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Massimo Arrighi
La ricerca artistica di Massimo Arrighi è di quelle che si risolvono in una litote: è tutto fuorché barocca. La quasi totale assenza di retorica non la rende però meno intensa, suggestiva e profondamente poetica
Comunicato stampa
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“Al di là della monocromia” di Gérard-Georges Lemaire:
“L’ossessione della monocromia ha attraversato la storia della pittura durante quasi tutto il secolo scorso. Da Kazimir Malevic a Pierre Soulages, passando per Rodchenko, Ad Reinhardt, Jean Degottex o Daniel Dezeuze, la problematica dell’assoluto nell’arte non ha cessato di evolversi e diversificarsi, suscitando dibattiti sui fondamenti della creazione plastica, in cui ogni colore genera i propri linguaggi, universi, interrogativi e soluzioni, formali o simboliche.
Il procedimento di Arrighi è un caso particolare, nella misura in cui non s’inscrive completamente nella logica che ha motivato e animato gli artisti che l’hanno preceduto. Quello che per lui è il punto di partenza è stato per loro il punto di arrivo (sovente un punto di non-ritorno), non di rado raggiunto al termine di una ricerca ingrata, arida, e nondimeno appassionata. Ai suoi occhi la superficie monocromatica, nera e bianca, ma anche rossa, rappresenta la qualità particolare della pittura, la sua sostanza originale e inalienabile. È dunque sulla base di questo “finale di partita” che Arrighi fa cominciare la sua partita.
I suoi perimetri, di una perfetta regolarità, non sono scalfiti da alcun elemento che possa perturbarne l’ordine con un intervento grafico o con l’applicazione di altri piani colorati. Per contro, è la materia stessa di cui è costituita questa stesura uniforme di colore che gli interessa. Con questo approccio, Arrighi si allontana dalle esperienze condotte da altri creatori prima di lui, come Alberto Burri, che applicava materie plastiche sul supporto per sottoporle alla “prova del fuoco”, o come Piero Manzoni, che intrecciava tela sulla tela, ricoprendo poi le pieghe e le sgualciture che ne risultavano con uno strato di colore bianco, nella serie di opere che battezzò Achromes.
Ciò che distingue il metodo di Massimo Arrighi è il movimento lineare, leggero ma deciso, impresso alla superficie della tela, che parte dal bordo superiore destro per diffondersi in diagonale lungo un’onda regolare che si allarga ritmicamente. Queste linee si imprimono in rilievo e sembrano fatte per espandersi come una dolce onda, all’infinito. La funzione che svolgono è paragonabile a quella delle diagonali nelle composizioni di Theo van Doesburg (proprio quelle proibite da Mondrian), ma implica il ricorso a mezzi completamente diversi. Questo flusso armonioso non produce un’alterità: impone una percezione altra dell’opera, che diviene tridimensionale. In altri termini, il quadro assume, in virtù di questo processo, una dimensione tattile.
La ricerca artistica di Massimo Arrighi è di quelle che si risolvono in una litote: è tutto fuorché barocca. La quasi totale assenza di retorica non la rende però meno intensa, suggestiva e profondamente poetica. Di primo acchito potrebbe sembrare fredda e disincarnata, di un formalismo eccessivo. Ma non appena lo sguardo indugia più attentamente sull’uno o sull’altro dei suoi quadri, viene ben presto catturato dalle sottili alterità che appaiono sulla tabula, trasformata in finestra arbitraria di una pittura che non si apre più sulla rappresentazione del mondo, ma si offre come rigorosa astrazione, con l’ombra di un dubbio: il sospetto di una dislocazione sottile e insidiosa delle sue premesse e, anche, delle sue finalità”.
Forte dei Marmi 4 Aprile 2006
“L’ossessione della monocromia ha attraversato la storia della pittura durante quasi tutto il secolo scorso. Da Kazimir Malevic a Pierre Soulages, passando per Rodchenko, Ad Reinhardt, Jean Degottex o Daniel Dezeuze, la problematica dell’assoluto nell’arte non ha cessato di evolversi e diversificarsi, suscitando dibattiti sui fondamenti della creazione plastica, in cui ogni colore genera i propri linguaggi, universi, interrogativi e soluzioni, formali o simboliche.
Il procedimento di Arrighi è un caso particolare, nella misura in cui non s’inscrive completamente nella logica che ha motivato e animato gli artisti che l’hanno preceduto. Quello che per lui è il punto di partenza è stato per loro il punto di arrivo (sovente un punto di non-ritorno), non di rado raggiunto al termine di una ricerca ingrata, arida, e nondimeno appassionata. Ai suoi occhi la superficie monocromatica, nera e bianca, ma anche rossa, rappresenta la qualità particolare della pittura, la sua sostanza originale e inalienabile. È dunque sulla base di questo “finale di partita” che Arrighi fa cominciare la sua partita.
I suoi perimetri, di una perfetta regolarità, non sono scalfiti da alcun elemento che possa perturbarne l’ordine con un intervento grafico o con l’applicazione di altri piani colorati. Per contro, è la materia stessa di cui è costituita questa stesura uniforme di colore che gli interessa. Con questo approccio, Arrighi si allontana dalle esperienze condotte da altri creatori prima di lui, come Alberto Burri, che applicava materie plastiche sul supporto per sottoporle alla “prova del fuoco”, o come Piero Manzoni, che intrecciava tela sulla tela, ricoprendo poi le pieghe e le sgualciture che ne risultavano con uno strato di colore bianco, nella serie di opere che battezzò Achromes.
Ciò che distingue il metodo di Massimo Arrighi è il movimento lineare, leggero ma deciso, impresso alla superficie della tela, che parte dal bordo superiore destro per diffondersi in diagonale lungo un’onda regolare che si allarga ritmicamente. Queste linee si imprimono in rilievo e sembrano fatte per espandersi come una dolce onda, all’infinito. La funzione che svolgono è paragonabile a quella delle diagonali nelle composizioni di Theo van Doesburg (proprio quelle proibite da Mondrian), ma implica il ricorso a mezzi completamente diversi. Questo flusso armonioso non produce un’alterità: impone una percezione altra dell’opera, che diviene tridimensionale. In altri termini, il quadro assume, in virtù di questo processo, una dimensione tattile.
La ricerca artistica di Massimo Arrighi è di quelle che si risolvono in una litote: è tutto fuorché barocca. La quasi totale assenza di retorica non la rende però meno intensa, suggestiva e profondamente poetica. Di primo acchito potrebbe sembrare fredda e disincarnata, di un formalismo eccessivo. Ma non appena lo sguardo indugia più attentamente sull’uno o sull’altro dei suoi quadri, viene ben presto catturato dalle sottili alterità che appaiono sulla tabula, trasformata in finestra arbitraria di una pittura che non si apre più sulla rappresentazione del mondo, ma si offre come rigorosa astrazione, con l’ombra di un dubbio: il sospetto di una dislocazione sottile e insidiosa delle sue premesse e, anche, delle sue finalità”.
Forte dei Marmi 4 Aprile 2006
14
aprile 2006
Massimo Arrighi
Dal 14 aprile al 14 maggio 2006
arte contemporanea
Location
GALLERIA GIANNONE
Forte Dei Marmi, Via Giuseppe Mazzini, 29, (Lucca)
Forte Dei Marmi, Via Giuseppe Mazzini, 29, (Lucca)
Vernissage
14 Aprile 2006, ore 18
Autore