Si tratta di una raccolta di opere ispirate alla tradizione figurativa italiana del 400-500. Accomunate dalla nostalgia per l’antico e dal rifiuto della modernità, il ciclo di dipinti (in gran parte oli su tavole di pioppo preparate alla maniera dei Maestri del Rinascimento) costituisce una sorta di manifesto per un “nuovo Umanesimo”, per una società rinnovata in grado di restituire dignità e centralità all’uomo. Ed è con questo termine che l’artista romano ama definire la propria pittura, per sottolineare la sua appartenenza alla scuola figurativa italiana, e per sentirsi quindi erede e portatore di quella sensibilità, ma anche come antidoto alla “frammentazione intellettuale e al disorientamento morale” della società contemporanea. Il ciclo di opere attualizza, attraverso una sintesi pittorica del segno e del colore, l’insegnamento dei Maestri del passato. Il richiamo ai classici è però filtrato da una sensibilità moderna, inquieta, che traspare dall’utilizzo della luce e del colore. Paesaggi desolati e primordiali, quasi un “ricordo pierfranceschiano”, volti che sembrano provenire da un universo lontano, che rievocano la sensibilità pittorica di Giovanni Bellini, di Leonardo, ma anche di Carrà, di Morandi e di taluni esponenti della Scuola di Castiglioncello. La “Madonna dell’esilio”, opera emblematica della mostra, è immagine enigmatica della solitudine, del disagio e dell’estraneità dell’artista nel mondo contemporaneo; sfinge silente e desolata, che evoca un mondo lontano, bellissimo, perfetto, forse irraggiungibile. “La mia pittura”, -dice l’artista-, “pone l'uomo al centro dell'universo. Nell'attuale confusione di valori, mi rassicura l'idea di avere un punto di riferimento certo, una tradizione pittorica che è anche filosofia di vita, visione del mondo e misura di tutte le cose”.