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Mario Ferrante – Ventre molle. Napoli come Rio
Questa mostra vuole essere il tentativo di raccontare, in punta di piedi, l’amore di Mario Ferrante per Napoli e Rio che, più di ogni altra dove ha vissuto, gli hanno trasmesso la possibilità di piangere spesso di gioia, nella piena consapevolezza di quanto possa fare male anche l’allegria. A Rio si chiama saudade a Napoli appocundria!
Comunicato stampa
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Ferrante tra Rocinha e Montecalvario
Il vortice peristaltico delle latitudini
"Gli artisti hanno il diritto di essere modesti
e il dovere di essere vanitosi"
K. Kraus (1874-1936), Dell'artista, 1922
C’è un momento in cui tutto ciò che esiste, nel tempo e nello spazio, in cielo ed in terra, nella realtà come nella finzione precipita in un quadro. Il quadro è lì per accogliere il vissuto d’artista. Il quadro è lì per assorbire echi e restituirli al mondo. Il quadro è lì quale luogo dove si opera la magica metamorfosi dell’osservazione del circostante: la trasformazione di ogni cosa in pittura e la trasposizione nello spazio “altro” dell’arte. Il quadro dunque nasce per accumulo, cresce attraverso una stratificazione di memorie, si arricchisce di impressioni e trame, riunisce e raccoglie - in sintesi - gli elementi eterogenei che sono l’esperienza del sentire a colori.
Per Ferrante - che ha efficacemente dimostrato all’intero establishment dell’arte di aver mandato a memoria la lezione del Novecento - il quadro è inoltre l’endroit di ciò che può essere solo ripetuto: in linea con il pensiero goethiano (“Ogni buona idea è già stata pensata, occorre solo pensarla un’altra volta”) egli torna ripetutamente sui propri cicli (tra i quali quello dei meridioni del mondo, cui Napoli ha tributato un irripetibile omaggio nell’estate del 2007), consapevole che la sola, vera autenticità risiede nella ricorrenza dei temi. La pittura del resto è un magma millenario dove alberga e ribollisce il repertorio collettivo di opere ed immagini che
accompagnano come un mantra mulinante le nostre esistenze.
Per Ferrante, occorre rammemorarlo, l’abbrivio del quadro è sempre una vicenda; la narrazione di un accadimento più o meno reale o parzialmente immaginario; un frammento del quotidiano suo errare alla ricerca del fotogramma giusto da
invescare nella tela. Un avvenimento diventa allora il volano che alimenta “la sfida” con il quadro, come più volte ha rilevato Gabriele Simongini parlando del periodare artistico ferrantiano e del suo vulcanismo cromatico nell’interpretare la luce. Non si tratta - richiamiamo anche questo alla memoria - di un’ambage d’artista in pugna per la corretta esegesi del racconto (anche se ciò potrebbe farlo ritenere se si considera la minuziosità nell’invenzione dei titoli, questi sì, didascalici e narranti!), ma di una programmatica distensione ad accogliere il dipanarsi dell’esistenza collettiva, delle “cose che succedono”, di ciò che “càpita” al consorzio umano nell’abulia e nell’indolenza di certe fragilità quotidiane.
È cosi che lazzari e garotos, scugnizzi e meninos de rua, macumbeiras e vaiasse finiscono nelle tele di Ferrante, risucchiati nel vortice peristaltico delle latitudini, tra saudade e appocundria.
Ferrante - carioca e campano, come lo ha definito Francesco Giulio Farachi nell’illuminato suo intervento in catalogo per la rassegna partenopea del 2007 - cita dunque le proprie impressioni sulla traversata dell’Ade di un Sud nero e selvoso, rinvenibili nelle memorie nostalgiche degli anni della propria infanzia (ma anche nei
report dei numerosi suoi viaggi compiuti in età adulta all’ombra del Corcovado). È proprio lì - in quel luogo indefinito ed indefinibile della ricordanza - che fatalmente si compie l’alchimia trasmigrante delle geografie, dove le favelas convivono con i bassi dei quartieri spagnoli e l’aborrimento e la mala fama di Rocinha non desta
apprensione più del vicolo buio di Montecalvario o di Avvocata, in una Napoli dai mille incanti e dalle mille risorse. E a delimitare il confine tra i due luoghi c’è la sola nostra sensibilità, quella membrana sottilissima di consenso e solidarietà, dove l’arte è solo il pretesto per l’incontro tra due mondi lontani ma insospettabilmente contigui l’uno all’altro. Napoli come Rio.
Attraverso un’elaborazione basata sulla stratificazione del ricordo Ferrante, dunque, giunge a fare del quadro l’optimus locus per quel palcoscenico irripetibile che è la vita, dove si attua la commedia autentica del quotidiano, con personaggi e comprimari estratti dal registro delle latitudini, inconsapevoli presenze del
reconditorio d’artista.
Sono opere - quelle provvidamente selezionate per questa esposizione da Mauro Pulzella ed Augusto Ozzella - che tracciano la sintesi del seducente gioco dei rimandi sopra e sotto l’equatore e nelle quali si assiste - in controtendenza rispetto al ciclo “Maschere ed Anime” (2003/2007), che pur aveva interessato temi analoghi - al recupero di una certa figurazione formale (salvo le inevitabili licenze che creano un
microcosmo sintattico all’interno della rassegna) a vantaggio di una riorganizzazione
nella texture dove il dialogo tra i piani e le campiture è affidato al solo colore, che
appare ora controllato con la perizia di un cartografo.
Ferrante è un artista - mi piace ripeterlo ancora una volta, a distanza di anni dal mio primo contributo critico per un suo catalogo - dall’immaginazione fervidissima, e riesce a fare tesoro della propria storia personale, come motivo fondante dell’aire della sua pittura. È un pittore colto - ça va sans dire - come tanti pittori di una certa generazione che non si accontenta di creare opere belle, gratificanti, realistiche, che
soddisfacciano un eventuale committente, ma le vogliono caricare di contenuti. A questa attitudine - mai corriva, sempre invece forte e meticolosa - Ferrante porta la propria specificità, carica di dramma e di pathos, di azione e di passione, di dignità e di decoro. Claudio Strinati ha giustamente messo in rilievo questo aspetto della sua pittura, dicendo che essa “ci viene da quel fertilissimo terreno d’attività creativa che è l’area campana, i cui segni del patrimonio, sia come realtà ancestrale di cultura antropologica, animata di proiezioni animistiche e mitopoietiche, sia come consapevolezza della recherche che vi si è svolta (e che è tuttora in atto), Ferrante li ha sdoganati nel mondo - unitamente ad un gruppo più o meno coeso di altri nomi che si applicano nelle arti figurative contemporanee - riscontrandoli in altri ambienti
culturali internazionali che lo hanno interessato nel corso della propria esperienza di artista, facendosene immaginativamente interprete ed ambasciatore”.
Ferrante non si accontenta tuttavia dell’oggettiva “bravura” raggiunta (intesa, questa, come valentia e perizia nel “raffigurare”), della corporalità che riesce a dare alle proprie opere, ma desidera che essa (la riconosciuta abilità) e che esse (ogni tela, ogni modellato, ogni grafica) continuino a vivergli dentro, a pulsare nelle proprie vene, ad alimentare il brivido che le ha generate, a scortarlo verso la persuasione di aver saputo bene interpretare e “fissare” quell’attimo fuggente della visione, di aver vinto “la sfida” con il quadro. La “conquista”, del resto, ha lo stesso sapore di quella goccia di alcol che completa il prodigio di una giornata.
Massimo Rossi Ruben
Il vortice peristaltico delle latitudini
"Gli artisti hanno il diritto di essere modesti
e il dovere di essere vanitosi"
K. Kraus (1874-1936), Dell'artista, 1922
C’è un momento in cui tutto ciò che esiste, nel tempo e nello spazio, in cielo ed in terra, nella realtà come nella finzione precipita in un quadro. Il quadro è lì per accogliere il vissuto d’artista. Il quadro è lì per assorbire echi e restituirli al mondo. Il quadro è lì quale luogo dove si opera la magica metamorfosi dell’osservazione del circostante: la trasformazione di ogni cosa in pittura e la trasposizione nello spazio “altro” dell’arte. Il quadro dunque nasce per accumulo, cresce attraverso una stratificazione di memorie, si arricchisce di impressioni e trame, riunisce e raccoglie - in sintesi - gli elementi eterogenei che sono l’esperienza del sentire a colori.
Per Ferrante - che ha efficacemente dimostrato all’intero establishment dell’arte di aver mandato a memoria la lezione del Novecento - il quadro è inoltre l’endroit di ciò che può essere solo ripetuto: in linea con il pensiero goethiano (“Ogni buona idea è già stata pensata, occorre solo pensarla un’altra volta”) egli torna ripetutamente sui propri cicli (tra i quali quello dei meridioni del mondo, cui Napoli ha tributato un irripetibile omaggio nell’estate del 2007), consapevole che la sola, vera autenticità risiede nella ricorrenza dei temi. La pittura del resto è un magma millenario dove alberga e ribollisce il repertorio collettivo di opere ed immagini che
accompagnano come un mantra mulinante le nostre esistenze.
Per Ferrante, occorre rammemorarlo, l’abbrivio del quadro è sempre una vicenda; la narrazione di un accadimento più o meno reale o parzialmente immaginario; un frammento del quotidiano suo errare alla ricerca del fotogramma giusto da
invescare nella tela. Un avvenimento diventa allora il volano che alimenta “la sfida” con il quadro, come più volte ha rilevato Gabriele Simongini parlando del periodare artistico ferrantiano e del suo vulcanismo cromatico nell’interpretare la luce. Non si tratta - richiamiamo anche questo alla memoria - di un’ambage d’artista in pugna per la corretta esegesi del racconto (anche se ciò potrebbe farlo ritenere se si considera la minuziosità nell’invenzione dei titoli, questi sì, didascalici e narranti!), ma di una programmatica distensione ad accogliere il dipanarsi dell’esistenza collettiva, delle “cose che succedono”, di ciò che “càpita” al consorzio umano nell’abulia e nell’indolenza di certe fragilità quotidiane.
È cosi che lazzari e garotos, scugnizzi e meninos de rua, macumbeiras e vaiasse finiscono nelle tele di Ferrante, risucchiati nel vortice peristaltico delle latitudini, tra saudade e appocundria.
Ferrante - carioca e campano, come lo ha definito Francesco Giulio Farachi nell’illuminato suo intervento in catalogo per la rassegna partenopea del 2007 - cita dunque le proprie impressioni sulla traversata dell’Ade di un Sud nero e selvoso, rinvenibili nelle memorie nostalgiche degli anni della propria infanzia (ma anche nei
report dei numerosi suoi viaggi compiuti in età adulta all’ombra del Corcovado). È proprio lì - in quel luogo indefinito ed indefinibile della ricordanza - che fatalmente si compie l’alchimia trasmigrante delle geografie, dove le favelas convivono con i bassi dei quartieri spagnoli e l’aborrimento e la mala fama di Rocinha non desta
apprensione più del vicolo buio di Montecalvario o di Avvocata, in una Napoli dai mille incanti e dalle mille risorse. E a delimitare il confine tra i due luoghi c’è la sola nostra sensibilità, quella membrana sottilissima di consenso e solidarietà, dove l’arte è solo il pretesto per l’incontro tra due mondi lontani ma insospettabilmente contigui l’uno all’altro. Napoli come Rio.
Attraverso un’elaborazione basata sulla stratificazione del ricordo Ferrante, dunque, giunge a fare del quadro l’optimus locus per quel palcoscenico irripetibile che è la vita, dove si attua la commedia autentica del quotidiano, con personaggi e comprimari estratti dal registro delle latitudini, inconsapevoli presenze del
reconditorio d’artista.
Sono opere - quelle provvidamente selezionate per questa esposizione da Mauro Pulzella ed Augusto Ozzella - che tracciano la sintesi del seducente gioco dei rimandi sopra e sotto l’equatore e nelle quali si assiste - in controtendenza rispetto al ciclo “Maschere ed Anime” (2003/2007), che pur aveva interessato temi analoghi - al recupero di una certa figurazione formale (salvo le inevitabili licenze che creano un
microcosmo sintattico all’interno della rassegna) a vantaggio di una riorganizzazione
nella texture dove il dialogo tra i piani e le campiture è affidato al solo colore, che
appare ora controllato con la perizia di un cartografo.
Ferrante è un artista - mi piace ripeterlo ancora una volta, a distanza di anni dal mio primo contributo critico per un suo catalogo - dall’immaginazione fervidissima, e riesce a fare tesoro della propria storia personale, come motivo fondante dell’aire della sua pittura. È un pittore colto - ça va sans dire - come tanti pittori di una certa generazione che non si accontenta di creare opere belle, gratificanti, realistiche, che
soddisfacciano un eventuale committente, ma le vogliono caricare di contenuti. A questa attitudine - mai corriva, sempre invece forte e meticolosa - Ferrante porta la propria specificità, carica di dramma e di pathos, di azione e di passione, di dignità e di decoro. Claudio Strinati ha giustamente messo in rilievo questo aspetto della sua pittura, dicendo che essa “ci viene da quel fertilissimo terreno d’attività creativa che è l’area campana, i cui segni del patrimonio, sia come realtà ancestrale di cultura antropologica, animata di proiezioni animistiche e mitopoietiche, sia come consapevolezza della recherche che vi si è svolta (e che è tuttora in atto), Ferrante li ha sdoganati nel mondo - unitamente ad un gruppo più o meno coeso di altri nomi che si applicano nelle arti figurative contemporanee - riscontrandoli in altri ambienti
culturali internazionali che lo hanno interessato nel corso della propria esperienza di artista, facendosene immaginativamente interprete ed ambasciatore”.
Ferrante non si accontenta tuttavia dell’oggettiva “bravura” raggiunta (intesa, questa, come valentia e perizia nel “raffigurare”), della corporalità che riesce a dare alle proprie opere, ma desidera che essa (la riconosciuta abilità) e che esse (ogni tela, ogni modellato, ogni grafica) continuino a vivergli dentro, a pulsare nelle proprie vene, ad alimentare il brivido che le ha generate, a scortarlo verso la persuasione di aver saputo bene interpretare e “fissare” quell’attimo fuggente della visione, di aver vinto “la sfida” con il quadro. La “conquista”, del resto, ha lo stesso sapore di quella goccia di alcol che completa il prodigio di una giornata.
Massimo Rossi Ruben
14
settembre 2013
Mario Ferrante – Ventre molle. Napoli come Rio
Dal 14 al 30 settembre 2013
arte contemporanea
Location
CASTEL DELL’OVO
Napoli, Via Luculliana, (Napoli)
Napoli, Via Luculliana, (Napoli)
Orario di apertura
Lunedì – Sabato: 9.00-13.00 / 16.00-18.30 Domenica: 9.00-13.00
Autore
Curatore