasto, accordo tra i colori12 – preannunciando la svolta astratta che Kandinsky avvierà con il ben più sistematico e famoso saggio Lo spirituale nell’arte (1910-1912).13
Tuttavia Marianne non compirà mai il passo decisivo verso l’astrazione, pur condividendone le premesse, anzi anticipandone il rivoluzionario linguaggio nel sottolineare come «il pensiero artistico è rivelazione della vita in termini di colore, forma e musica».14 Preferisce però (forse già intuendo i rischi di un movimento artistico fondato su tipologie riconoscibili, in cui si perde la forza prima della creazione, rischiando l’autoreferenzialità e lo scollamento dalle problematiche sociali ed esistenziali) abbandonarsi alla poesia di una sensazione, alla meditazione solitaria, al dolore lentamente stilizzato in forme significanti, ma sempre condivisibili dal resto del mondo: perché, come lei stessa afferma, «l’arte ha la sua vita in sé, delle leggi in sé». Ma al tempo stesso, rifiutando l’univocità dell’art pour l’art, sostiene – retaggio forse della sua lunga militanza tra gli Ambulanti – che l’arte ha anche il compito di «imporre all’umanità dei nuovi valori estetici ed etici»,15 e giunge a dire che se molti dei suoi compagni «parlano direttamente il linguaggio dei simboli primi, per esempio Kandinsky in pittura o Schönberg in musica, ed essi hanno ragione, può darsi pure più di me», per lei e per i suoi amici più vicini «per emozionare la vita bisogna esservi inseriti fermamente. È per questo che noi non la rinneghiamo, non la fuggiamo, ma l’amiamo».16
Dunque è il suo interesse per i problemi più esistenziali del soggetto, per i meccanismi profondi, piuttosto che per i meccanismi percettivi più fisici che l’ha condotta a un lungo periodo di riflessioni, discussioni, esperienze e viaggi, di cui il suo diario è testimonianza: «solo nel momento in cui l’uomo si sente in grado di trasformare in sé ogni impressione, di rimodellare nella sua anima ogni esperienza, solo in quel momento può considerarsi un individuo … [perché] il pensiero artistico è rivelazione della vita in termini di colore, forma e musica, e ha valore solo se è personale … Il mondo dell’artista è nei suoi occhi, e questi a loro volta gli creano un’anima. Educare questi occhi per ottenere un’anima sensibile, è il dovere principale di un artista».17 Per poter infine dichiarare: «sono andata per un anno in Francia, ho ricominciato tutto da capo e dopo qualche mese ho trovato la strada che attualmente seguo».18
Ritrovata la fiducia nei propri mezzi espressivi, la pittrice ricomincia a dipingere nel 1906 (ma forse già dal 1903 traccia degli schizzi) e passa direttamente a una pittura a tempera già scevra da stilemi neo-impressionisti, ancora presenti invece nella pittura dei suoi amici. Usa la tempera ma soprattutto ama sperimentare le tecniche più diverse – gouache, pastelli, carboncini, gessetti, penne e matite – mescolandole in accordi azzardati; usa il colore puro liberamente tra armonie e contrasti, trasformando il momento mimetico in composizione ritmica, seriale, avvolgente e perlopiù visionaria. La straordinaria elaborazione teorica che Werefkin ha svolto nelle Lettres à un Inconnu è rintracciabile sia nei dipinti che negli innumerevoli schizzi del 1906-1907 (la Fondazione Marianne Werefkin di Ascona ne conserva ben 170), sia nel manifesto della Neue Künstlervereinigung München (NKVM) fondata nel 190919 – dopo i fertili scambi dei soggiorni estivi a Murnau (1908 e 1909) – insieme a Jawlensky, Kandinsky e Gabriele Münter, e nella quale Werefkin («l’anima di tutta l’impresa» secondo Franz Marc) ebbe un ruolo di primo piano,20 contribuendo alla nascita di quello che la critica ha definito “espressionismo lirico” per distinguerlo da quello, a carattere più sociale, della Brücke di Dresda.
Gli studi scientifici, a cui la pittrice si è applicata, le offrono la possibilità di sfidare la scienza nel suo stesso campo: la conoscenza della natura, non solo nelle apparenze sensibili, quanto soprattutto nelle forze vitali che la regolano, induce l’artista a imbastire le sue opere attraverso schemi geometrici e lineari dal carattere spiccatamente scientifico (ellissi, file prospettiche accorciate, linearità sinuose che a volte si spezzano), ma che vengono prescelti secondo il loro valore di messaggio psicologico, ormai irrimediabilmente affrancati dalla rappresentazione naturalistica e impressionistica della realtà. Così i paesaggi della Werefkin assumono una connotazione geometrizzata e stilizzata tale da conferire alla scena una dimensione astratta dal tempo e dallo spazio, che spesso assume una caratterizzazione visionaria, carica di forza drammatica: nella loro apparente semplicità, rimandano sempre a un messaggio simbolico, a una massima di vita universale.
La sua produzione, inizialmente schizzi a matita e matite colorate, nei soggetti simbolici di un mondo fantastico e inquietante (Le anime folli, Scogli) appare già influenzata dalle correnti mistiche e teosofiche dell’epoca (in particolare la concezione cosmica e apocalittica del mondo, fondata sull’idea di “unitotalità” di Solov’ëv),21 da Kubin e Redon, ma anche dal Segantini delle Cattive madri; mentre mostra, nelle opere e negli schizzi del 1907, affinità iconografica con i colleghi impressionisti e neo-impressionisti francesi (da Degas a Toulouse-Lautrec, da Cézanne a Seurat, per le scene di città, i caffè, gli spettacoli teatrali) e vicinanza stilistica con Gauguin e i Nabis (per l’à plat del colore antinaturalistico e l’uso espressivo e personale del cloisonné, che approdano a quel sintetismo caro a Sérusier, a Denis e a Bernard, delle opere dei quali si hanno precisi riscontri nei taccuini), come in Autunno-Scuola (cat. 4) e Birreria all’aperto del 1907 (cat. 2) e Pomeriggio domenicale del 1908 (cat. 11).22
È però Munch l’artista con il quale sente realmente di condividere la visione drammatica della vita, avvicinandosi a lui tanto nell’uso del colore simbolico e antinaturalistico, della pennellata fluente e vibrante, quanto nella stessa impostazione strutturale e nei richiami iconografici, come attestano La strada di campagna del 1907 (cat. 9), i Gemelli del 1909 (cat. 5) e Atmosfera tragica dell’anno successivo (cat. 13). Infine, tra il 1908 e il 1913, raggiunge un suo stile lirico espressivo, in consonanza con un’accentuazione del valore sinestetico delle forme, delle linee e dei colori, spesso assorbiti da una diffusa tonalità dominante, la cosiddetta Stimmung (approssimativamente traducibile in italiano con “atmosfera”, che però ha ben altre implicazioni filosofiche e simboliche), richiamando a quel senso di pienezza di sentimento, di immedesimazione e percezione immediata nelle pure forme a quel “suono interiore”, citando Kandinsky, di risonanza quasi mistica e cosmica che rinvia a un’aspirazione al trascendente e implica quella Sehnsucht, quel desiderio – bramoso e nostalgico a un tempo – di ritorno ontologico alla unità dell’essere con il mondo, linfa vitale che dà senso a ogni progredire esistenziale. Ciò si esprime in opere come Sala da ballo e Al caffè (cat. 10), Due vecchie signore del 1907 (cat. 22), Il danzatore Alexander Sacharoff del 1909 (cat. 12), Atmosfera tragica del 1910 (cat. 13), I pattinatori del 1911 (cat. 23). La forma e il colore si drammatizzano attraverso la loro semplificazione simbolica (un’accentuazione dell’atmosfera generale data dalla uniformità di un colore di base, vibrato da flussi energetici di pennellate ora lunghe, ora brevi, ora locali ma sempre vive e riscontrabili) in opere come La città rossa del 1909 o La donna con la lanterna del 1910 (cat. 18), quest’ultima con assonanze anche con l’arte di Van Gogh. E in L’albero rosso del 1910 (cat. 21), quasi un’icona laica del senso della vita e dell’aspirazione alla trascendenza. Questa interpretazione originale del suo stile espressionistico continuerà nelle opere del 1912-1913, che andranno sempre più arricchendosi di problematiche sociali ed esistenziali, come in Ciminiera e La città industriale-Ritorno a casa del 1912 (cat. 30), in Città in Lituania (cat. 32) e Chiesa di Sant’Anna a Vilnius del 1913 (cat. 33), in Posto di polizia a Vilnius del 1914 (cat. 34).
La relativa fama acquisita negli anni, anche grazie a una notevole attività espositiva,23 è bruscamente interrotta, all’inizio del mese di agosto del 1914, dallo scoppio della prima guerra mondiale. Werefkin, Jawlensky, Helene Nesnakomoff e il figlio Andreas, come tutti i russi, sono costretti a lasciare la Germania in quarantott’ore. Jawlensky racconta: «Dovevamo lasciare il nostro appartamento con tutti i mobili e gli oggetti d’arte e potevamo prendere con noi solo quello che eravamo in grado di portare … eravamo 20 persone, circondate da soldati con i fucili – allora la folla che stava sulla strada si mise a imprecare e ci sputò addosso».24
Raggiungono la Svizzera attraverso Lindau, sul lago di Costanza, da dove proseguono per Saint-Prex, sul lago Lemano, nel Canton Vaud, poiché a Losanna viveva un vecchio amico di Monaco, il possidente terriero russo Alexander Dimitry Chruschtschoff,25 che si adoperò per trovar loro una sistemazione, al piano superiore di una piccola abitazione prospiciente il lago. Il forzato trasferimento in Svizzera fu per tutti traumatico: Marianne Werefkin, che ancora a Monaco poteva contare sulla pensione paterna (2000 rubli l’anno, pari a circa 10.000 euro attuali), con la rivoluzione bolscevica finì per perdere tutto, e per la prima volta nella sua vita conobbe la povertà, che la costrinse a vivere per sempre ai limiti della sopravvivenza.
Tuttavia la Werefkin e Jawlensky, con rinnovata forza e tenacia, ripresero a dipingere e ristabilirono i contatti con i vecchi amici: a Ginevra con Ferdinand Hodler; a Morges con Stravinsky, che stava componendo la musica per i Balletti Russi di Sergej Diaghilev; a Losanna con Nijinsky (dopo che la Werefkin, grazie ai suoi contatti politici, si era adoperata per farlo uscire dall’Ungheria, dove era stato internato)26 e con i Sacharoff, che incontrerà nuovamente a Zurigo, Lugano, Ascona (sarà la loro testimone di nozze prima della tournée in America, e li aiuterà nell’organizzazione della loro tournée in Svizzera nel 1920);27 infine, con i coniugi Klee.28
La guerra segnò nella vita e nell’arte di Jawlensky una profonda cesura: «Qualcosa dentro di me mi impediva di fare i quadri colorati e sensuali d’allora. Il dolore aveva cambiato la mia anima e ciò mi obbligava a trovare nuove forme e colori per esprimere ciò da cui la mia anima era mossa».29 Questo travaglio lo condusse a dipingere le sue prime Variazioni su un tema paesaggistico, dove l’estrema riduzione degli elementi oggettivi (albero, montagna, strada, lago, cielo), schematizzati in forme sempre più geometriche e astratte, accentua quel senso arcano di alterità, specchio di un’anima ferita che cerca consolazione in forme sempre più icastiche e perentorie, che lo porteranno – affrancato dal sensualismo vivace dei suoi colori – alla realizzazione delle semplici, seriali, croci buie e vibranti che caratterizzano la sua tarda produzione.
Altrettanto si può riscontrare nell’arte della Werefkin, sebbene quest’istanza astratta, questo processo di “spiritualizzazione”, siano di segno opposto e si realizzino in un’enfatizzazione della forma in moti vorticosi, vitalistici, che coincidono con un recupero di quesiti più esistenziali e terreni; i quali poi si articoleranno, dall’arrivo a Saint-Prex fino agli ultimi anni di Ascona, lungo due direttrici, l’una più “visionaria” e simbolica, l’altra più “descrittiva” e cautamente “aneddotica”.
Già La follia del 1916, chiaro riferimento alle “follie” della guerra, che sembra alludere all’atmosfera del Delacroix di La libertà che guida il popolo, presenta quell’accentuazione di presagio ultraterreno e apocalittico, dove tutto è vortice di colore che inquieta: tra una schiera rossa di cavallerizze agguerrite, che tengono alto il bianco vessillo del volto di Cristo, un sole infuocato accende una bandiera rossa di un’anonima armata nera, e tutto parla di morte. Così altre opere, dal 1914 fino agli anni asconesi, si caricano sempre più di un senso arcano: il paesaggio, sempre più visionario, si trasforma in vortici di colore percorsi da energie dal presagio occulto o chiaroveggente, come si riscontra in Turbine di neve del 1915, Notte fantastica e Vortice d’amore del 1917 (cat. 36), Fuochi fatui del 1919 (cat. 35), Sposa mystica del 1924 circa, Ave Maria del 1927 (cat. 49), Via eterna del 1929, Il duello del 1933; mentre opere incentrate su problematiche più esistenziali ci raccontano le pene della vita, tra colori in rotazione e pause dalla suggestione drammatica, in modo tale da renderle percepibili quasi fisicamente, grazie alla maestria sintattica del costruire: si pensi a opere come La pena (cat. 29) e Il cenciaiolo del 1917 (cat. 31), Le vergini folli del 1921 (cat. 38), La grande luna (cat. 39) e Pescatore nella tempesta del 1923 (cat. 43), Il misfatto del 1927-1930 (cat. 40), Il vincitore del 1929 circa e Gli abbandonati del 1920-1930 (cat. 37). Poetica questa che con il passare degli anni non abbandonerà più, che approfondirà in modo sempre più personale e originale e che si unirà a quella tendenza più “descrittiva”, rivolta verso quel rinnovato sentimento umanitario, più attinente alle questioni del quotidiano, che si può cautamente leggere in opere come La famiglia del 1910 (?, cat. 24), La barca n. 116 e La tarda età della vita del 1922, Turno di notte (cat. 44) e Vivi e morti del 1924, Le maschere del villaggio-Carnevale del 1925, La miniera del 1926 circa (cat. 45), La vita alle spalle del 1928, Il postino del 1929, La città dolente del 1930 circa (cat. 50).30
A sostegno di questa tesi emerge, dai suoi “quaderni di lettura”,31 che tra il 1915 e il 1917 la pittrice legge testi come Les Messes noires dei dottori Caufeynon e Jaf (pseudonimo di Jean Fauconney),32 dai quali trae spunto per interrogarsi sulle più diverse esperienze, dalla gnosi al culto di Bacco, dal manicheismo all’anabattismo, dai Templari ai luciferiani, fino agli adoratori di Cagliostro; o come La Vertu suprême di Sâr Péladan, rimanendone entusiasta («Sar Merodae [sic] il grande maestro dei Rosacroce, che ha ammesso l’amore libero … come una vocazione, l’amore senza procreazione perché quelli che producono con lo spirito non devono produrre anche con il corpo») e giudicandolo «un miscuglio di scene voluttuose e di vibranti appelli all’idealità. Un libro pieno di cose profonde e spirituali».33 Ma legge anche romanzi francesi che in genere rientrano nella corrente parnassiana o che, in ogni caso, si oppongono al naturalismo di Zola (Anatole France, Claude Farrère, Théophile Gautier, Catulle Mendès ecc.); queste letture, insieme ai romanzi di Henry Bordeaux Le Pays natal e La Maison (definiti dalla critica come tipici “romanzi regionalisti”, poiché si interessano ai valori della famiglia, del paese natio, della tradizione), mostrano la pittrice particolarmente interessata a riflettere sul valore dei sentimenti umani (le speranze, gli ideali, gli affetti familiari ecc.), al punto di giungere persino a identificarsi nei protagonisti dei racconti che legge, come nel caso dei romanzi di Bordeaux.34
Significativamente, questi due poli della sua arte più tarda si rifletteranno ad Ascona, dove la pittrice, attivissima ed impegnata culturalmente fino agli ultimi anni della sua vita, da un lato si interesserà alla vita quotidiana del piccolo borgo (tanto da essere soprannominata «nonna»), e dall’altro – ai piedi del famoso Monte Verità – si potrà abbandonare al mondo del sogno, degli ideali, delle visioni mistiche.
Nel frattempo, mentre la sua vita familiare diventava sempre più insostenibile anche per la mancanza di denaro, ed Emmy Scheyer andava sostituendosi a lei nel promuovere l’arte di Jawlensky, la Werefkin intrecciava amicizie durature con lo scrittore espressionista Iwan Goll e sua moglie Claire.35 Erano i giorni difficili e pieni di preoccupazioni che videro lo zio di Marianne, Iwan Longinowitsch Goremykin, primo ministro dello zar, ucciso dalla Rivoluzione, e i fratelli e i parenti rischiare la stessa fine.
Nel 1916, quando Han Coray, il futuro gallerista dei daidaisti, viene a sapere dal comune amico Louis Moillet della loro presenza a Saint-Prex e li invita a esporre alla mostra inaugurale delle sue gallerie a Basilea e a Zurigo,36 Werefkin e Jawlensky entrano a far parte dell’ambiente artistico e culturale zurighese, dove incontrano vecchi amici (i Sacharoff, Walter Helbig, Mary Wigman, Else Lasker-Schüler), stringono nuove amicizie (con Ferruccio Busoni, Wilhelm Lehmbruck, Rainer Maria Rilke, Otto e Adya van Rees, forse Gordon McCouch, che hanno già avuto, o avranno, tutti a che fare con Ascona), e assistono alla nascita del movimento Dada.
Grazie a questi contatti, nel clima internazionale delle serate dadaiste, va individuata la strada che porterà Jawlensky e Werefkin, e gran parte di questi artisti, intellettuali ed esiliati politici, a stringere o rinnovare rapporti con Ascona, sotto l’influsso dell’esperienza di Monte Verità.37
Basti considerare che le danzatrici intervenute alle serate dadaiste non solo avevano intrecciato relazioni sentimentali con gli artisti (Emmy Hennings con Hugo Ball, Sophie Taeuber con Hans Arp, Maja Kruscek con Tristan Tzara, poi con George Janco, fratello di Marcel, e Hans Richter), ma facevano quasi tutte parte – con Mary Wigman, Suzanne Perrottet e Käthe Wulff – della scuola di danza che l’ungherese Rudolf von Laban aveva trasferito sul Monte Verità nel 1913;38 scuola che in seguito, integrandosi con la “cooperativa vegetaliana Monte Verità”, avrebbe contribuito alla formazione della Scuola d’Arte. La comunità, dopo intensi anni di sperimentazione tra anarchia, teosofia e psicanalisi, proprio nel 1917 stava raggiungendo la sua massima popolarità con il “Congresso Cooperativo Anazionale della Confraternita degli Illuminati Ermetici – Ordine dei Templari di Oriente”, che Theodor Reuss in persona (capo spirituale dell’ordine) volle tenere sul Monte; e con lo spettacolo Il Canto al Sole della scuola di danza di Rudolf von Laban a celebrare, con danze e fiaccolate, in pieno conflitto mondiale, l’inno al Sole, vero e proprio rituale catartico che avrebbe dovuto rinnovare e rifondare il mondo intero.
Non si può pertanto continuare a sostenere, come unica motivazione, che la Werefkin e Jawlensky avessero deciso di trasferirsi ad Ascona nel 1918 perché «Jawlensky era ammalato di influenza e il clima mite del Sud gli sarebbe stato di giovamento», quando (stando alle parole dell’amica comune Claire Goll) ad Ascona a causa dell’epidemia influenzale «la gente moriva come le mosche».39
In altre parole ad Ascona, dove proprio questi vecchi e nuovi amici intrattenevano relazioni o vivevano, ebbero la certezza di trovare un ambiente favorevole ad accoglierli: lì non solo la vita era meno cara, e il clima mite, ma si era certi di trovare amici con i quali condividere vita e arte, protetti idealmente da una storia ricca di fermenti alternativi, consacrata dalla fama di Monte Verità. Una storia con la quale il pensiero estetico e filosofico della Werefkin ha così tante tangenze da essere quasi emblematica: la comune opposizione al pensiero positivista, e la ricerca ansiosa di una nuova forma di vita nella quale recuperare la dimensione spirituale come alternativa a quella industrializzata e massificante, mediata dall’influsso delle varie declinazioni delle correnti occulte e teosofiche.
Ad Ascona, questa rete di amicizie permise alla Werefkin di avviare una lunga attività espositiva che, se non le diede la possibilità di vivere dignitosamente solo della sua arte, la inserì comunque a pieno titolo nelle iniziative artistiche delle più importanti gallerie svizzere dell’epoca (Coray a Basilea e Zurigo, Moos a Ginevra, il Kunstsalon Wolfsberg a Zurigo), e la mise in relazione con le principali associazioni degli artisti svizzeri, tra cui la Società pittori, scultori e architetti svizzeri (della quale fu sicuramente membro dal 1925), e già dal 1919 la Zürcher Kunstgesellschaft (grazie alla quale fu presente dal 1920 al 1938 nelle esposizioni del Kunsthaus di Zurigo). Seguiranno le amicizie, ricche di stima e riconoscenza, con il dottor Hans Trog (redattore della Neue Zürcher Zeitung di Zurigo), che nel 1925 le pubblicherà il diario di viaggio in Italia; con Bruno Goetz, che nel 1927 le dedicherà il romanzo Das göttliche Gesicht conferendole il ruolo da protagonista; con Friedrich Glauser che, nel 1931, nel suo Dada, Ascona e altri ricordi, consacrerà la pittrice a «signora» e «nonna» di Ascona che «portava il costume del paese e parlava la lingua del paese, come se la sua patria fosse stata il Canton Ticino e non la lontana terra degli sciti»; con Hermann Hesse e con Iwan e Claire Goll.40
Nel 1921, non senza difficoltà, Jawlensky chiude la sua relazione quasi trentennale con la Werefkin per trasferirsi a Wiesbaden, dove sposerà Helene Nesnakomoff, legittimando il figlio Andreas.41 Prima di questa data, nel 1919 sono ancora presenti insieme all’esposizione “Maler von Ascona” al Kunstsalon Wolfsberg di Zurigo; nel 1920 alla XII Biennale di Venezia, attirandosi le critiche sferzanti di Francesco Sapori; nel 1920-1921 all’Exposition internationale d’art moderne al Bâtiment Électoral di Ginevra; infine, nel 1921, alla mostra retrospettiva “Zehn Jahre Sturm” alla Galerie Der Sturm di Berlino.42
Intanto, nel 1920, la Werefkin ottenne la sua prima esposizione personale in Svizzera, alla Galerie Moos di Ginevra, a conferma dell’interesse di questa galleria per la sua opera e per l’arte moderna, interesse già evidenziato nel sostegno dato al gruppo svizzero francese Le Falot tra il 1915 e il 1917. A questo primo pieno riconoscimento seguirà, nel 1925, la sua prima mostra personale in Germania, realizzata da Rudolf Probst negli spazi della galleria Neue Kunst Fides di Dresda, che la consacrerà tra gli artisti più rivoluzionari del Novecento.43
Ferita nel profondo per l’abbandono di Jawlensky, Werefkin non si perse d’animo e, consapevole della sua nuova condizione sociale, riuscì a tessere stretti legami con la popolazione di Ascona, che la seppe aiutare nei momenti più difficili e alla quale riservò – nella vita come nell’opera – la massima stima e considerazione. È questo il contesto di quel rinnovamento delle tematiche umanitarie ed esistenziali dell’opera tarda della pittrice che, pur attraverso una sintassi più descrittiva, esprime sempre quell’atmosfera diffusa e avvolgente, ricca di presagi catastrofici o di riscatti ultraterreni, che altro non è che quell’atto d’amore verso i “semplici” dei quali sente di condividere il destino: «Ascona mi ha insegnato a non disprezzare niente di ciò che è umano, ad amare allo stesso modo l’immensa fortuna della creatività e la miseria dell’esistenza materiale, e a portarle in me come un tesoro dell’anima».44
È in quest’ottica che vanno viste opere come La tarda età della vita del 1922, Turno di notte e Vivi e morti del 1924, La città dolente del 1930 circa, La vita alle spalle del 1928, dove la riflessione sugli aspetti più contingenti e immediati della realtà quotidiana – lavoro nei campi e nelle fabbriche, resoconti esistenziali, feste, incontri – si accende di colori forti, contrastati, che sembrano richiamare moniti sociali e sentimenti di solidarietà e fratellanza. Queste sono opere che non contraddicono ma integrano quelle più “estatiche”, che nondimeno – nel rapimento di montagne tentacolari, dai presagi catastrofici – rivelano un tragico malessere esistenziale che anela, oltre l’apparenza fenomenica del mondo, una riconciliazione eternizzante, estatica e paradisiaca, in cui sentirsi panteisticamente uniti al flusso della vita.
Che poi opere come Il monaco del 1920-1930, Sposa mystica del 1924 circa, Ave Maria del 1927 sembrino affondare le loro radici in una lettura più cristiano-ortodossa non deve trarre in inganno, poiché esse, anche attraverso un’iconografia riconoscibile, esprimono sempre quello stesso anelare mistico e panteistico ricco di speranze edificanti, essenza e origine di tutta la produzione artistica della Werefkin.
Le parole dell’artista sono in questo senso illuminanti: «È passando attraverso sofferenze personali che noi artisti dobbiamo rappacificarci con la vita e accettarla in tutte le sue forme. Elevandoci al di sopra delle macerie della nostra vita, per gli altri dobbiamo creare il tempio della fede e della speranza, a questo siamo destinati. Al di fuori di questo, l’arte è soltanto un gioco. L’arte affonda nel cuore umano e ad esso è destinato. Ciò che dobbiamo risolvere come una dissonanza in musica non sono le nostre sofferenze personali, ma la somma di tutte le sofferenze umane. Dobbiamo soffrire per tutti e con tutti; gli altri non devono soffrire con noi, ma ritrovare nelle nostre opere la fede, l’amore, la speranza. Questa è la mia strada: è una strada scoscesa ma dà senso alla vita. L’arte, così intesa, è veramente tutto: è una missione».45
In Il monaco, Sposa mystica e Ave Maria, la pittrice ha inoltre consacrato, nell’immagine del “santo”, l’amico cantante e musicista Alfred Ernst Aye che, incontrato ad Ascona nell’estate del 1920, diventerà il suo compagno platonico (Aye era omosessuale) al quale consacrare la sua vita e le sue aspirazioni. Con lui intraprenderà nel 1925 un viaggio nella mitica Italia, che consoliderà il loro legame fatto di aiuti reciproci: lei cercherà appoggio tra i conoscenti luganesi per farlo ingaggiare come cantante in una tournée svizzera, mentre lui si adopererà, presso gallerie e musei in Germania, nella speranza di promuovere l’arte dell’amica.46
Attorno agli anni venti gli artisti che accorrevano ad Ascona erano sempre più numerosi, e per quelli che vivevano solo della propria arte le occasioni per esporre diventavano sempre più rare. È in questo contesto che Werefkin aderisce con entusiasmo alla proposta del giovane Ernst Kempter di fondare un museo comunale, del quale assume la direzione iniziando a donare alcune opere sue (La famiglia, Melodramma, Schizzo di Ascona, Le Jardin du Bon Dieu) e dei suoi amici (Casa rossa di Paul Klee, lo Studio per la raccolta della frutta di Cuno Amiet e La famiglia di Arthur Segal), adoperandosi affinché anche gli altri artisti facessero lo stesso.47 Nel piccolo catalogo del Museo comunale di Ascona si annoverano, già nel 1922, più di sessanta artisti di tutte le nazionalità, segno che il Ticino, nel dopoguerra, era diventato meta privilegiata per gli artisti europei, anche grazie al lavoro di promozione della Werefkin.48
Che gli artisti ad Ascona fossero tanti, e che fosse sempre più difficile distinguersi dalla massa, è tra le motivazioni più immediate della fondazione, nel 1924, dell’associazione artistica Der Grosse Bär (L’Orsa Maggiore), a opera della Werefkin e degli amici artisti Walter Helbig, Ernst Frick, Albert Kohler, Gordon McCouch, Otto Niemeyer-Holstein, Otto van Rees, allo scopo non solo di far conoscere il Ticino attraverso la diffusione della loro opera in Svizzera e all’estero, ma anche di offrirsi reciproco sostegno e protezione: significativo fu il rifiuto della Werefkin, pur in gravi condizioni economiche e di salute, di esporre nel 1932 al Kunstsalon Wolfsberg di Zurigo che le proponeva una mostra personale, perché non intendeva presentarla senza il gruppo dell’Orsa Maggiore.49
Ascona, con l’umanità dei suoi abitanti, la forza dei colori della sua natura, i suoi artisti e la sua storia, ha permesso alla pittrice di trovare ciò che cercava. Nel 1928, dieci anni dopo il suo arrivo in Ticino, l’artista scriveva: «Oggi la Madonna Nera non è più un posto malfamato, frequentato dai vampiri … In grigie, tetre giornate autunnali, quando le rocce grigio-nere tutt’intorno sembravano guardarti come fantasmi, anche a me è capitato che degli uccelli neri mi passassero accanto in volo, silenziosi. Ma poiché non temo né leoni né vampiri, lì tra le rocce, sola e abbandonata, ho passato una notte di Natale; ero in uno di quegli stati d’animo in cui non ha importanza se dal cielo cadono le stelle o cocomeri … Ma Dio è grande, e grande la sua amata figlia: Ascona … Abbiamo festeggiato il Natale in due: il mondo creato dall’Onnipotente ed io, ci siamo dati la mano giurandoci fedeltà. Alle luci dell’alba, quando, per dirla con Dante, le prime cime recavano mantelli dorati sulle spalle, sono scesa ad Ascona, ero un’altra persona, la nonna di Ascona, piena di amore e capace di perdonare. A questo servono i fantasmi e i vampiri di qui. Non è meravigliosa Ascona?».50
Ad Ascona Marianne Werefkin aveva trovato un luogo in cui la distanza tra il reale e l’ideale faceva tutt’uno con la sua anima d’artista.
1 Discussione sul simbolo, il segno e il suo significato nell’arte mistica, conferenza tenuta da Marianne Werefkin a Vilnius intorno al 1910, all’epoca in cui era in corrispondenza con il poeta e teorico del simbolismo Georg Choulkov; in questo volume si pubblica per la prima volta la traduzione italiana del testo. Si veda infra, pp. 110-112: 112.
2 Questo testo è la versione riveduta e aggiornata di alcuni contributi di chi scrive sulla figura della Werefkin. Si veda M. Folini, Lettres à un Inconnu (1901-1905). Considérations esthétiques de Werefkin, in Marianne von Werefkin. Œuvres peintes 1907-1936, catalogo della mostra (Gingins, Fondation Neumann, 1996), a cura di N. Brögmann, [testo bilingue tedesco/francese], Gingins 1996, pp. 81-91; Ead., Le fonti letterarie negli scritti della pittrice Marianne Werefkin attraverso l’analisi critica delle sue letture (in tedesco), in Marianne Werefkin. Die Farbe beisst mich ans Hertz, catalogo della mostra (Bonn, August-Macke-Haus, 1999-2000), a cura di B. Weidle, Bonn 1999, pp. 89-99; Ead., Marianne Werefkin: riscoprirla attraverso le fonti, in Marianne Werefkin. Il fervore della visione, catalogo della mostra (Reggio Emilia, Palazzo Magnani, 2001), a cura di S. Parmiggiani, Milano 2001, pp. 43-57; Ead., L’espressionismo mistico di Marianne Werefkin, in Arte in Ticino 1803 -2003. Il confronto con la modernità: 1914-1953, catalogo della mostra (Lugano, Museo di Belle Arti, 2003-2004), a cura di R. Chiappini, Bellinzona 2003, pp. 257-275.
3 M. Werefkin, Lettres à un Inconnu, 3 voll. (1901-1905), III, 1904 (FMW 19L-3-558/1-274), p. 24. Si cita dal testo originale conservato nel Fondo Marianne Werefkin – d’ora in poi FMW – presso il Museo comunale d’arte moderna di Ascona (ma cfr. anche M. Werefkin, Lettres à un Inconnu, a cura di G. Dufour-Kowalska, Paris 1999, rist. 2005).
4 Il movimento degli Ambulanti (dal nome russo Peredvizˇhniki, “coloro che vanno oltre”) fu la prima associazione artistica che, alla fine dell’Ottocento, si era dichiaratamente distaccata dal passato accademico. Essa fu la variante artistica del movimento illuminista popolare: i pittori si fecero un dovere morale di portare a scopo pedagogico, attraverso le esposizioni itineranti, le loro opere verso la provincia e verso il popolo. Sull’argomento si veda Arte Russa e Sovietica 1870-1914, catalogo della mostra (Torino, Lingotto, 1989), a cura di G. Carandente, Milano 1989 (con un ‘ampia bibliografia).
5 Nelle vicinanze di Mosca, ad Abramcevo, si era formato verso il 1875 il famoso “circolo di Abramcevo” intorno alla figura carismatica del grande mecenate e artista Savva Ivanovitch Mamontov che a Roma, nel 1872, aveva deciso insieme ai suoi connazionali Wassilij Polenov, Marc Antokolsky e Adrian Prachov di fondare in Russia una colonia di artisti. Questi, insieme alla vedova del musicista Serov, a suo figlio Valentin, a Ilja Repin e ai suoi figli e ai figli dello stesso Mamontov vissero un’esperienza artistica originale, grazie a quell’entusiasmo corale, a quella interscambiabilità di ruoli ispirata dall’idea di “sintesi delle arti”, dove si incontravano gli uomini e le idee della vecchia generazione degli Ambulanti con quelle della giovane generazione, rappresentata tra gli altri da K. Korovin, V. Serov, M. Vrubel, V. Vasnecov, portatori delle nuove istanze “moderniste” e “simboliste”, e con le idee e i movimenti europei (oltre che con la tradizione russa popolare). L’esperienza di Abramcevo informò molto di sé i laboratori di Talaskino e il gruppo del Mondo dell’Arte alla fine dell’Ottocento.
6 Borissov-Moussatov potrebbe essere stato uno dei tramiti fra il gruppo dei russi creatosi a Monaco alla fine dell’Ottocento e il circolo dei Benois a Parigi (che avrebbe anticipato la nascita del Mondo dell’Arte), poi – come collaboratore della rivista «Viessy» (“La Bilancia”) – con il cenacolo dei letterati simbolisti russi (Bely, Balmond, Merezˇkovskij…), e ancora con il gruppo della Rosa Scarlatta del 1904, anticipatore di quello programmaticamente simbolista della Rosa Blu del 1907. Si vedano V. Marcadé, Le renouveau de l’art pictural russe 1863-1914, Lausanne 1971 (parzialmente riprodotto, tradotto in italiano, infra, pp. 105-106); J. E. Bowlt, Esoteric Culture and Russian Society, in The Spiritual in Art: Abstract Painting 1890-1985, catalogo della mostra (Los Angeles, Los Angeles County Museum of Art, 1986-1987; Chicago, The Museum of Contemporary Art-L’Aia, Gemeentemuseum, 1987), a cura di M. Tuchman, New York 1986, pp. 165-183.
7 Per le tangenze del pensiero artistico e delle urgenze esistenziali-filosofiche dell’artista con l’ambiente del simbolismo letterario russo, si vedano J. Hahl-Koch, Marianne Werefkin und der russische Symbolismus. Studien zur Ästhetik und Kunsttheorie, München 1967 (parzialmente riprodotto, tradotto in italiano, infra, pp. 107-108); J. E. Bowlt, “Pomeriggio domenicale”: Marianne Werefkin e l’Età dell’Argento russa, in Marianne Werefkin 2001, cit., pp. 59-69; L. Laucˇkaite˙ Surgailiene˙, [Marianne Werefkin. La vita nell’arte; titolo e testo in russo], Vilnius 1992, con la pubblicazione di diverse lettere della Werefkin che attestano la diretta conoscenza di rappresentati del Simbolismo, artistico e letterario, quali Bakst, Braz, Balmont, Andraiev, Mereikovsky, Filosov ecc.
8 Di particolare interesse, e tema di alcuni contributi di chi scrive, sono i testi ai quali Werefkin, nei precoci anni attorno al 1890, dedicò particolare attenzione. Le letture relative a studi di psicologia e fisiologia applicata ruotanti attorno alle dinamiche dell’inconscio, con uno speciale interesse per i meccanismi di “suggestione”, rivelano quanto l’artista fosse interessata a dare fondamento scientifico al proprio linguaggio artistico, per poterlo affrancare dalla rappresentazione mimetica della realtà. Si veda M. Folini, in Marianne Werefkin 2001, cit.
9 Per le motivazioni storico-filosofiche sottese alla sua radicale scelta di smettere di dipingere, si veda il saggio di N. Misler, “Come salvare Salomè?” Marianne Werefkin e la danza, in Marianne Werefkin 2001, cit., pp. 77-85 (parzialmente riprodotto infra, pp. 104-105). Per la durata degli anni di astensione dalla pittura, si veda l’articolata nota 3 del mio L’espressionismo mistico, cit., in Arte in Ticino 2003, p. 340.
10 In merito alla relazione artistica e sentimentale di Werefkin e Jawlensky, si veda la particolare lettura in chiave filosofica proposta da G. Dufour-Kowalska, Marianne Werefkin e Alexej Jawlensky: una stagione all’inferno, in Marianne Werefkin 2001, cit., pp. 87-99.
11 Nicoletta Misler, sul tema dell’androgino ricorrente nell’arte della pittrice, suggerisce un possibile collegamento con la diffusione delle idee psicanalitiche di Otto Gross (1877-1920), animatore loquace del Caffè Stephan, nonché di quelle teosofiche di Rudolf Steiner, ritenendole riferimenti importanti collegati alla nascita dell’Espressionismo a Monaco; per il Ticino, esse assumono altrettanto significato, dal momento che le si ritroveranno tra le diverse sperimentazioni utopiche di Monte Verità ad Ascona (dove Werefkin vivrà per vent’anni): l’una capeggiata dallo stesso Otto Gross, l’altra dai fondatori Ida Hofmann e Henri Oendenkoven, seguaci della teosofa Melene Petrovna Blavatsky; cfr. N. Misler, in Marianne Werefkin 2001, cit., p. 82.
12 Idee note fin dal 1891 attraverso le sue letture, ma desumibili anche dalle teorie sull’ornato degli ambienti Jugendstil e dal romanticismo tedesco, con Goethe e Wagner in primis, in particolare per l’idea di Gesamtkunstwerk (“sintesi delle arti”) di quest’ultimo, alla quale si collega quella sinestetica presente già nel Simbolismo russo e francese. Già nel 1903 l’artista, parlando dell’arte del berlinese Hans Reinhold Lichtenberger, diceva: «Egli non comprende il colore che nel suo cangiantismo. Non comprende il colore nel suo semplice valore … Ma la necessità della sua natura tedesca di classificare tutto … fa sì che più di una cosa gli sfugga. Egli vede in Toulouse-Lautrec, in Zuloga, solo dei disegnatori. Non sente che per loro il disegno è solo una base per il colore. Che, in loro, il colore ha il suo valore intrinseco… È il verde in tutta la sua gamma accanto a una gamma di violetto … Lichtenberger vede il colore attraverso l’aria, l’illuminazione … Lo vede da artista… Ma non è che un punto di vista come lo è quello di vederlo in se stesso. Tutt’altra cosa in Kubin, austriaco quest’ultimo … La sua arte è forte, personale a livello supremo. Egli sa trovare una forma imprevista a delle idee le più straordinarie»: Werefkin, Lettres, cit., II, 1903 (FMW 19L-2-557/1-388), pp. 120-121.
13 Già Clemens Weiler, il primo studioso che ha analizzato le Lettres à un Inconnu, ha sottolineato la stretta familiarità tra le idee estetiche della Werefkin e quelle di Lo spirituale nell’arte di Kandinsky (cfr. M. Werefkin, Briefe an einen Unbekannten 1901-1905, a cura di C. Weiler, Köln 1960). A ciò sono seguite le considerazioni di Valentine Marcadé, la quale afferma che per essere persuasi dell’influsso di Werefkin sul pensiero di Kandisnky espresso in Lo spirituale nell’arte basti confrontare alcuni passaggi delle Lettres à un Inconnu, per esempio là dove la pittrice sostiene – con Van Gogh – che i due “non-colori”, il bianco e il nero, siano colori autonomi al pari degli altri, o i brani sul ruolo costruttivo dei colori nell’arte di Gauguin (cfr. Marcadé 1971, cit, p. 144). Le citazioni su Van Gogh e Gauguin si trovano in Werefkin, Lettres, cit., III, 1905 (FMW 19L-3-558/1-274), pp. 102-103 (Van Gogh) e 56-59 e 188-189 (Gauguin).
14 Werefkin, Lettres, cit., III, 1905 (FMW 19L-3-558/1-274), pp. 123-124 sgg.
15 Per la concezione dell’arte come promulgatrice di nuovi valori estetici ed etici, si veda Werefkin, Lettres, cit., III, 1905 (FMW 19L-3-558/1-274), p. 101. Per la concezione dell’arte come sacerdozio si veda il capitolo L’art consideré comme un apostolat in Marcadé 1971, cit., p. 32.
16 Werefkin, Discussione, cit., si veda infra, p. 112.
17 Werefkin, Lettres, cit., III, 1905 (FMW 19L-3-558/1-274), p. 126.
18 Citato in B. Fäthke, Marianne Werefkin. Leben und Werk (1860-1938), pubblicato in occasione della mostra “Marianne Werefkin e i suoi amici” (Ascona, Museo comunale d’arte moderna, 1988; Monaco, Villa Stuck 1988-1989), München 1988; trad. it. Ascona 1988, p. 70. Il documento originale si trova nell’archivio Werefkin conservato presso lo stesso Fäthke a Wiesbaden.
19 Per un quadro esaustivo delle vicende che hanno condotto alla scissione della NKVM e alla nascita del Blaue Reiter, e sulla posizione della Werefkin a favore dell’arte astratta di Kandinsky, rifiutata invece dalla parte più conservativa della NKVM, si veda B. Fäthke, Werefkin la “Blaue Reiterin”, in Marianne Werefkin 2001, cit., pp. 29-41: 37-38 e Id., Marianne Werefkin, München 2001, ed. it. München 2003, pp. 122-124, 163-165, 172-183.
20 Per il ruolo di primo piano svolto dalla Werefkin in questo contesto, si veda B. Salmen, Introduzione, in Marianne Werefkin a Murnau. Arte e teoria, amici e maestri, catalogo della mostra (Ascona, Museo comunale d’arte, 2003), a cura di M. Albisetti e M. Folini, Ascona 2003, pp. 13-15 (parzialmente riprodotto infra, pp. 100-102).
21 Riscontri con Vladimir Sergeevicˇ Solov’ëv e la teosofia si ritrovano in diversi passaggi delle sue Lettres à un Inconnu; il brano seguente suggerisce una chiave di lettura del disegno Le anime folli: «E poi ci sono le anime folli. Come il procedere cadenzato degli astri celesti è attraversato dalla corsa delle comete, così il procedere tranquillo dell’umanità, il corteo trionfante dei grandi, le regioni luminose dei genii sono attraversati dalla corsa delle anime ardenti, ultime gocce del genio, che si precipitano dal fondo dell’umanità direttamente verso Dio. Esse vengono a “struggersi” alla sua luce per ricadere là da dove provengono. Esse non producono nulla, esse non spiegano niente, esse amano … Ma sono esse che recano la vera leggenda di Dio all’umanità che lo teme … La loro strada è il cammino dell’amore: esse amano Dio verso cui tendono, esse amano l’umanità da cui provengono. Qual è il loro cammino? Esse lo ignorano, ma ovunque esse passano un raggio celeste è passato, il riflesso di ciò che esse hanno visto per un istante. E l’umanità nella sua ombra, e i genii nella loro gloria e Dio nella sua grandezza, per un istante si fanno uno: l’amore li unisce»: Werefkin, Lettres, cit., III, 1905 (FMW 19L-3-558/1-274), pp. 150-158. Il disegno Le anime folli si trova nel taccuino degli schizzi FMW 52-1-688c1/42-43. Un altro brano è il seguente: «Dio è il bene e il male all’unisono, nella compensazione dell’uno nell’altro, è l’armonia, l’accordo del bene con il male. Al di fuori di Dio, il bene e il male non si uniscono mai … poiché egli è allo stesso tempo il male che compensa il bene … Amo Satana e le sue opere, perché è il cammino verso Dio … Dio è la speranza di coloro che hanno conosciuto Satana, in lui essi trovano il bene che sostituirà il male da essi arrecato»: Werefkin, Lettres, cit., III, 1905 (FMW 19L-3-558/1-274), pp. 40-41. Si veda anche C. Belloli, Il contributo russo alle avanguarde plastiche, catalogo della mostra (Milano-Roma, Galleria del Levante), 1964, p. 10. Secondo Bernd Fäthke, la Werefkin seguì le lezioni di Solov’ëv a San Pietroburgo (Fäthke 2001, ed. it. 2003, cit., p. 188).
22 Per un’analisi particolarmente appropriata dell’opera Pomeriggio domenicale, si rimanda a J. E. Bowlt, in Marianne Werefkin 2001, cit.
23 Nel 1908 è presente alla mostra della Secessione a Berlino e al Salon di San Pietroburgo; nel 1909-1910 alla prima esposizione internazionale di Odessa organizzata da Vladimir Izdebski (proseguita a Kiev, Riga, Nikolaïev e San Pietroburgo); nel 1910-1911 partecipa alla seconda esposizione internazionale di Odessa e a quella moscovita del Fante di Quadri organizzata dai fratelli Burljuk, da Larionov e Goncˇarova; nel 1911 espone alla mostra della Neue Secession a Berlino. Poi, nel 1912 – dopo le “scandalose” esposizioni della NKVM (1909, 1910, 1912) in Germania e all’estero (tra cui al Kunsthaus di Zurigo nel 1912), e dopo la famosa scissione di Kandinsky e Franz Marc per fondare il Blaue Reiter – anche Werefkin e Jawlensky lasciano la NKVM e partecipano all’esposizione del Blaue Reiter alla galleria berlinese Der Sturm di Herwarth Walden. Nel 1913 la Werefkin partecipa a diverse collettive (Brema, Lipsia, Monaco, Budapest), alla seconda edizione della mostra “Neue Kunst” alla Galleria Goltz di Monaco, e all’”Erster Deutscher Herbstsalon” alla Galleria Der Sturm; poi, nel 1914, espone a Dresda, alla Arnold Galerie, a Helsingfors, Trondheim, Göteborg e a Malmö (mostra organizzata da Oscar Björck).
24 C. Weiler, Alexej Jawlensk: Köpfe, Gesichte, Meditationen, Hanau 1970, pp. 119 sgg.
25 Alexander Dimitry Chruschtschoff conosce Werefkin, Jawlensky e Kandinsky a Monaco verso il 1898, quando stava svolgendo delle ricerche sulla tecnica a tempera nella pittura antica. Si vedano B. Fäthke, Marianne von Werefkin. Linee, forme e colori, in Marianne Werefkin a Murnau 2003, cit., p. 35 (parzialmente riprodotto infra, pp. 98-99); J. Hahl-Koch, Kandinsky und Kardowsky. Zum Porträt der Maria Krustschoff, «Pantheon», 32, 1974, 4, pp. 382 sgg.
26 La notizia si trova nel quaderno di lettura dedicato alla “bibliografia generale” dove la pittrice commenta il libro di Romola Nijinsky sul marito (letto nel 1936), e afferma di conoscere il famoso danzatore dal 1911 e di essere stata lei a trattare tutta «la storia del rientro di Vasa [Nijinsky] dall’Ungheria in Svizzera» (FMW16L-1-539/1-78).
27 Che la Werefkin abbia aiutato i Sacharoff, nel 1919-1920, nell’organizzazione della loro tournée svizzera, lo si deduce dalla corrispondenza tenuta dalla pittrice con A. Lévi, della Galerie Moos di Ginevra, che le offre piena collaborazione in questo compito. Si veda la lettera di Lévi a Werefkin del 28 agosto 1920 (FMW 1L-3-35). Anche nel carteggio intercorso tra Werefkin e Lily Klee (moglie di Paul) si accenna al fatto. Si veda la lettera di Werefkin a Lily Klee dell’ottobre-novembre 1925 (Berna, Nachlass der Familie Klee).
28 Si veda P. Klee, Diari 1898-1918, trad. it. Milano 1990 (4a ed.), nonché il carteggio intercorso nel 1926 tra Werefkin, Hans Arp, Sophie Taeuber-Arp e Ludwig Hans Neitzel per la vendita di tre opere di Klee di proprietà dell’artista, dove si evidenzia l’affetto e la solidarietà che tutti coloro le hanno dimostrato durante le trattative di vendita; si vedano in particolare la minuta di lettera della Werefkin a Hans Arp, s.d. (FMW 2L-4- 150) e le lettere a lei inirizzate di Sophie Taeuber Arp e Hans Arp, 26 dicembre 1926 (FMW 2L-4-151) e di Ludwig Hans Neitzel, 30 dicembre 1926 (FMW 2L-4-153).
29 Weiler 1970, cit.
30 Che l’arte di Marianne, negli anni di Ascona, procedesse lungo queste due direttive (quella “visionaria” e quella “realistica”) fu sottolineato dagli stessi suoi contemporanei in articoli pubblicati su riviste e quotidiani, mentre più di recente l’ha efficacemente confermato T. Kneubühler, Gli artisti, gli scrittori e il Canton Ticino (dal 1900 a oggi), in Monte Verità. Antropologia locale come contributo alla riscoperta di una topografia sacrale moderna, catalogo della mostra (Ascona, Museo comunale-Isole di Brissago, 1978), a cura di H. Szeemann, Milano 1978, pp.159-161. Si vedano anche E. Bleuler, Marianne von Werefkin, «Das Ideale Heim. Eine Schweizerische Monatsschrift für Kunst und Leben», 1933, 1 (gennaio), pp. 25-27 e U. Amstutz, Die Malerin Marianne von Werefkin in Ascona, «Sie und Er», 18, 1932, pp. 445-447 (queste riviste, di difficile reperibilità, si possono trovare nel FMW, segnate FMW 4L-7-300 e FMW 4L-8-308).
31 I quaderni di lettura conservati nel FMW sono 57, di cui due di “bibliografia generale”. Nel corso di tutta la sua vita Werefkin ha elencato i libri che ha letto, con riassunto e commento nella lingua di edizione, e annotando in ciascun libro il numero di riferimento dei quaderni. Le notizie riportate si riferiscono a uno di questi due quaderni (FMW 14L-2-532).
32 Docteurs Caufeynon et Jaf [J. Fauconnay], Les Messes noires. Le Culte de Satan-Dieu, Paris 1905.
33 Werefkin aveva già letto di Joséphin-Aimé (detto Sâr) Péladan le opere Comment on devient mage (1892) e Comment on devient fée (1893). Che in questi anni torni a leggere Péladan non è segno di curiosità, ma di rinnovato interesse verso il pensiero filosofico dell’autore. Il quaderno in cui si trovano le notizie riportate reca il titolo Philosophie et Morale (FMW 13L-2-528/1-100).
34 A proposito del romanzo La Maison di Henry Bordeaux, che racconta di tradimenti e amori, la pittrice mette in evidenza la comunanza tra questa storia e quella da lei vissuta con Jawlensky, confermando indirettamente che il rapporto sentimentale tra quest’ultimo e Helene Nesnakomoff continuava, e che lei ne soffriva. Si vedano i quaderni di lettura segnati FMW 13L-2-528/1-100 e FMW 12L-4-526/1-198.
35 C. Goll, I. Goll, Meiner Seele Töne: das literarische Dokument eines Lebens zwischen Kunst und Liebe, aufgezeichnet in ihren Briefen, Bern 1978, pp. 16 sgg.
36 Dal carteggio tra la Werefkin, Han Coray e Ludwig Hans Neitzel si apprende che Coray amava molto l’arte della pittrice (le acquisterà un’opera) e che lei, pur se il rapporto con Jawlensky stava precipitando, continuava ad occuparsi della promozione della sua arte: è a lei che si chiede di chiarire il recente approdo all’astrattismo di Jawlensy riscontrabile nelle Variazioni su un tema paesaggistico. Si vedano le lettere di Han Coray a Werefkin, 16 novembre 1916 (FMW 1L-2-23), di Han Coray a Alexej Jawlensky, 16 novembre del 1916 (FMW 1L-2-24), di Ludwig Hans Neitzel a Werefkin, 16 dicembre 1916 e 23 gennaio 1917 (FMW 1L-2-25 e FMW 1L-2-26).
37 Per la storia di Monte Verità, si veda Monte Verità 1978, cit.; Senso della vita e bagni di sole. Esperimenti di vita e arte al Monte Verità, a cura di A. Schwab e C. Lafranchi, Ascona 2001; M. Folini, Il Monte Verità di Ascona, Berna 1998.
38 Per queste notizie si rimanda a H. Richter, Dada: arte e antiarte, ed. it. Milano 1966, pp. 81-87. Infine non va sottovalutato che la Werefkin già a Monaco poteva aver conosciuto Rudolf von Laban e Mary Wigman, sia per il suo interesse per la danza che tramite la sua amicizia con i Sacharoff. Nei taccuini degli schizzi della pittrice si riscontrano molteplici disegni dedicati alla danza e ai ballerini, tra cui Nijinsky, Isadora Duncan, Charlotte Bara e, appunto, Sacharoff.
39 C. Goll, La Poursuite du vent, Paris 1976, p. 72.
40 Si veda F. Glauser, Dada, Ascona e altri ricordi, trad. it Palermo 1991, p. 45. Hermann Hesse fu in contatto con Werefkin fin dal 1915, quando le inviava estratti delle sue novelle pubblicate in giornali svizzeri (FMW 4L-2-255, FMW 4L-2-256, FMW 4L-2-257, FMW 4L-2-258, FMW 4L-2-259, FMW 4L-2-260).
41 Per dati ed eventi biografici relativi al sodalizio con Jawlensky, al sostegno offerto dai coniugi Klee nell’occuparsi dell’abitazione della coppia a Monaco fino al breve viaggio del 1920 per recuperare opere e oggetti ancora lì custoditi, si veda Fäthke 2001, ed. it. 2003, cit., pp. 200-201.
42 Le informazioni sono ricavate da B. Holderegger, S. Lüthi, Der Grosse Bär, in Künstlergruppen in der Schweiz 1910-1936, catalogo della mostra (Aarau, Aargauer Kunsthaus, 1981), a cura di B. Stutzer, [testo bilingue tedesco/francese], Aarau1981, pp. 96-120. Francesco Sapori giudicò le opere di Jawlensky «prodotti d’un cervello in isconquasso»; di quelle delle donne presenti in mostra, compresa la Werefkin, non disse altro che «basterà un sasso, e una croce, col qui giace» (F. Sapori, La dodicesima Esposizione d’arte a Venezia, 1920, Bergamo 1920). Si veda inoltre la lettera di R. Panzoni (direttore amministrativo della Biennale di Venezia) a Marianne, 2 febbraio 1920 (FMW 1L-3-32). Per la mostra retrospettiva alla Galerie Der Sturm di Berlino, si veda V. Pirsich, Der Sturm: eine Monographie, Herzberg 1985, pp. 681-682.
43 Per il gruppo artistico Le Falot, si veda P.-A. Jaccard, Le Falot, in Künstlergruppen 1981, cit., pp. 46-59. Per la mostra monografica alla Galerie Neue Kunst Fides si veda il carteggio tra Rudolf Probst e Werefkin (FMW 2L-4-130, FMW 2L-4-133, FMW 2L-4-134).
44 Citato in Fäthke 2001, ed. it. 2003, cit., p. 202.
45 Ivi, pp. 216-217.
46 Per il viaggio in Italia si veda l’interessante contributo di M. Albisetti Olivotto, “Ausfahrt nach Italien”-” Viaggio in Italia”, in Marianne Werefkin 2001, cit., pp. 101-107.
47 Per la cronistoria del Museo comunale di Ascona, si vedano E. Beretta, Marianne von Werefkin et Ascona, in Marianne von Werefkin 1996, cit., pp. 12-19 (parzialmente riprodotto infra, pp. 19-21, nella versione italiana del testo fornita dall’autore); J. Flach, Ascona gestern und heute, Zürich-Stuttgart 1960. Nel FMW si trova una lettera della Municipalità di Ascona che nel 1930 si rivolge alla pittrice per dar conto delle spese e liquidare gli arretrati di affitto del museo, segno che Marianne ancora se ne stava occupando (FMW 1L-2-11).
48 Si veda M. Folini, Il clima artistico ad Ascona e al Monte Verità, in Arte in Ticino 2003, cit., pp.175-201.
49 Si veda il carteggio con il Kunstsalon Wolfsberg di Zurigo (FMW 2L-2-88, FMW 2L-2-89, FMW 2L-2-90).
50 Il brano si trova in Marianne von Werefkin, 1860-1938: Impressionen von Ascona, a cura di F. Jensen, Ascona 1988. Il manoscritto originale di questo testo, in tedesco e con disegni dell’autrice, è andato disperso in seguito alla vendita delle singole pagine. Il volume fu dedicato dalla pittrice a Hans Trog, redattore della Neue Zürcher Zeitung, che l’ammirava come artista e come scrittrice.
Alla sua “arte dell’emozione” sarà dedicata la mostra “Marianne Werefkin. L’amazzone dell’avanguardia”, ospitata dal Museo di Roma in Trastevere dal 25 novembre 2009 al 14 febbraio 2010 che raccoglie 50 tempere, 12 disegni, 20 libretti di schizzi e un diario. Promossa dal Comune di Roma Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione – Sovraintendenza ai Beni Culturali, dal Comune di Ascona, dal Museo Comunale d’Arte Moderna Ascona e dalla Fondazione Marianne Werefkin Ascona con il Patrocinio dell’Ambasciata Svizzera in Italia e con la collaborazione dell’Istituto Svizzero di Roma, l’esposizione è a cura di Mara Folini e Federica Pirani da un progetto di Maria Paola Fornasiero. Organizzazione e servizi museali di Zètema Progetto Cultura.
Nata da una famiglia dell’alta nobiltà russa – il padre generale della Fortezza di Pietro e Paolo a San Pietroburgo, la madre pittrice e discendente da un’antica stirpe di principi cosacchi – Marianne Werefkin è una delle artiste più interessanti del panorama europeo di inizio Novecento ma è rimasta quasi sconosciuta al pubblico italiano. La sua opera è stata fondamentale, a livello sia teorico che pittorico, per la nascita nel 1909 della “Neue Künstlervereinigung München” (Nuova Associazione degli artisti di Monaco) e di conseguenza del “Blaue Reiter” (Cavaliere Azzurro), ponendo così le basi per la nascita della moderna arte astratta. Un’arte che doveva esprimere soprattutto le emozioni interiori, non la “verità della vita” ma la “vita vera”.
Per lunghi periodi rimane lontana dall’esercizio della pittura: ricomincia, infatti, a dipingere nel 1906, strutturando le forme con l’uso puro del colore e stilizzando le linee senza mai entrare nell’astrazione pura.
La sua produzione artistica può essere distinta in tre momenti significativi. Il primo, riscontrabile negli schizzi in lapis e matite colorate, vede l’influsso delle correnti mistiche e dell’arte di Kubin e Redon. Il secondo, evidente in diverse opere e schizzi del 1907, è influenzato dall’arte francese impressionista e neo-impressionista nell’iconografia (con le scene di città, caffè e spettacoli teatrali) e dall’opera di Gauguin e Nabis nello stile (con l’uso espressivo del colore e delle linee). Ma in questa fase è soprattutto l’arte di Edvard Munch ad avere influenzato fortemente la sua pittura, per l’uso simbolico e antinaturalistico del colore, per la pennellata fluente e per i richiami iconografici. Nel terzo periodo, con le opere degli anni 1908-13, la Werefkin giunge infine al suo stile lirico, espressivo, personale in cui le forme, le linee e i colori sono spesso assorbiti da una tonalità dominante. Infine, con il suo trasferimento in Svizzera, che si conclude ad Ascona dove risiede negli ultimi 20 anni della sua vita, la sua arte da un lato segue una forma più mistica e visionaria, dall’altro esprime i suoi sentimenti più umanitari e vicini alle problematiche umane.
In occasione dell’inaugurazione della mostra, la Fondazione Internazionale Accademia Arco presenterà un concerto della pianista russa Olga Nikišina.
Da Musa ad Angelo
Il percorso errante di Marianne Werefkin
Federica Pirani
Una creatività febbrile, densa, ininterrotta, quasi un diario intimo fatto di immagini, emerge dai taccuini degli schizzi di Marianne Werefkin: oltre 170 quaderni di piccolo formato, dipinti a pastello o a tempera, che accompagnano la ricerca dell’artista dal 1904 agli ultimi anni della sua vita.
Tra le primissime opere, intrise del simbolismo visionario di Kubin e di Redon, è un disegno intitolato Lufwesen (“Creature aeree”, fig. 4). Tre creature ancestrali, dai corpi informi e trasparenti come nuvole e dai volti stilizzati con le bocche semiaperte, si librano nell’aria, volando sopra un placido mare turchese mentre all’orizzonte l’astro nascente infuocato del sole riempie la superficie con i suoi raggi. Si tratta di figure prive di ali ma è probabile che siano angeli. Naturalmente non le figure alate col ricco e convenzionale bagaglio di attributi comune alla più diffusa iconografia, bensì l’immagine che ne veniva offerta agli albori del cristianesimo. Quando nei cubicoli degli ipogei cristiani iniziavano a comparire le prime raffigurazioni della nuova religione, le figure degli angeli non possedevano un’iconografia propria o, per meglio dire, non avevano caratteristiche somatiche o qualità precipue distintive che ne permettessero un’identificazione al di fuori del contesto narrativo.
Ciò che interessava gli anonimi frescanti o gli scultori cristiani era di evidenziare la funzione di messaggero accordata all’angelo dalle Sacre Scritture piuttosto che differenziarlo tramite particolari attributi. Ancora di più l’enigmatica immagine del taccuino sembra trovare ispirazione nelle antiche fonti dell’esegesi biblica – da Filone d’Alessandria a Dionigi l’Areopagita – per i quali, basandosi sull’interpretazione del Salmo 104 che recita: «Tu sospingi i venti come nunzi veloci», l’angelo si identificava con il vento. Creature fatte d’aria, sospese tra la terra e la luce, tra il visibile e l’invisibile, come il vento si sentono ma non si vedono e spesso hanno la sembianza e la consistenza delle nuvole.1 Protettori e castigatori, allo stesso tempo, sono onniscienti e messaggeri del divino.
Werefkin dipinge di un blu denso e cupo una delle tre figure volanti; a contrasto con la luminosità delle altre questa appare opaca, simile alle nubi cariche di pioggia e, secondo i modelli cosmologici, rappresenta l’angelo castigatore.2
Tra il 1901 e il 1905, Werefkin scrisse le Lettres à un Inconnu, testo intriso dalle tematiche spiritualiste e teosofiche, estremamente diffuse nell’ambiente monacese di quegli anni,3 ma altresì caratterizzato da una drammatica alternanza tra il porsi come scritto rivoluzionario sulle nuove teorie estetiche dell’avanguardia, che segneranno il pensiero e la poetica, tra gli altri, di Kandinsky e di Klee, e le intime necessità, tipiche di un diario, di confessare le proprie vicissitudini esistenziali. In un brano del testo, risalente al 1905, l’artista sembra alludere proprio al disegno con le tre figure volanti: «E poi ci sono le anime folli. Come il procedere cadenzato degli astri è attraversato dalla corsa delle comete, così il procedere tranquillo dell’umanità, il corteo trionfante dei grandi, le regioni luminose dei genii sono attraversate dalla corsa delle anime ardenti, ultime gocce del genio, che si precipitano dal fondo dell’umanità direttamente verso Dio. Esse vengono a “struggersi” alla sua luce per ricadere là da dove provengono. Esse non producono nulla, esse non spiegano niente, esse amano … ma sono esse che recano la vera leggenda di Dio all’umanità che lo teme … Qual è il loro cammino? Esse lo ignorano, ma ovunque esse passano, un raggio celeste è passato, il riflesso di ciò che esse hanno visto per un istante. E l’umanità nella sua ombra, e i genii nella loro gloria e Dio nella sua grandezza, per un istante si fanno uno: l’amore li unisce».4
Per molti anni Werefkin aveva negato il suo essere artista o, meglio, si era ritagliata, dolorosamente ma con un assoluto orgoglio luciferino, la sua parte: sarebbe stata Musa, l’ispiratrice e manipolatrice del più giovane artista Alexej Jawlensky. La Musa è parente della figura angelica, come questa è messaggero, ha un compito di disvelamento, conduce l’artista, a volte suo malgrado, ai limiti dell’umano, in una continua alternanza tra un “di qua” e un “aldilà”. Come l’angelo ha un potere di seduzione, mette in comunicazione i due mondi, è invocata come estremo rifugio di salvezza a fronte dell’insignificanza della vita, del rischio immanente della caduta.
Compagni di viaggio e di esilio, dalla Russia a Monaco di Baviera alla Svizzera, il suo rapporto con Jawlensky, sempre conflittuale, segnerà quella “discesa agli inferi” attraverso la quale Werefkin approderà a una nuova vita artistica passando dal realismo della giovinezza all’espressionismo lirico della maturità. La tematica della sofferenza informa le Lettres à un Inconnu nel doppio registro, intimo ed estetico: dal tradimento reale perpetrato dal compagno all’esperienza del male e del dolore quale viatico alla conoscenza.5 «Solo dopo aver conosciuto il vuoto spaventoso della realtà», solo dopo aver abitato nel nulla, nel «non luogo», sarà possibile non riprodurre il visibile ma «rendere visibile», come affermerà anni dopo Paul Klee,6 nel celebre scritto La confessione creatrice del 1918; del resto per Werefkin l’arte è «un sentimento che prende forma» e ripeteva spesso, quasi come una metafora della sua esperienza estetica, di «amare le cose che non sono».
Sorprendentemente le «anime folli» descritte dall’artista assomigliano alle figure angeliche che, prive di consistenza, si cancellano nel momento stesso del loro dire, confermando il carattere rapsodico di apparizione istantanea e fuggevole, ma altresì il proprio valore iniziatico. Come gli angeli delle Elegie duinesi di Rainer Maria Rilke, queste creature emanano bellezza e amore, riattingendola da loro stesse, offrono senza nulla perdere di quello che hanno emanato ma, quali immagini di autosufficienza mettono l’uomo di fronte alla sua incompiutezza e precarietà, segnalando al contempo la propria irraggiungibile perfezione.7
Peraltro allusioni alla figura angelica erano già presenti negli scritti della Werefkin, ad esempio nella frase «Amo l’amore che non è, che plana su di voi come un’ala invisibile».8 L’ala è lo strumento ascensionale per eccellenza, l’attributo di perfezione ideale per tutti gli esseri e solo attraverso l’angelo può avvenire l’accostamento all’invisibile, all’essenza delle cose e, al contempo, la sconfitta del demone della gravità.9
Gran parte della pittura dell’artista, del resto, sembra segnata dalla paura della gravità, dell’equilibrio instabile, della caduta: le figure umane nei dipinti sono spesso ai margini della composizione, schiacciate dal peso corporeo reso ancora più evidente dall’assenza di prospettiva, dalla vertiginosa inclinazione del piano di fondo, dalla preclusione dello spazio potenzialmente infinito dietro l’orizzonte molte volte sbarrato dall’opprimente immagine della montagna, luogo, per antonomasia, dell’elevazione e dell’assoluto interdetti all’uomo. Anche i viottoli che si inerpicano verso le cime non sembrano portare in qualche luogo: sono piuttosto la drammatica rappresentazione della condizione dell’erranza propria dell’epoca moderna nella quale alla figura del viaggiatore, di colui che ha una meta, seppur immaginaria o mitologica, si sostituisce la condizione esistenziale del vagabondo, del flâneur, di colui che è “senza radici”.
La simbolica rappresentazione della montagna così come la drammatica “pesantezza” umana e la possibile sconfitta della gravità attraverso il volo e l’elevazione sono, inoltre, argomenti dello Zarathustra nietzschiano ben conosciuti dall’artista.
D’altra parte anche il tema dell’angelo fa la sua apparizione con sorprendente frequenza nel cielo dell’arte e del pensiero contemporaneo. Non più creature perfette, ma sedotte o contaminate dall’essere umano, esse popolano, quasi ossessivamente, lo spazio artistico del ventesimo secolo ponendosi come metafora complessa dell’unica opportunità concessa all’uomo di accedere all’invisibile.
Numerose sono le opere dedicate a questa icona del contemporaneo da molti tra gli artisti protagonisti dell’avanguardia – Chagall, Klee, Tzara, Ernst, Arp, Savinio, de Chirico, Licini – e altrettanto ricorrente è la sua presenza nelle espressioni poetiche: Lautréamont, Apollinaire, Alberti, Stevens, Cocteau, Rilke, Mallarmé, Valery, Bulgakov e Kafka. Di derivazione romantica, la metafora dell’angelo ha una delle sue prime formulazioni in senso moderno negli scritti e nell’opera di William Blake, per poi ritrovarsi con diversi significati in Baudelaire e Hugo von Hofmannsthal e nelle pitture simboliste di Odilon Redon e di Gustave Moreau. In questo milieu culturale i significati connessi alla figura angelica si diversificano a seconda dell’autore.
Per Baudelaire, ad esempio – come anche, con sorprendente analogia, per Redon – l’angelo vive la tragica condizione della caduta, è un angelo che ha accettato la sfida del male, del terrestre, dell’impuro. Le sue ali sulla terra divengono ingombranti, quasi si pietrificano, non permettendogli di camminare. All’angelo baudelairiano non è estranea, quindi, una condizione di imperfezione che comporta inevitabilmente, nella formulazione dei caratteri angelici, elementi luciferini, demoniaci.
La condizione angelica arriva per Baudelaire a identificarsi con quella del poeta, per cui la bellezza cercata non può che presentarsi, nel momento del presente, con i caratteri dell’orrido, della necessità poetica del brutto. In altri, come von Hofmannsthal, l’angelo è un guerriero, un messaggero dello spirito, connotandosi principalmente come figura dell’ordine, della necessità.
Nel periodo di crisi della coscienza europea l’angelo diviene non solo il messaggero del trascendente, ma è la sua realtà immanente di custode e simbolo della parola che si trasforma in una sorta di alter ego del poeta e dell’artista. Il silenzio delle cose, la paralisi del linguaggio, l’inadeguatezza della parola ad esprimere sono elementi della coscienza contemporanea. La metafora dell’angelo quale simbolo della creazione diviene, nel momento dell’attesa del rinnovamento, il custode delle possibilità estatiche, della capacità poetica nell’epoca moderna.10
Per una figura come quella di Marianne Werefkin, profondamente informata e partecipe del pensiero contemporaneo, non solo artistico ma anche letterario, filosofico ed estetico, che ha fatto propria una visione interiorizzata dell’arte, indissolubilmente intrecciata alla personale vicenda biografica, un alter ego angelico poteva perfettamente rientrare nel suo universo poetico.
Ed è proprio sul piano dell’immedesimazione che si esplicita l’adesione alla metafora angelica: nell’Autoritratto in veste di angelo (fig. 5) l’artista, pienamente consapevole della propria identità, è avvolta da ali trasparenti screziate da bagliori purpurei e turchini, mentre i grandi occhi fulvi, fiammeggianti, guardano finalmente verso l’invisibile.11
1 M. Bussagli, Quando agli angeli spuntarono le ali, «Art e Dossier», dossier n. 45, 1990, pp. 16-27.
2 E. Kirschbaum, L’angelo rosso e l’angelo turchino, «Rivista di archeologia cristiana», 17, 1940, pp. 210-248.
3 Sulle fonti del pensiero e delle teorie estetiche della Werefkin, si veda M. Folini, Marianne Werefkin: riscoprirla attraverso le fonti, in Marianne Werefkin. Il fervore della visione, catalogo della mostra (Reggio Emilia, Palazzo Magnani, 2001), a cura di S. Parmiggiani, Milano 2001, pp. 43-57.
4 M. Werefkin, Lettres à un Inconnu, 3 voll. (1901-1905), III, 1905 (FMW 19L-3-558/1-274), pp. 150-158. Si cita dal testo originale conservato nel Fondo Marianne Werefkin.
5 Su questi temi, si veda G. Dufour-Kowalska, Marianne Werefkin e Alexej Jawlensky: una stagione all’inferno, in Marianne Werefkin 2001, cit., pp. 87-99.
6 Paul Klee sarà uno dei migliori amici di Werefkin e insieme alla moglie, Lily, si occuperà del suo appartamento a Monaco durante gli anni della guerra.
7 «La bellezza che da voi defluisce, la riattingete nei vostri volti … Ma per noi, sentire è svanire; ah noi! ci esaliamo, sfumiamo», R.M. Rilke, Seconda Elegia, vv. 15-18, in Elegie duinesi, introduzione di A. Destro, traduzione di E. e I. De Portu, Torino 1978, pp. 11-15.
8 Werefkin, Lettres, cit., I, 1901 (FMW 19L-1-556/1-280), p. 138.
9 Cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, a cura di M. Montinari, con un’introduzione di G. Colli, Milano 1976.
10 Sull’angelo nell’arte del XX secolo, si veda J. Jiménez, El ángelo caído. La imagen artistica del ángel en el mundo contemporáneo, Barcelona 1982; M. Cacciari, L’angelo necessario, Milano 1986; F. Pirani, Licini e l’Europa. La nascita dell’iconografia angelica, in Licini, catalogo della mostra (Venezia, Fondazione Bevilacqua La Masa, 1988), a cura di M. Apa, Milano 1988, pp. 39-49; Ead., Licini, l’angelo del Novecento, «Art e Dossier», dossier n. 38, 1989, pp. 16-20; M. Apa, La condizione angelica tra sincretismo e liturgismo, in Le ali di Dio. Messaggeri e guerrieri alati tra Oriente e Occidente, catalogo della mostra (Bari, Castello Svevo-Caen, Abbaye-aux-Dames, 2000), a cura di M. Bussagli e M. D’Onofrio, Milano 2000, pp. 108-118; Chagall, Licini e il sopra naturale in Arp, Ernst, Klee, Miró, Savinio, catalogo della mostra (Ascoli Piceno, Complesso monumentale di Sant’Angelo, 2001-2002), a cura di M. Vescovo, Milano 2001, e F. Pirani, Gli angeli di Klee, in Paul Klee. Uomo, pittore, disegnatore, catalogo della mostra (Roma, Complesso del Vittoriano, 2004), a cura H.C. von Tavel, Milano 2004, pp. 53-60.
11 Sulla vicinanza tra l’Autoritratto in veste di angelo e il dipinto della Salomé, si veda N. Misler, “Come salvare Salomè?”: Marianne Werefkin e la danza, in Marianne Werefkin 2001, cit., pp. 77-85 [infra, pp. 104-105]. Un suggestivo riferimento al valore simbolico del colore degli occhi fulvi si ritrova in R.M. Rilke, nella figura di Erik Brahe, che appartiene, grazie al suo occhio “sano”, al mondo dei vivi e a quello invisibile dei morti cui guarda col suo occhio “fisso”. Il tema è poi ripreso nella Quarta Elegia (vv. 30-35).
Marianne Werefkin: la furia della vita
Mara Folini
«Io credo che oltre all’apparenza del mondo e alle forme mutevoli, ci sia il mondo immutabile del riposo, della Verità, il mondo delle conciliazioni, in cui mi sento trascinata con tutta la mia anima. È la mia sensazione e la mia fede, la mia essenza artistica, il mio io di pittore. Ho lungamente cercato una lingua … con la quale potessi esprimere il mio amore e la mia fede. Attraverso le esigenze di un’educazione artistica tradizionale e sbagliata, attraverso il realismo del mio maestro Repin e l’eleganza dei miei maestri stranieri … sono arrivata infine alla coscienza che nella mia anima, accanto al mio amore e alla mia fede, vivono linee e colori del tutto identici, e che i movimenti e le combinazioni di queste linee e colori possono rendere l’essenza del mio io dualista nel modo il più fedele … Da questa presa di coscienza si risvegliava in me il vero pittore: io cessavo di pensare in simboli di parole …, ma pensavo esclusivamente in simboli di linee e di colori.»1
Marianne Werefkin – donna raffinata, poliglotta, pittrice e scrittrice coltissima – è una di quelle artiste che, dimenticata dalla critica per anni, oggi appare finalmente come una di quelle voci significative che ebbero un ruolo di primo piano nello sviluppo dell’arte moderna nella Monaco di inizio Novecento.2 L’attenzione cade sulla sua scelta di non uniformarsi all’arte del suo amico Vassilij Kandinsky, anche se detta arte era da lei ben compresa, anzi ne fu valida iniziatrice (come attesta il brano di apertura di questo saggio).
La sua aspirazione a un’arte soggettiva, capace di incidere sul presente, nell’esprimere la visione dell’artista creatore e le sue aspirazioni (perché per lei l’arte non deve rappresentare ciò che l’occhio “vede” ma ciò che l’anima “sente”, poiché «la vera arte è quella che esprime l’anima delle cose – e quest’anima è l’anima dell’artista»)3 è già presente negli anni russi della sua formazione (1883-1896). Tuttavia, allora, l’artista non aveva ancora chiaro quale fosse quel linguaggio che opponesse ai valori della società scientista e dogmatica l’aspirazione a un mondo spirituale caratterizzato dalla nostalgia di un’unità organica conglobante, dove anima e corpo fossero tutt’uno.
Nata a Tula (sud di Mosca) il 29 agosto del 1860, cresciuta nell’aristocrazia (figlia del comandante della fortezza di Pietro e Paolo a San Pietroburgo, Vladimir Werefkin, e della pittrice di icone, di nobile origine cosacca, Elizaveta P. Daragan), sviluppò un precoce talento divenendo, negli anni ottanta, allieva del grande realista Ilja Repin. Trasferitasi dalla conservatrice San Pietroburgo nella più moderna Mosca per seguire i corsi di disegno di Illarion Michajlovicˇ Prjanisˇnikov all’Accademia, viene presto riconosciuta per i suoi grandi ritratti a olio legati alla migliore tradizione del Seicento europeo che le valgono l’appellativo di “Rembrandt russo”, ed espone con il gruppo degli Ambulanti,4 sposandone la vocazione – pedagogica, quasi sacerdotale – a portare l’arte al popolo russo.
A Mosca, il confronto con le avanguardie simboliste e post-impressioniste – Savva Mamontov e la colonia degli artisti di Abramcevo,5 il circolo dei Benois e il gruppo del Mondo dell’Arte, il famoso pittore Victor Elpidiforovich Borissov-Moussatov (1870-1905)6 e il movimento della Rosa Scarlatta (1904) anticipatore della Rosa Blu (1907) – interagì fin dagli anni novanta nella relazione conflittuale con il maestro Repin e l’arte realista, preparando il terreno per il suo avvicinamento all’arte francese post-impressionista e simbolista.7 Sono, questi, gli anni delle letture a carattere spiccatamente scientifico, inerenti ai meccanismi profondi dell’inconscio, che mostrano l’intima affinità dell’artista con l’amico Kandinsky nel sottolineare come il problema di un’arte nuova si fondasse sul problema del soggetto, dell’artista che crea.8
Tuttavia ci vollero più di dieci anni prima che le fosse chiaro quale fosse quel linguaggio che, con le sue regole e leggi, potesse esprimere non la disadorna “verità della vita” del mondo positivista, ma l’incandescenza superiore della “vita vera” dell’anima, invocata dai seguaci di Nietzsche. Un’aspirazione che peraltro, secondo la Werefkin, è prerogativa maschile: al punto che quando, nel 1891, conosce Alexej Jawlensky e ne apprezza il talento, si elegge a “musa ispiratrice” della sua arte e smette di dipingere, dal 1896, per quasi dieci anni,9 con lucida quanto delirante e anticonformista presa di posizione nei confronti della sua condizione di donna in una società al maschile, convinta che solo un uomo avrebbe potuto dare un nuovo corso alla storia.
Unite le loro vite sulla base di una semplice promessa d’amore (promessa che per l’anticonformista Marianne ha più valore di qualsiasi atto istituzionale), resteranno insieme per ventinove anni, fino alla separazione nel 1921 ad Ascona (non senza tormento e conflittualità, e non da soli: con loro vivrà la giovane Helene Nesnakomoff, governante della pittrice, amante e modella di Jawlensky, madre nel 1902 del loro figlio Andreas, e sua sposa nel 1922).10
A Monaco, dove si trasferirono nel 1896 (nel quartiere bohémien dello Schwabing, allora culla della modernità, in cui la Secessione, con le riviste «Pan», «Simplicissimus» e «Jugend», contribuiva all’affermazione del nuovo stile in contrapposizione all’accademismo imperante), il “salotto rosa” della Werefkin si trasformò ben presto in quel crogiolo di artisti, pittori, danzatori, in gran parte russi – Igor Grabar, Dmitrij Kardowsky, Alexander Salzmann, Nikolaj Seddler, Walentin Serov, i fratelli Burljuk, Willibord Verkade, Franz e Maria Marc, August, Elisabeth e Helmut Macke, Alexander Kanoldt, Emil Nolde, Adolf Erbslöh, Paul e Lily Klee, Cuno Amiet, Else Lasker-Schüler, Vladimir Bechtiev, Andrej D. Sacharov, Anna Pavlova, Sergej Diaghilev (suo amico d’infanzia), Vaslav Nijinsky, Gabriele Münter e Vasilij Kandinsky, conosciuto dopo i suoi studi alla scuola di Azˇbé (1897) con Jawlensky – del quale lei, la “baronessa”, era il centro intellettuale e affettivo (e che, sull’esempio delle gilde medievali e degli artel degli Ambulanti, chiamò “Confraternita di San Luca”). Qui si dibattevano i temi della cultura simbolista e dell’esoterismo di moda imbastiti al Caffè Stephan, ci si interessava alla psicanalisi e alla teosofia,11 si inneggiava a “un’arte dell’emozione” sottratta alla mimesi e infusa di forza profetica e spirituale.
Nel 1897 Marianne e Jawlensky sono a Venezia, nel 1903 in Normandia e a Parigi, nel 1905 in Bretagna sulle tracce di Gauguin e dei Nabis, poi a Parigi e in Provenza, nella mitica terra di Van Gogh, Cézanne e Matisse, e infine a Ginevra, dove incontrano Ferdinand Hodler. Intanto (dal 1901 al 1905) prende forma il suo diario, le Lettres à un Inconnu, testo di teoria estetica all’avanguardia, dove, attraverso la mediazione dell’arte francese e le dottrine dell’Einfühlung (“empatia”), la Werefkin scopre il valore strutturante e autonomo del colore, quindi la specificità del linguaggio artistico, libero di costruirsi in forme sintetiche e in cifre emozionali espressive dell’interiorità dell’artista, organizzate dinamicamente secondo le leggi dell’arte pittorica – simmetria, contrasto, accordo tra i colori12 – preannunciando la svolta astratta che Kandinsky avvierà con il ben più sistematico e famoso saggio Lo spirituale nell’arte (1910-1912).13
Tuttavia Marianne non compirà mai il passo decisivo verso l’astrazione, pur condividendone le premesse, anzi anticipandone il rivoluzionario linguaggio nel sottolineare come «il pensiero artistico è rivelazione della vita in termini di colore, forma e musica».14 Preferisce però (forse già intuendo i rischi di un movimento artistico fondato su tipologie riconoscibili, in cui si perde la forza prima della creazione, rischiando l’autoreferenzialità e lo scollamento dalle problematiche sociali ed esistenziali) abbandonarsi alla poesia di una sensazione, alla meditazione solitaria, al dolore lentamente stilizzato in forme significanti, ma sempre condivisibili dal resto del mondo: perché, come lei stessa afferma, «l’arte ha la sua vita in sé, delle leggi in sé». Ma al tempo stesso, rifiutando l’univocità dell’art pour l’art, sostiene – retaggio forse della sua lunga militanza tra gli Ambulanti – che l’arte ha anche il compito di «imporre all’umanità dei nuovi valori estetici ed etici»,15 e giunge a dire che se molti dei suoi compagni «parlano direttamente il linguaggio dei simboli primi, per esempio Kandinsky in pittura o Schönberg in musica, ed essi hanno ragione, può darsi pure più di me», per lei e per i suoi amici più vicini «per emozionare la vita bisogna esservi inseriti fermamente. È per questo che noi non la rinneghiamo, non la fuggiamo, ma l’amiamo».16
Dunque è il suo interesse per i problemi più esistenziali del soggetto, per i meccanismi profondi, piuttosto che per i meccanismi percettivi più fisici che l’ha condotta a un lungo periodo di riflessioni, discussioni, esperienze e viaggi, di cui il suo diario è testimonianza: «solo nel momento in cui l’uomo si sente in grado di trasformare in sé ogni impressione, di rimodellare nella sua anima ogni esperienza, solo in quel momento può considerarsi un individuo … [perché] il pensiero artistico è rivelazione della vita in termini di colore, forma e musica, e ha valore solo se è personale … Il mondo dell’artista è nei suoi occhi, e questi a loro volta gli creano un’anima. Educare questi occhi per ottenere un’anima sensibile, è il dovere principale di un artista».17 Per poter infine dichiarare: «sono andata per un anno in Francia, ho ricominciato tutto da capo e dopo qualche mese ho trovato la strada che attualmente seguo».18
Ritrovata la fiducia nei propri mezzi espressivi, la pittrice ricomincia a dipingere nel 1906 (ma forse già dal 1903 traccia degli schizzi) e passa direttamente a una pittura a tempera già scevra da stilemi neo-impressionisti, ancora presenti invece nella pittura dei suoi amici. Usa la tempera ma soprattutto ama sperimentare le tecniche più diverse – gouache, pastelli, carboncini, gessetti, penne e matite – mescolandole in accordi azzardati; usa il colore puro liberamente tra armonie e contrasti, trasformando il momento mimetico in composizione ritmica, seriale, avvolgente e perlopiù visionaria. La straordinaria elaborazione teorica che Werefkin ha svolto nelle Lettres à un Inconnu è rintracciabile sia nei dipinti che negli innumerevoli schizzi del 1906-1907 (la Fondazione Marianne Werefkin di Ascona ne conserva ben 170), sia nel manifesto della Neue Künstlervereinigung München (NKVM) fondata nel 190919 – dopo i fertili scambi dei soggiorni estivi a Murnau (1908 e 1909) – insieme a Jawlensky, Kandinsky e Gabriele Münter, e nella quale Werefkin («l’anima di tutta l’impresa» secondo Franz Marc) ebbe un ruolo di primo piano,20 contribuendo alla nascita di quello che la critica ha definito “espressionismo lirico” per distinguerlo da quello, a carattere più sociale, della Brücke di Dresda.
Gli studi scientifici, a cui la pittrice si è applicata, le offrono la possibilità di sfidare la scienza nel suo stesso campo: la conoscenza della natura, non solo nelle apparenze sensibili, quanto soprattutto nelle forze vitali che la regolano, induce l’artista a imbastire le sue opere attraverso schemi geometrici e lineari dal carattere spiccatamente scientifico (ellissi, file prospettiche accorciate, linearità sinuose che a volte si spezzano), ma che vengono prescelti secondo il loro valore di messaggio psicologico, ormai irrimediabilmente affrancati dalla rappresentazione naturalistica e impressionistica della realtà. Così i paesaggi della Werefkin assumono una connotazione geometrizzata e stilizzata tale da conferire alla scena una dimensione astratta dal tempo e dallo spazio, che spesso assume una caratterizzazione visionaria, carica di forza drammatica: nella loro apparente semplicità, rimandano sempre a un messaggio simbolico, a una massima di vita universale.
La sua produzione, inizialmente schizzi a matita e matite colorate, nei soggetti simbolici di un mondo fantastico e inquietante (Le anime folli, Scogli) appare già influenzata dalle correnti mistiche e teosofiche dell’epoca (in particolare la concezione cosmica e apocalittica del mondo, fondata sull’idea di “unitotalità” di Solov’ëv),21 da Kubin e Redon, ma anche dal Segantini delle Cattive madri; mentre mostra, nelle opere e negli schizzi del 1907, affinità iconografica con i colleghi impressionisti e neo-impressionisti francesi (da Degas a Toulouse-Lautrec, da Cézanne a Seurat, per le scene di città, i caffè, gli spettacoli teatrali) e vicinanza stilistica con Gauguin e i Nabis (per l’à plat del colore antinaturalistico e l’uso espressivo e personale del cloisonné, che approdano a quel sintetismo caro a Sérusier, a Denis e a Bernard, delle opere dei quali si hanno precisi riscontri nei taccuini), come in Autunno-Scuola (cat. 4) e Birreria all’aperto del 1907 (cat. 2) e Pomeriggio domenicale del 1908 (cat. 11).22
È però Munch l’artista con il quale sente realmente di condividere la visione drammatica della vita, avvicinandosi a lui tanto nell’uso del colore simbolico e antinaturalistico, della pennellata fluente e vibrante, quanto nella stessa impostazione strutturale e nei richiami iconografici, come attestano La strada di campagna del 1907 (cat. 9), i Gemelli del 1909 (cat. 5) e Atmosfera tragica dell’anno successivo (cat. 13). Infine, tra il 1908 e il 1913, raggiunge un suo stile lirico espressivo, in consonanza con un’accentuazione del valore sinestetico delle forme, delle linee e dei colori, spesso assorbiti da una diffusa tonalità dominante, la cosiddetta Stimmung (approssimativamente traducibile in italiano con “atmosfera”, che però ha ben altre implicazioni filosofiche e simboliche), richiamando a quel senso di pienezza di sentimento, di immedesimazione e percezione immediata nelle pure forme a quel “suono interiore”, citando Kandinsky, di risonanza quasi mistica e cosmica che rinvia a un’aspirazione al trascendente e implica quella Sehnsucht, quel desiderio – bramoso e nostalgico a un tempo – di ritorno ontologico alla unità dell’essere con il mondo, linfa vitale che dà senso a ogni progredire esistenziale. Ciò si esprime in opere come Sala da ballo e Al caffè (cat. 10), Due vecchie signore del 1907 (cat. 22), Il danzatore Alexander Sacharoff del 1909 (cat. 12), Atmosfera tragica del 1910 (cat. 13), I pattinatori del 1911 (cat. 23). La forma e il colore si drammatizzano attraverso la loro semplificazione simbolica (un’accentuazione dell’atmosfera generale data dalla uniformità di un colore di base, vibrato da flussi energetici di pennellate ora lunghe, ora brevi, ora locali ma sempre vive e riscontrabili) in opere come La città rossa del 1909 o La donna con la lanterna del 1910 (cat. 18), quest’ultima con assonanze anche con l’arte di Van Gogh. E in L’albero rosso del 1910 (cat. 21), quasi un’icona laica del senso della vita e dell’aspirazione alla trascendenza. Questa interpretazione originale del suo stile espressionistico continuerà nelle opere del 1912-1913, che andranno sempre più arricchendosi di problematiche sociali ed esistenziali, come in Ciminiera e La città industriale-Ritorno a casa del 1912 (cat. 30), in Città in Lituania (cat. 32) e Chiesa di Sant’Anna a Vilnius del 1913 (cat. 33), in Posto di polizia a Vilnius del 1914 (cat. 34).
La relativa fama acquisita negli anni, anche grazie a una notevole attività espositiva,23 è bruscamente interrotta, all’inizio del mese di agosto del 1914, dallo scoppio della prima guerra mondiale. Werefkin, Jawlensky, Helene Nesnakomoff e il figlio Andreas, come tutti i russi, sono costretti a lasciare la Germania in quarantott’ore. Jawlensky racconta: «Dovevamo lasciare il nostro appartamento con tutti i mobili e gli oggetti d’arte e potevamo prendere con noi solo quello che eravamo in grado di portare … eravamo 20 persone, circondate da soldati con i fucili – allora la folla che stava sulla strada si mise a imprecare e ci sputò addosso».24
Raggiungono la Svizzera attraverso Lindau, sul lago di Costanza, da dove proseguono per Saint-Prex, sul lago Lemano, nel Canton Vaud, poiché a Losanna viveva un vecchio amico di Monaco, il possidente terriero russo Alexander Dimitry Chruschtschoff,25 che si adoperò per trovar loro una sistemazione, al piano superiore di una piccola abitazione prospiciente il lago. Il forzato trasferimento in Svizzera fu per tutti traumatico: Marianne Werefkin, che ancora a Monaco poteva contare sulla pensione paterna (2000 rubli l’anno, pari a circa 10.000 euro attuali), con la rivoluzione bolscevica finì per perdere tutto, e per la prima volta nella sua vita conobbe la povertà, che la costrinse a vivere per sempre ai limiti della sopravvivenza.
Tuttavia la Werefkin e Jawlensky, con rinnovata forza e tenacia, ripresero a dipingere e ristabilirono i contatti con i vecchi amici: a Ginevra con Ferdinand Hodler; a Morges con Stravinsky, che stava componendo la musica per i Balletti Russi di Sergej Diaghilev; a Losanna con Nijinsky (dopo che la Werefkin, grazie ai suoi contatti politici, si era adoperata per farlo uscire dall’Ungheria, dove era stato internato)26 e con i Sacharoff, che incontrerà nuovamente a Zurigo, Lugano, Ascona (sarà la loro testimone di nozze prima della tournée in America, e li aiuterà nell’organizzazione della loro tournée in Svizzera nel 1920);27 infine, con i coniugi Klee.28
La guerra segnò nella vita e nell’arte di Jawlensky una profonda cesura: «Qualcosa dentro di me mi impediva di fare i quadri colorati e sensuali d’allora. Il dolore aveva cambiato la mia anima e ciò mi obbligava a trovare nuove forme e colori per esprimere ciò da cui la mia anima era mossa».29 Questo travaglio lo condusse a dipingere le sue prime Variazioni su un tema paesaggistico, dove l’estrema riduzione degli elementi oggettivi (albero, montagna, strada, lago, cielo), schematizzati in forme sempre più geometriche e astratte, accentua quel senso arcano di alterità, specchio di un’anima ferita che cerca consolazione in forme sempre più icastiche e perentorie, che lo porteranno – affrancato dal sensualismo vivace dei suoi colori – alla realizzazione delle semplici, seriali, croci buie e vibranti che caratterizzano la sua tarda produzione.
Altrettanto si può riscontrare nell’arte della Werefkin, sebbene quest’istanza astratta, questo processo di “spiritualizzazione”, siano di segno opposto e si realizzino in un’enfatizzazione della forma in moti vorticosi, vitalistici, che coincidono con un recupero di quesiti più esistenziali e terreni; i quali poi si articoleranno, dall’arrivo a Saint-Prex fino agli ultimi anni di Ascona, lungo due direttrici, l’una più “visionaria” e simbolica, l’altra più “descrittiva” e cautamente “aneddotica”.
Già La follia del 1916, chiaro riferimento alle “follie” della guerra, che sembra alludere all’atmosfera del Delacroix di La libertà che guida il popolo, presenta quell’accentuazione di presagio ultraterreno e apocalittico, dove tutto è vortice di colore che inquieta: tra una schiera rossa di cavallerizze agguerrite, che tengono alto il bianco vessillo del volto di Cristo, un sole infuocato accende una bandiera rossa di un’anonima armata nera, e tutto parla di morte. Così altre opere, dal 1914 fino agli anni asconesi, si caricano sempre più di un senso arcano: il paesaggio, sempre più visionario, si trasforma in vortici di colore percorsi da energie dal presagio occulto o chiaroveggente, come si riscontra in Turbine di neve del 1915, Notte fantastica e Vortice d’amore del 1917 (cat. 36), Fuochi fatui del 1919 (cat. 35), Sposa mystica del 1924 circa, Ave Maria del 1927 (cat. 49), Via eterna del 1929, Il duello del 1933; mentre opere incentrate su problematiche più esistenziali ci raccontano le pene della vita, tra colori in rotazione e pause dalla suggestione drammatica, in modo tale da renderle percepibili quasi fisicamente, grazie alla maestria sintattica del costruire: si pensi a opere come La pena (cat. 29) e Il cenciaiolo del 1917 (cat. 31), Le vergini folli del 1921 (cat. 38), La grande luna (cat. 39) e Pescatore nella tempesta del 1923 (cat. 43), Il misfatto del 1927-1930 (cat. 40), Il vincitore del 1929 circa e Gli abbandonati del 1920-1930 (cat. 37). Poetica questa che con il passare degli anni non abbandonerà più, che approfondirà in modo sempre più personale e originale e che si unirà a quella tendenza più “descrittiva”, rivolta verso quel rinnovato sentimento umanitario, più attinente alle questioni del quotidiano, che si può cautamente leggere in opere come La famiglia del 1910 (?, cat. 24), La barca n. 116 e La tarda età della vita del 1922, Turno di notte (cat. 44) e Vivi e morti del 1924, Le maschere del villaggio-Carnevale del 1925, La miniera del 1926 circa (cat. 45), La vita alle spalle del 1928, Il postino del 1929, La città dolente del 1930 circa (cat. 50).30
A sostegno di questa tesi emerge, dai suoi “quaderni di lettura”,31 che tra il 1915 e il 1917 la pittrice legge testi come Les Messes noires dei dottori Caufeynon e Jaf (pseudonimo di Jean Fauconney),32 dai quali trae spunto per interrogarsi sulle più diverse esperienze, dalla gnosi al culto di Bacco, dal manicheismo all’anabattismo, dai Templari ai luciferiani, fino agli adoratori di Cagliostro; o come La Vertu suprême di Sâr Péladan, rimanendone entusiasta («Sar Merodae [sic] il grande maestro dei Rosacroce, che ha ammesso l’amore libero … come una vocazione, l’amore senza procreazione perché quelli che producono con lo spirito non devono produrre anche con il corpo») e giudicandolo «un miscuglio di scene voluttuose e di vibranti appelli all’idealità. Un libro pieno di cose profonde e spirituali».33 Ma legge anche romanzi francesi che in genere rientrano nella corrente parnassiana o che, in ogni caso, si oppongono al naturalismo di Zola (Anatole France, Claude Farrère, Théophile Gautier, Catulle Mendès ecc.); queste letture, insieme ai romanzi di Henry Bordeaux Le Pays natal e La Maison (definiti dalla critica come tipici “romanzi regionalisti”, poiché si interessano ai valori della famiglia, del paese natio, della tradizione), mostrano la pittrice particolarmente interessata a riflettere sul valore dei sentimenti umani (le speranze, gli ideali, gli affetti familiari ecc.), al punto di giungere persino a identificarsi nei protagonisti dei racconti che legge, come nel caso dei romanzi di Bordeaux.34
Significativamente, questi due poli della sua arte più tarda si rifletteranno ad Ascona, dove la pittrice, attivissima ed impegnata culturalmente fino agli ultimi anni della sua vita, da un lato si interesserà alla vita quotidiana del piccolo borgo (tanto da essere soprannominata «nonna»), e dall’altro – ai piedi del famoso Monte Verità – si potrà abbandonare al mondo del sogno, degli ideali, delle visioni mistiche.
Nel frattempo, mentre la sua vita familiare diventava sempre più insostenibile anche per la mancanza di denaro, ed Emmy Scheyer andava sostituendosi a lei nel promuovere l’arte di Jawlensky, la Werefkin intrecciava amicizie durature con lo scrittore espressionista Iwan Goll e sua moglie Claire.35 Erano i giorni difficili e pieni di preoccupazioni che videro lo zio di Marianne, Iwan Longinowitsch Goremykin, primo ministro dello zar, ucciso dalla Rivoluzione, e i fratelli e i parenti rischiare la stessa fine.
Nel 1916, quando Han Coray, il futuro gallerista dei daidaisti, viene a sapere dal comune amico Louis Moillet della loro presenza a Saint-Prex e li invita a esporre alla mostra inaugurale delle sue gallerie a Basilea e a Zurigo,36 Werefkin e Jawlensky entrano a far parte dell’ambiente artistico e culturale zurighese, dove incontrano vecchi amici (i Sacharoff, Walter Helbig, Mary Wigman, Else Lasker-Schüler), stringono nuove amicizie (con Ferruccio Busoni, Wilhelm Lehmbruck, Rainer Maria Rilke, Otto e Adya van Rees, forse Gordon McCouch, che hanno già avuto, o avranno, tutti a che fare con Ascona), e assistono alla nascita del movimento Dada.
Grazie a questi contatti, nel clima internazionale delle serate dadaiste, va individuata la strada che porterà Jawlensky e Werefkin, e gran parte di questi artisti, intellettuali ed esiliati politici, a stringere o rinnovare rapporti con Ascona, sotto l’influsso dell’esperienza di Monte Verità.37
Basti considerare che le danzatrici intervenute alle serate dadaiste non solo avevano intrecciato relazioni sentimentali con gli artisti (Emmy Hennings con Hugo Ball, Sophie Taeuber con Hans Arp, Maja Kruscek con Tristan Tzara, poi con George Janco, fratello di Marcel, e Hans Richter), ma facevano quasi tutte parte – con Mary Wigman, Suzanne Perrottet e Käthe Wulff – della scuola di danza che l’ungherese Rudolf von Laban aveva trasferito sul Monte Verità nel 1913;38 scuola che in seguito, integrandosi con la “cooperativa vegetaliana Monte Verità”, avrebbe contribuito alla formazione della Scuola d’Arte. La comunità, dopo intensi anni di sperimentazione tra anarchia, teosofia e psicanalisi, proprio nel 1917 stava raggiungendo la sua massima popolarità con il “Congresso Cooperativo Anazionale della Confraternita degli Illuminati Ermetici – Ordine dei Templari di Oriente”, che Theodor Reuss in persona (capo spirituale dell’ordine) volle tenere sul Monte; e con lo spettacolo Il Canto al Sole della scuola di danza di Rudolf von Laban a celebrare, con danze e fiaccolate, in pieno conflitto mondiale, l’inno al Sole, vero e proprio rituale catartico che avrebbe dovuto rinnovare e rifondare il mondo intero.
Non si può pertanto continuare a sostenere, come unica motivazione, che la Werefkin e Jawlensky avessero deciso di trasferirsi ad Ascona nel 1918 perché «Jawlensky era ammalato di influenza e il clima mite del Sud gli sarebbe stato di giovamento», quando (stando alle parole dell’amica comune Claire Goll) ad Ascona a causa dell’epidemia influenzale «la gente moriva come le mosche».39
In altre parole ad Ascona, dove proprio questi vecchi e nuovi amici intrattenevano relazioni o vivevano, ebbero la certezza di trovare un ambiente favorevole ad accoglierli: lì non solo la vita era meno cara, e il clima mite, ma si era certi di trovare amici con i quali condividere vita e arte, protetti idealmente da una storia ricca di fermenti alternativi, consacrata dalla fama di Monte Verità. Una storia con la quale il pensiero estetico e filosofico della Werefkin ha così tante tangenze da essere quasi emblematica: la comune opposizione al pensiero positivista, e la ricerca ansiosa di una nuova forma di vita nella quale recuperare la dimensione spirituale come alternativa a quella industrializzata e massificante, mediata dall’influsso delle varie declinazioni delle correnti occulte e teosofiche.
Ad Ascona, questa rete di amicizie permise alla Werefkin di avviare una lunga attività espositiva che, se non le diede la possibilità di vivere dignitosamente solo della sua arte, la inserì comunque a pieno titolo nelle iniziative artistiche delle più importanti gallerie svizzere dell’epoca (Coray a Basilea e Zurigo, Moos a Ginevra, il Kunstsalon Wolfsberg a Zurigo), e la mise in relazione con le principali associazioni degli artisti svizzeri, tra cui la Società pittori, scultori e architetti svizzeri (della quale fu sicuramente membro dal 1925), e già dal 1919 la Zürcher Kunstgesellschaft (grazie alla quale fu presente dal 1920 al 1938 nelle esposizioni del Kunsthaus di Zurigo). Seguiranno le amicizie, ricche di stima e riconoscenza, con il dottor Hans Trog (redattore della Neue Zürcher Zeitung di Zurigo), che nel 1925 le pubblicherà il diario di viaggio in Italia; con Bruno Goetz, che nel 1927 le dedicherà il romanzo Das göttliche Gesicht conferendole il ruolo da protagonista; con Friedrich Glauser che, nel 1931, nel suo Dada, Ascona e altri ricordi, consacrerà la pittrice a «signora» e «nonna» di Ascona che «portava il costume del paese e parlava la lingua del paese, come se la sua patria fosse stata il Canton Ticino e non la lontana terra degli sciti»; con Hermann Hesse e con Iwan e Claire Goll.40
Nel 1921, non senza difficoltà, Jawlensky chiude la sua relazione quasi trentennale con la Werefkin per trasferirsi a Wiesbaden, dove sposerà Helene Nesnakomoff, legittimando il figlio Andreas.41 Prima di questa data, nel 1919 sono ancora presenti insieme all’esposizione “Maler von Ascona” al Kunstsalon Wolfsberg di Zurigo; nel 1920 alla XII Biennale di Venezia, attirandosi le critiche sferzanti di Francesco Sapori; nel 1920-1921 all’Exposition internationale d’art moderne al Bâtiment Électoral di Ginevra; infine, nel 1921, alla mostra retrospettiva “Zehn Jahre Sturm” alla Galerie Der Sturm di Berlino.42
Intanto, nel 1920, la Werefkin ottenne la sua prima esposizione personale in Svizzera, alla Galerie Moos di Ginevra, a conferma dell’interesse di questa galleria per la sua opera e per l’arte moderna, interesse già evidenziato nel sostegno dato al gruppo svizzero francese Le Falot tra il 1915 e il 1917. A questo primo pieno riconoscimento seguirà, nel 1925, la sua prima mostra personale in Germania, realizzata da Rudolf Probst negli spazi della galleria Neue Kunst Fides di Dresda, che la consacrerà tra gli artisti più rivoluzionari del Novecento.43
Ferita nel profondo per l’abbandono di Jawlensky, Werefkin non si perse d’animo e, consapevole della sua nuova condizione sociale, riuscì a tessere stretti legami con la popolazione di Ascona, che la seppe aiutare nei momenti più difficili e alla quale riservò – nella vita come nell’opera – la massima stima e considerazione. È questo il contesto di quel rinnovamento delle tematiche umanitarie ed esistenziali dell’opera tarda della pittrice che, pur attraverso una sintassi più descrittiva, esprime sempre quell’atmosfera diffusa e avvolgente, ricca di presagi catastrofici o di riscatti ultraterreni, che altro non è che quell’atto d’amore verso i “semplici” dei quali sente di condividere il destino: «Ascona mi ha insegnato a non disprezzare niente di ciò che è umano, ad amare allo stesso modo l’immensa fortuna della creatività e la miseria dell’esistenza materiale, e a portarle in me come un tesoro dell’anima».44
È in quest’ottica che vanno viste opere come La tarda età della vita del 1922, Turno di notte e Vivi e morti del 1924, La città dolente del 1930 circa, La vita alle spalle del 1928, dove la riflessione sugli aspetti più contingenti e immediati della realtà quotidiana – lavoro nei campi e nelle fabbriche, resoconti esistenziali, feste, incontri – si accende di colori forti, contrastati, che sembrano richiamare moniti sociali e sentimenti di solidarietà e fratellanza. Queste sono opere che non contraddicono ma integrano quelle più “estatiche”, che nondimeno – nel rapimento di montagne tentacolari, dai presagi catastrofici – rivelano un tragico malessere esistenziale che anela, oltre l’apparenza fenomenica del mondo, una riconciliazione eternizzante, estatica e paradisiaca, in cui sentirsi panteisticamente uniti al flusso della vita.
Che poi opere come Il monaco del 1920-1930, Sposa mystica del 1924 circa, Ave Maria del 1927 sembrino affondare le loro radici in una lettura più cristiano-ortodossa non deve trarre in inganno, poiché esse, anche attraverso un’iconografia riconoscibile, esprimono sempre quello stesso anelare mistico e panteistico ricco di speranze edificanti, essenza e origine di tutta la produzione artistica della Werefkin.
Le parole dell’artista sono in questo senso illuminanti: «È passando attraverso sofferenze personali che noi artisti dobbiamo rappacificarci con la vita e accettarla in tutte le sue forme. Elevandoci al di sopra delle macerie della nostra vita, per gli altri dobbiamo creare il tempio della fede e della speranza, a questo siamo destinati. Al di fuori di questo, l’arte è soltanto un gioco. L’arte affonda nel cuore umano e ad esso è destinato. Ciò che dobbiamo risolvere come una dissonanza in musica non sono le nostre sofferenze personali, ma la somma di tutte le sofferenze umane. Dobbiamo soffrire per tutti e con tutti; gli altri non devono soffrire con noi, ma ritrovare nelle nostre opere la fede, l’amore, la speranza. Questa è la mia strada: è una strada scoscesa ma dà senso alla vita. L’arte, così intesa, è veramente tutto: è una missione».45
In Il monaco, Sposa mystica e Ave Maria, la pittrice ha inoltre consacrato, nell’immagine del “santo”, l’amico cantante e musicista Alfred Ernst Aye che, incontrato ad Ascona nell’estate del 1920, diventerà il suo compagno platonico (Aye era omosessuale) al quale consacrare la sua vita e le sue aspirazioni. Con lui intraprenderà nel 1925 un viaggio nella mitica Italia, che consoliderà il loro legame fatto di aiuti reciproci: lei cercherà appoggio tra i conoscenti luganesi per farlo ingaggiare come cantante in una tournée svizzera, mentre lui si adopererà, presso gallerie e musei in Germania, nella speranza di promuovere l’arte dell’amica.46
Attorno agli anni venti gli artisti che accorrevano ad Ascona erano sempre più numerosi, e per quelli che vivevano solo della propria arte le occasioni per esporre diventavano sempre più rare. È in questo contesto che Werefkin aderisce con entusiasmo alla proposta del giovane Ernst Kempter di fondare un museo comunale, del quale assume la direzione iniziando a donare alcune opere sue (La famiglia, Melodramma, Schizzo di Ascona, Le Jardin du Bon Dieu) e dei suoi amici (Casa rossa di Paul Klee, lo Studio per la raccolta della frutta di Cuno Amiet e La famiglia di Arthur Segal), adoperandosi affinché anche gli altri artisti facessero lo stesso.47 Nel piccolo catalogo del Museo comunale di Ascona si annoverano, già nel 1922, più di sessanta artisti di tutte le nazionalità, segno che il Ticino, nel dopoguerra, era diventato meta privilegiata per gli artisti europei, anche grazie al lavoro di promozione della Werefkin.48
Che gli artisti ad Ascona fossero tanti, e che fosse sempre più difficile distinguersi dalla massa, è tra le motivazioni più immediate della fondazione, nel 1924, dell’associazione artistica Der Grosse Bär (L’Orsa Maggiore), a opera della Werefkin e degli amici artisti Walter Helbig, Ernst Frick, Albert Kohler, Gordon McCouch, Otto Niemeyer-Holstein, Otto van Rees, allo scopo non solo di far conoscere il Ticino attraverso la diffusione della loro opera in Svizzera e all’estero, ma anche di offrirsi reciproco sostegno e protezione: significativo fu il rifiuto della Werefkin, pur in gravi condizioni economiche e di salute, di esporre nel 1932 al Kunstsalon Wolfsberg di Zurigo che le proponeva una mostra personale, perché non intendeva presentarla senza il gruppo dell’Orsa Maggiore.49
Ascona, con l’umanità dei suoi abitanti, la forza dei colori della sua natura, i suoi artisti e la sua storia, ha permesso alla pittrice di trovare ciò che cercava. Nel 1928, dieci anni dopo il suo arrivo in Ticino, l’artista scriveva: «Oggi la Madonna Nera non è più un posto malfamato, frequentato dai vampiri … In grigie, tetre giornate autunnali, quando le rocce grigio-nere tutt’intorno sembravano guardarti come fantasmi, anche a me è capitato che degli uccelli neri mi passassero accanto in volo, silenziosi. Ma poiché non temo né leoni né vampiri, lì tra le rocce, sola e abbandonata, ho passato una notte di Natale; ero in uno di quegli stati d’animo in cui non ha importanza se dal cielo cadono le stelle o cocomeri … Ma Dio è grande, e grande la sua amata figlia: Ascona … Abbiamo festeggiato il Natale in due: il mondo creato dall’Onnipotente ed io, ci siamo dati la mano giurandoci fedeltà. Alle luci dell’alba, quando, per dirla con Dante, le prime cime recavano mantelli dorati sulle spalle, sono scesa ad Ascona, ero un’altra persona, la nonna di Ascona, piena di amore e capace di perdonare. A questo servono i fantasmi e i vampiri di qui. Non è meravigliosa Ascona?».50
Ad Ascona Marianne Werefkin aveva trovato un luogo in cui la distanza tra il reale e l’ideale faceva tutt’uno con la sua anima d’artista.
1 Discussione sul simbolo, il segno e il suo significato nell’arte mistica, conferenza tenuta da Marianne Werefkin a Vilnius intorno al 1910, all’epoca in cui era in corrispondenza con il poeta e teorico del simbolismo Georg Choulkov; in questo volume si pubblica per la prima volta la traduzione italiana del testo. Si veda infra, pp. 110-112: 112.
2 Questo testo è la versione riveduta e aggiornata di alcuni contributi di chi scrive sulla figura della Werefkin. Si veda M. Folini, Lettres à un Inconnu (1901-1905). Considérations esthétiques de Werefkin, in Marianne von Werefkin. Œuvres peintes 1907-1936, catalogo della mostra (Gingins, Fondation Neumann, 1996), a cura di N. Brögmann, [testo bilingue tedesco/francese], Gingins 1996, pp. 81-91; Ead., Le fonti letterarie negli scritti della pittrice Marianne Werefkin attraverso l’analisi critica delle sue letture (in tedesco), in Marianne Werefkin. Die Farbe beisst mich ans Hertz, catalogo della mostra (Bonn, August-Macke-Haus, 1999-2000), a cura di B. Weidle, Bonn 1999, pp. 89-99; Ead., Marianne Werefkin: riscoprirla attraverso le fonti, in Marianne Werefkin. Il fervore della visione, catalogo della mostra (Reggio Emilia, Palazzo Magnani, 2001), a cura di S. Parmiggiani, Milano 2001, pp. 43-57; Ead., L’espressionismo mistico di Marianne Werefkin, in Arte in Ticino 1803 -2003. Il confronto con la modernità: 1914-1953, catalogo della mostra (Lugano, Museo di Belle Arti, 2003-2004), a cura di R. Chiappini, Bellinzona 2003, pp. 257-275.
3 M. Werefkin, Lettres à un Inconnu, 3 voll. (1901-1905), III, 1904 (FMW 19L-3-558/1-274), p. 24. Si cita dal testo originale conservato nel Fondo Marianne Werefkin – d’ora in poi FMW – presso il Museo comunale d’arte moderna di Ascona (ma cfr. anche M. Werefkin, Lettres à un Inconnu, a cura di G. Dufour-Kowalska, Paris 1999, rist. 2005).
4 Il movimento degli Ambulanti (dal nome russo Peredvizˇhniki, “coloro che vanno oltre”) fu la prima associazione artistica che, alla fine dell’Ottocento, si era dichiaratamente distaccata dal passato accademico. Essa fu la variante artistica del movimento illuminista popolare: i pittori si fecero un dovere morale di portare a scopo pedagogico, attraverso le esposizioni itineranti, le loro opere verso la provincia e verso il popolo. Sull’argomento si veda Arte Russa e Sovietica 1870-1914, catalogo della mostra (Torino, Lingotto, 1989), a cura di G. Carandente, Milano 1989 (con un ‘ampia bibliografia).
5 Nelle vicinanze di Mosca, ad Abramcevo, si era formato verso il 1875 il famoso “circolo di Abramcevo” intorno alla figura carismatica del grande mecenate e artista Savva Ivanovitch Mamontov che a Roma, nel 1872, aveva deciso insieme ai suoi connazionali Wassilij Polenov, Marc Antokolsky e Adrian Prachov di fondare in Russia una colonia di artisti. Questi, insieme alla vedova del musicista Serov, a suo figlio Valentin, a Ilja Repin e ai suoi figli e ai figli dello stesso Mamontov vissero un’esperienza artistica originale, grazie a quell’entusiasmo corale, a quella interscambiabilità di ruoli ispirata dall’idea di “sintesi delle arti”, dove si incontravano gli uomini e le idee della vecchia generazione degli Ambulanti con quelle della giovane generazione, rappresentata tra gli altri da K. Korovin, V. Serov, M. Vrubel, V. Vasnecov, portatori delle nuove istanze “moderniste” e “simboliste”, e con le idee e i movimenti europei (oltre che con la tradizione russa popolare). L’esperienza di Abramcevo informò molto di sé i laboratori di Talaskino e il gruppo del Mondo dell’Arte alla fine dell’Ottocento.
6 Borissov-Moussatov potrebbe essere stato uno dei tramiti fra il gruppo dei russi creatosi a Monaco alla fine dell’Ottocento e il circolo dei Benois a Parigi (che avrebbe anticipato la nascita del Mondo dell’Arte), poi – come collaboratore della rivista «Viessy» (“La Bilancia”) – con il cenacolo dei letterati simbolisti russi (Bely, Balmond, Merezˇkovskij…), e ancora con il gruppo della Rosa Scarlatta del 1904, anticipatore di quello programmaticamente simbolista della Rosa Blu del 1907. Si vedano V. Marcadé, Le renouveau de l’art pictural russe 1863-1914, Lausanne 1971 (parzialmente riprodotto, tradotto in italiano, infra, pp. 105-106); J. E. Bowlt, Esoteric Culture and Russian Society, in The Spiritual in Art: Abstract Painting 1890-1985, catalogo della mostra (Los Angeles, Los Angeles County Museum of Art, 1986-1987; Chicago, The Museum of Contemporary Art-L’Aia, Gemeentemuseum, 1987), a cura di M. Tuchman, New York 1986, pp. 165-183.
7 Per le tangenze del pensiero artistico e delle urgenze esistenziali-filosofiche dell’artista con l’ambiente del simbolismo letterario russo, si vedano J. Hahl-Koch, Marianne Werefkin und der russische Symbolismus. Studien zur Ästhetik und Kunsttheorie, München 1967 (parzialmente riprodotto, tradotto in italiano, infra, pp. 107-108); J. E. Bowlt, “Pomeriggio domenicale”: Marianne Werefkin e l’Età dell’Argento russa, in Marianne Werefkin 2001, cit., pp. 59-69; L. Laucˇkaite˙ Surgailiene˙, [Marianne Werefkin. La vita nell’arte; titolo e testo in russo], Vilnius 1992, con la pubblicazione di diverse lettere della Werefkin che attestano la diretta conoscenza di rappresentati del Simbolismo, artistico e letterario, quali Bakst, Braz, Balmont, Andraiev, Mereikovsky, Filosov ecc.
8 Di particolare interesse, e tema di alcuni contributi di chi scrive, sono i testi ai quali Werefkin, nei precoci anni attorno al 1890, dedicò particolare attenzione. Le letture relative a studi di psicologia e fisiologia applicata ruotanti attorno alle dinamiche dell’inconscio, con uno speciale interesse per i meccanismi di “suggestione”, rivelano quanto l’artista fosse interessata a dare fondamento scientifico al proprio linguaggio artistico, per poterlo affrancare dalla rappresentazione mimetica della realtà. Si veda M. Folini, in Marianne Werefkin 2001, cit.
9 Per le motivazioni storico-filosofiche sottese alla sua radicale scelta di smettere di dipingere, si veda il saggio di N. Misler, “Come salvare Salomè?” Marianne Werefkin e la danza, in Marianne Werefkin 2001, cit., pp. 77-85 (parzialmente riprodotto infra, pp. 104-105). Per la durata degli anni di astensione dalla pittura, si veda l’articolata nota 3 del mio L’espressionismo mistico, cit., in Arte in Ticino 2003, p. 340.
10 In merito alla relazione artistica e sentimentale di Werefkin e Jawlensky, si veda la particolare lettura in chiave filosofica proposta da G. Dufour-Kowalska, Marianne Werefkin e Alexej Jawlensky: una stagione all’inferno, in Marianne Werefkin 2001, cit., pp. 87-99.
11 Nicoletta Misler, sul tema dell’androgino ricorrente nell’arte della pittrice, suggerisce un possibile collegamento con la diffusione delle idee psicanalitiche di Otto Gross (1877-1920), animatore loquace del Caffè Stephan, nonché di quelle teosofiche di Rudolf Steiner, ritenendole riferimenti importanti collegati alla nascita dell’Espressionismo a Monaco; per il Ticino, esse assumono altrettanto significato, dal momento che le si ritroveranno tra le diverse sperimentazioni utopiche di Monte Verità ad Ascona (dove Werefkin vivrà per vent’anni): l’una capeggiata dallo stesso Otto Gross, l’altra dai fondatori Ida Hofmann e Henri Oendenkoven, seguaci della teosofa Melene Petrovna Blavatsky; cfr. N. Misler, in Marianne Werefkin 2001, cit., p. 82.
12 Idee note fin dal 1891 attraverso le sue letture, ma desumibili anche dalle teorie sull’ornato degli ambienti Jugendstil e dal romanticismo tedesco, con Goethe e Wagner in primis, in particolare per l’idea di Gesamtkunstwerk (“sintesi delle arti”) di quest’ultimo, alla quale si collega quella sinestetica presente già nel Simbolismo russo e francese. Già nel 1903 l’artista, parlando dell’arte del berlinese Hans Reinhold Lichtenberger, diceva: «Egli non comprende il colore che nel suo cangiantismo. Non comprende il colore nel suo semplice valore … Ma la necessità della sua natura tedesca di classificare tutto … fa sì che più di una cosa gli sfugga. Egli vede in Toulouse-Lautrec, in Zuloga, solo dei disegnatori. Non sente che per loro il disegno è solo una base per il colore. Che, in loro, il colore ha il suo valore intrinseco… È il verde in tutta la sua gamma accanto a una gamma di violetto … Lichtenberger vede il colore attraverso l’aria, l’illuminazione … Lo vede da artista… Ma non è che un punto di vista come lo è quello di vederlo in se stesso. Tutt’altra cosa in Kubin, austriaco quest’ultimo … La sua arte è forte, personale a livello supremo. Egli sa trovare una forma imprevista a delle idee le più straordinarie»: Werefkin, Lettres, cit., II, 1903 (FMW 19L-2-557/1-388), pp. 120-121.
13 Già Clemens Weiler, il primo studioso che ha analizzato le Lettres à un Inconnu, ha sottolineato la stretta familiarità tra le idee estetiche della Werefkin e quelle di Lo spirituale nell’arte di Kandinsky (cfr. M. Werefkin, Briefe an einen Unbekannten 1901-1905, a cura di C. Weiler, Köln 1960). A ciò sono seguite le considerazioni di Valentine Marcadé, la quale afferma che per essere persuasi dell’influsso di Werefkin sul pensiero di Kandisnky espresso in Lo spirituale nell’arte basti confrontare alcuni passaggi delle Lettres à un Inconnu, per esempio là dove la pittrice sostiene – con Van Gogh – che i due “non-colori”, il bianco e il nero, siano colori autonomi al pari degli altri, o i brani sul ruolo costruttivo dei colori nell’arte di Gauguin (cfr. Marcadé 1971, cit, p. 144). Le citazioni su Van Gogh e Gauguin si trovano in Werefkin, Lettres, cit., III, 1905 (FMW 19L-3-558/1-274), pp. 102-103 (Van Gogh) e 56-59 e 188-189 (Gauguin).
14 Werefkin, Lettres, cit., III, 1905 (FMW 19L-3-558/1-274), pp. 123-124 sgg.
15 Per la concezione dell’arte come promulgatrice di nuovi valori estetici ed etici, si veda Werefkin, Lettres, cit., III, 1905 (FMW 19L-3-558/1-274), p. 101. Per la concezione dell’arte come sacerdozio si veda il capitolo L’art consideré comme un apostolat in Marcadé 1971, cit., p. 32.
16 Werefkin, Discussione, cit., si veda infra, p. 112.
17 Werefkin, Lettres, cit., III, 1905 (FMW 19L-3-558/1-274), p. 126.
18 Citato in B. Fäthke, Marianne Werefkin. Leben und Werk (1860-1938), pubblicato in occasione della mostra “Marianne Werefkin e i suoi amici” (Ascona, Museo comunale d’arte moderna, 1988; Monaco, Villa Stuck 1988-1989), München 1988; trad. it. Ascona 1988, p. 70. Il documento originale si trova nell’archivio Werefkin conservato presso lo stesso Fäthke a Wiesbaden.
19 Per un quadro esaustivo delle vicende che hanno condotto alla scissione della NKVM e alla nascita del Blaue Reiter, e sulla posizione della Werefkin a favore dell’arte astratta di Kandinsky, rifiutata invece dalla parte più conservativa della NKVM, si veda B. Fäthke, Werefkin la “Blaue Reiterin”, in Marianne Werefkin 2001, cit., pp. 29-41: 37-38 e Id., Marianne Werefkin, München 2001, ed. it. München 2003, pp. 122-124, 163-165, 172-183.
20 Per il ruolo di primo piano svolto dalla Werefkin in questo contesto, si veda B. Salmen, Introduzione, in Marianne Werefkin a Murnau. Arte e teoria, amici e maestri, catalogo della mostra (Ascona, Museo comunale d’arte, 2003), a cura di M. Albisetti e M. Folini, Ascona 2003, pp. 13-15 (parzialmente riprodotto infra, pp. 100-102).
21 Riscontri con Vladimir Sergeevicˇ Solov’ëv e la teosofia si ritrovano in diversi passaggi delle sue Lettres à un Inconnu; il brano seguente suggerisce una chiave di lettura del disegno Le anime folli: «E poi ci sono le anime folli. Come il procedere cadenzato degli astri celesti è attraversato dalla corsa delle comete, così il procedere tranquillo dell’umanità, il corteo trionfante dei grandi, le regioni luminose dei genii sono attraversati dalla corsa delle anime ardenti, ultime gocce del genio, che si precipitano dal fondo dell’umanità direttamente verso Dio. Esse vengono a “struggersi” alla sua luce per ricadere là da dove provengono. Esse non producono nulla, esse non spiegano niente, esse amano … Ma sono esse che recano la vera leggenda di Dio all’umanità che lo teme … La loro strada è il cammino dell’amore: esse amano Dio verso cui tendono, esse amano l’umanità da cui provengono. Qual è il loro cammino? Esse lo ignorano, ma ovunque esse passano un raggio celeste è passato, il riflesso di ciò che esse hanno visto per un istante. E l’umanità nella sua ombra, e i genii nella loro gloria e Dio nella sua grandezza, per un istante si fanno uno: l’amore li unisce»: Werefkin, Lettres, cit., III, 1905 (FMW 19L-3-558/1-274), pp. 150-158. Il disegno Le anime folli si trova nel taccuino degli schizzi FMW 52-1-688c1/42-43. Un altro brano è il seguente: «Dio è il bene e il male all’unisono, nella compensazione dell’uno nell’altro, è l’armonia, l’accordo del bene con il male. Al di fuori di Dio, il bene e il male non si uniscono mai … poiché egli è allo stesso tempo il male che compensa il bene … Amo Satana e le sue opere, perché è il cammino verso Dio … Dio è la speranza di coloro che hanno conosciuto Satana, in lui essi trovano il bene che sostituirà il male da essi arrecato»: Werefkin, Lettres, cit., III, 1905 (FMW 19L-3-558/1-274), pp. 40-41. Si veda anche C. Belloli, Il contributo russo alle avanguarde plastiche, catalogo della mostra (Milano-Roma, Galleria del Levante), 1964, p. 10. Secondo Bernd Fäthke, la Werefkin seguì le lezioni di Solov’ëv a San Pietroburgo (Fäthke 2001, ed. it. 2003, cit., p. 188).
22 Per un’analisi particolarmente appropriata dell’opera Pomeriggio domenicale, si rimanda a J. E. Bowlt, in Marianne Werefkin 2001, cit.
23 Nel 1908 è presente alla mostra della Secessione a Berlino e al Salon di San Pietroburgo; nel 1909-1910 alla prima esposizione internazionale di Odessa organizzata da Vladimir Izdebski (proseguita a Kiev, Riga, Nikolaïev e San Pietroburgo); nel 1910-1911 partecipa alla seconda esposizione internazionale di Odessa e a quella moscovita del Fante di Quadri organizzata dai fratelli Burljuk, da Larionov e Goncˇarova; nel 1911 espone alla mostra della Neue Secession a Berlino. Poi, nel 1912 – dopo le “scandalose” esposizioni della NKVM (1909, 1910, 1912) in Germania e all’estero (tra cui al Kunsthaus di Zurigo nel 1912), e dopo la famosa scissione di Kandinsky e Franz Marc per fondare il Blaue Reiter – anche Werefkin e Jawlensky lasciano la NKVM e partecipano all’esposizione del Blaue Reiter alla galleria berlinese Der Sturm di Herwarth Walden. Nel 1913 la Werefkin partecipa a diverse collettive (Brema, Lipsia, Monaco, Budapest), alla seconda edizione della mostra “Neue Kunst” alla Galleria Goltz di Monaco, e all’”Erster Deutscher Herbstsalon” alla Galleria Der Sturm; poi, nel 1914, espone a Dresda, alla Arnold Galerie, a Helsingfors, Trondheim, Göteborg e a Malmö (mostra organizzata da Oscar Björck).
24 C. Weiler, Alexej Jawlensk: Köpfe, Gesichte, Meditationen, Hanau 1970, pp. 119 sgg.
25 Alexander Dimitry Chruschtschoff conosce Werefkin, Jawlensky e Kandinsky a Monaco verso il 1898, quando stava svolgendo delle ricerche sulla tecnica a tempera nella pittura antica. Si vedano B. Fäthke, Marianne von Werefkin. Linee, forme e colori, in Marianne Werefkin a Murnau 2003, cit., p. 35 (parzialmente riprodotto infra, pp. 98-99); J. Hahl-Koch, Kandinsky und Kardowsky. Zum Porträt der Maria Krustschoff, «Pantheon», 32, 1974, 4, pp. 382 sgg.
26 La notizia si trova nel quaderno di lettura dedicato alla “bibliografia generale” dove la pittrice commenta il libro di Romola Nijinsky sul marito (letto nel 1936), e afferma di conoscere il famoso danzatore dal 1911 e di essere stata lei a trattare tutta «la storia del rientro di Vasa [Nijinsky] dall’Ungheria in Svizzera» (FMW16L-1-539/1-78).
27 Che la Werefkin abbia aiutato i Sacharoff, nel 1919-1920, nell’organizzazione della loro tournée svizzera, lo si deduce dalla corrispondenza tenuta dalla pittrice con A. Lévi, della Galerie Moos di Ginevra, che le offre piena collaborazione in questo compito. Si veda la lettera di Lévi a Werefkin del 28 agosto 1920 (FMW 1L-3-35). Anche nel carteggio intercorso tra Werefkin e Lily Klee (moglie di Paul) si accenna al fatto. Si veda la lettera di Werefkin a Lily Klee dell’ottobre-novembre 1925 (Berna, Nachlass der Familie Klee).
28 Si veda P. Klee, Diari 1898-1918, trad. it. Milano 1990 (4a ed.), nonché il carteggio intercorso nel 1926 tra Werefkin, Hans Arp, Sophie Taeuber-Arp e Ludwig Hans Neitzel per la vendita di tre opere di Klee di proprietà dell’artista, dove si evidenzia l’affetto e la solidarietà che tutti coloro le hanno dimostrato durante le trattative di vendita; si vedano in particolare la minuta di lettera della Werefkin a Hans Arp, s.d. (FMW 2L-4- 150) e le lettere a lei inirizzate di Sophie Taeuber Arp e Hans Arp, 26 dicembre 1926 (FMW 2L-4-151) e di Ludwig Hans Neitzel, 30 dicembre 1926 (FMW 2L-4-153).
29 Weiler 1970, cit.
30 Che l’arte di Marianne, negli anni di Ascona, procedesse lungo queste due direttive (quella “visionaria” e quella “realistica”) fu sottolineato dagli stessi suoi contemporanei in articoli pubblicati su riviste e quotidiani, mentre più di recente l’ha efficacemente confermato T. Kneubühler, Gli artisti, gli scrittori e il Canton Ticino (dal 1900 a oggi), in Monte Verità. Antropologia locale come contributo alla riscoperta di una topografia sacrale moderna, catalogo della mostra (Ascona, Museo comunale-Isole di Brissago, 1978), a cura di H. Szeemann, Milano 1978, pp.159-161. Si vedano anche E. Bleuler, Marianne von Werefkin, «Das Ideale Heim. Eine Schweizerische Monatsschrift für Kunst und Leben», 1933, 1 (gennaio), pp. 25-27 e U. Amstutz, Die Malerin Marianne von Werefkin in Ascona, «Sie und Er», 18, 1932, pp. 445-447 (queste riviste, di difficile reperibilità, si possono trovare nel FMW, segnate FMW 4L-7-300 e FMW 4L-8-308).
31 I quaderni di lettura conservati nel FMW sono 57, di cui due di “bibliografia generale”. Nel corso di tutta la sua vita Werefkin ha elencato i libri che ha letto, con riassunto e commento nella lingua di edizione, e annotando in ciascun libro il numero di riferimento dei quaderni. Le notizie riportate si riferiscono a uno di questi due quaderni (FMW 14L-2-532).
32 Docteurs Caufeynon et Jaf [J. Fauconnay], Les Messes noires. Le Culte de Satan-Dieu, Paris 1905.
33 Werefkin aveva già letto di Joséphin-Aimé (detto Sâr) Péladan le opere Comment on devient mage (1892) e Comment on devient fée (1893). Che in questi anni torni a leggere Péladan non è segno di curiosità, ma di rinnovato interesse verso il pensiero filosofico dell’autore. Il quaderno in cui si trovano le notizie riportate reca il titolo Philosophie et Morale (FMW 13L-2-528/1-100).
34 A proposito del romanzo La Maison di Henry Bordeaux, che racconta di tradimenti e amori, la pittrice mette in evidenza la comunanza tra questa storia e quella da lei vissuta con Jawlensky, confermando indirettamente che il rapporto sentimentale tra quest’ultimo e Helene Nesnakomoff continuava, e che lei ne soffriva. Si vedano i quaderni di lettura segnati FMW 13L-2-528/1-100 e FMW 12L-4-526/1-198.
35 C. Goll, I. Goll, Meiner Seele Töne: das literarische Dokument eines Lebens zwischen Kunst und Liebe, aufgezeichnet in ihren Briefen, Bern 1978, pp. 16 sgg.
36 Dal carteggio tra la Werefkin, Han Coray e Ludwig Hans Neitzel si apprende che Coray amava molto l’arte della pittrice (le acquisterà un’opera) e che lei, pur se il rapporto con Jawlensky stava precipitando, continuava ad occuparsi della promozione della sua arte: è a lei che si chiede di chiarire il recente approdo all’astrattismo di Jawlensy riscontrabile nelle Variazioni su un tema paesaggistico. Si vedano le lettere di Han Coray a Werefkin, 16 novembre 1916 (FMW 1L-2-23), di Han Coray a Alexej Jawlensky, 16 novembre del 1916 (FMW 1L-2-24), di Ludwig Hans Neitzel a Werefkin, 16 dicembre 1916 e 23 gennaio 1917 (FMW 1L-2-25 e FMW 1L-2-26).
37 Per la storia di Monte Verità, si veda Monte Verità 1978, cit.; Senso della vita e bagni di sole. Esperimenti di vita e arte al Monte Verità, a cura di A. Schwab e C. Lafranchi, Ascona 2001; M. Folini, Il Monte Verità di Ascona, Berna 1998.
38 Per queste notizie si rimanda a H. Richter, Dada: arte e antiarte, ed. it. Milano 1966, pp. 81-87. Infine non va sottovalutato che la Werefkin già a Monaco poteva aver conosciuto Rudolf von Laban e Mary Wigman, sia per il suo interesse per la danza che tramite la sua amicizia con i Sacharoff. Nei taccuini degli schizzi della pittrice si riscontrano molteplici disegni dedicati alla danza e ai ballerini, tra cui Nijinsky, Isadora Duncan, Charlotte Bara e, appunto, Sacharoff.
39 C. Goll, La Poursuite du vent, Paris 1976, p. 72.
40 Si veda F. Glauser, Dada, Ascona e altri ricordi, trad. it Palermo 1991, p. 45. Hermann Hesse fu in contatto con Werefkin fin dal 1915, quando le inviava estratti delle sue novelle pubblicate in giornali svizzeri (FMW 4L-2-255, FMW 4L-2-256, FMW 4L-2-257, FMW 4L-2-258, FMW 4L-2-259, FMW 4L-2-260).
41 Per dati ed eventi biografici relativi al sodalizio con Jawlensky, al sostegno offerto dai coniugi Klee nell’occuparsi dell’abitazione della coppia a Monaco fino al breve viaggio del 1920 per recuperare opere e oggetti ancora lì custoditi, si veda Fäthke 2001, ed. it. 2003, cit., pp. 200-201.
42 Le informazioni sono ricavate da B. Holderegger, S. Lüthi, Der Grosse Bär, in Künstlergruppen in der Schweiz 1910-1936, catalogo della mostra (Aarau, Aargauer Kunsthaus, 1981), a cura di B. Stutzer, [testo bilingue tedesco/francese], Aarau1981, pp. 96-120. Francesco Sapori giudicò le opere di Jawlensky «prodotti d’un cervello in isconquasso»; di quelle delle donne presenti in mostra, compresa la Werefkin, non disse altro che «basterà un sasso, e una croce, col qui giace» (F. Sapori, La dodicesima Esposizione d’arte a Venezia, 1920, Bergamo 1920). Si veda inoltre la lettera di R. Panzoni (direttore amministrativo della Biennale di Venezia) a Marianne, 2 febbraio 1920 (FMW 1L-3-32). Per la mostra retrospettiva alla Galerie Der Sturm di Berlino, si veda V. Pirsich, Der Sturm: eine Monographie, Herzberg 1985, pp. 681-682.
43 Per il gruppo artistico Le Falot, si veda P.-A. Jaccard, Le Falot, in Künstlergruppen 1981, cit., pp. 46-59. Per la mostra monografica alla Galerie Neue Kunst Fides si veda il carteggio tra Rudolf Probst e Werefkin (FMW 2L-4-130, FMW 2L-4-133, FMW 2L-4-134).
44 Citato in Fäthke 2001, ed. it. 2003, cit., p. 202.
45 Ivi, pp. 216-217.
46 Per il viaggio in Italia si veda l’interessante contributo di M. Albisetti Olivotto, “Ausfahrt nach Italien”-” Viaggio in Italia”, in Marianne Werefkin 2001, cit., pp. 101-107.
47 Per la cronistoria del Museo comunale di Ascona, si vedano E. Beretta, Marianne von Werefkin et Ascona, in Marianne von Werefkin 1996, cit., pp. 12-19 (parzialmente riprodotto infra, pp. 19-21, nella versione italiana del testo fornita dall’autore); J. Flach, Ascona gestern und heute, Zürich-Stuttgart 1960. Nel FMW si trova una lettera della Municipalità di Ascona che nel 1930 si rivolge alla pittrice per dar conto delle spese e liquidare gli arretrati di affitto del museo, segno che Marianne ancora se ne stava occupando (FMW 1L-2-11).
48 Si veda M. Folini, Il clima artistico ad Ascona e al Monte Verità, in Arte in Ticino 2003, cit., pp.175-201.
49 Si veda il carteggio con il Kunstsalon Wolfsberg di Zurigo (FMW 2L-2-88, FMW 2L-2-89, FMW 2L-2-90).
50 Il brano si trova in Marianne von Werefkin, 1860-1938: Impressionen von Ascona, a cura di F. Jensen, Ascona 1988. Il manoscritto originale di questo testo, in tedesco e con disegni dell’autrice, è andato disperso in seguito alla vendita delle singole pagine. Il volume fu dedicato dalla pittrice a Hans Trog, redattore della Neue Zürcher Zeitung, che l’ammirava come artista e come scrittrice.
24
novembre 2009
Marianne Werefkin – L’amazzone dell’avanguardia
Dal 24 novembre 2009 al 14 febbraio 2010
arte contemporanea
disegno e grafica
disegno e grafica
Location
MUSEO DI ROMA IN TRASTEVERE
Roma, Piazza Di Sant'egidio, 1B, (Roma)
Roma, Piazza Di Sant'egidio, 1B, (Roma)
Biglietti
€ 5,50 intero; € 4 ridotto gratuito per le categorie previste dalla tariffazione vigente
Orario di apertura
tutti i giorni ore ore 10.00 – 20.00.
La biglietteria chiude alle 19. Chiuso il Lunedì
Vernissage
24 Novembre 2009, ore 18
Editore
MANDRAGORA
Ufficio stampa
ZETEMA
Autore
Curatore