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Paolo Nicolosi – Sul segno degli artisti #2
Dodici artisti, presentati nell’arco di un anno, con 12 lavori ciascuno e raccolti in un catalogo annuale. Lo zodiaco costituirà ciclicamente per 12 anni l’imprevedibile percorso di una lunga mostra sul segno astrale di 144 artisti prescelti, per un ammontare cabalistico di 1728 opere da esporre.
Comunicato stampa
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Comunicato stampa
Secondo appuntamento con Paolo Nicolosi, un altro artista del segno dell'ariete. Sabato 25 giugno alle ore 20 alla Galleria degli Archi di Comiso "si potranno ammirare - dice lo stesso Nicolosi - dodici opere giocate sull’idea dell’intervallo. Qualche anno fa mi colpì molto la lettura di un libro di Gillo Dorfles (“L’intervallo perduto”) in cui ragionava sulla perdita degli intervalli, delle pause, delle cesure nella società di oggi occupata interamente dai messaggi sonori e visivi, a cui siamo sottoposti, nostro malgrado, incessantemente, tanto da augurarsi l’insorgere di un “orror pleni” per equilibrare l”orror vacui”. In questi dodici lavori ci sono quegli intervalli ritrovati."
Dall'intervista di PAOLO NICOLOSI
A.F. Vorrei ci parlassi della tua particolare tecnica pittorica, dell’utilizzo della carta e del colore.
Paolo Nicolosi Utilizzo la carta velina in due grammature differenti per avere differenti effetti. Sono grandi fogli (140x100 cm) che stropiccio o piego preventivamente e dipingo con colori acrilici molto diluiti. La stropicciatura o la piegatura iniziale fa sì che il colore venga assorbito lungo la rottura delle fibre della cellulosa ottenendo un effetto finale di”craquelure”. Questi fogli dipinti e asciugati diventano il materiale che utilizzo per un tradizionale collage o come supporto per ulteriori ridipinture È una tecnica che mi consente di ottenere grandi superfici semitrasparenti dai colori indecisi, di grande leggerezza e effetti sorprendenti.
A.F. Tempo fa mi hai confessato il tuo amore per David Hockney, per la sua leggerezza e ironia. Anche nel tuo lavoro, pur nelle notevoli differenze formali con l’opera del Maestro inglese, aleggiano queste caratteristiche. In un nostro recente incontro abbiamo parlato dei tuoi anni passati a Roma, della conoscenza con Novelli e Perilli, dell’importanza che hanno avuto nella tua ricerca. Poi ritornato in Sicilia si è riacceso il rapporto con il paesaggio mediterraneo, con i suoi colori che hanno dato nuova linfa ai tuoi dipinti. Cosa è rimasto nella tua pittura attuale del periodo romano?
P.N. Non ho avuto insegnamenti di disegno o di pittura, se non gli esempi familiari. Ho solo seguito i corsi universitari di “Disegno dal vero” della facoltà di architettura che frequentai a Roma. Avendo una certa predisposizione e provandoci molto piacere ero riuscito a disegnare piuttosto bene: la mia mano riusciva ad eseguire infallibilmente il segno dettato dalla mia mente, senza incertezze o correzioni. Credo che fosse il 1966 quando Gastone Novelli e Achille Perilli vennero a tenere una serie di conversazioni, che la facoltà presentava come “Corso di visual design” a cui partecipai con un gruppetto di altri studenti. Avevo visto già delle cose di Perilli, che mi piacevano molto, ma fui colpito dal lavoro di Novelli che mi sembrò di una leggerezza straordinaria e di una poetica bellezza anche se, mi sembrava a quel tempo, privo di grazia e scorretto. L’incontro con Gastone Novelli mi ha influenzato molto, mi ha fatto vedere il lavoro della pittura sotto una luce nuova. In quel periodo cercai di dimenticare le regole del “bel disegno” per cercare un disegno privo di regole. Ero affamato di nuovi linguaggi e Roma in quegli anni mi dava l’occasione di vedere e ascoltare quanto di meglio si produceva in campo artistico.
A.F. In una recente rassegna ragusana hai esposto un tuo lavoro ispirato alla scrittura di Antonio Pizzuto. È una ricerca che avevi condotto diversi anni fa di cui vorrei ci parlassi.
P.N. L’utilizzo della scrittura nasce proprio in quegli anni 1968-69, quando utilizzavo i caratteri trasferibili per le mie tavole di “Composizione architettonica”. Mi accorsi di avere nelle mani una vera tipografia, ma senza i limiti della composizione tipografica. Mi divertii molto e mi ricordo che le mie cose piacevano molto ai miei amici. Spero che qualcuno di quei lavori ancora sopravviva. Alla fine degli anni ’70 ripresi ad usare la scrittura. Sono sempre stato un appassionato lettore della letteratura di avanguardia, mi è sempre interessata la sperimentazione del linguaggio e, naturalmente, Antonio Pizzuto mi ha tenuto compagnia quasi giornaliera da “Signorina Rosina” in poi. Avevo preso l’abitudine di rallentare i tempi della lettura adeguandoli ai tempi della scrittura manuale su un foglio a fianco, per meglio capire la spesso impervia architettura lessicale. Quando era necessario rallentare i tempi scrivevo stampatello. Non essendo una scrittura che doveva essere riletta, ma la cui funzione si esauriva nello stesso istante in cui l’avevo eseguita, non aveva spazi né segni di interpunzioni né maiuscole: era una stringa compatta e continua. Nasce così l’idea di riprodurre la musica della scrittura pizzutiana con una lunga serie di acquerelli che continuai a produrre fino agli anni 1983-84. Recentemente mi hanno proposto la partecipazione con un’opera al meeting “A tutto volume” a Ragusa, ho quindi ripreso la mia vecchia idea e l’ho riproposta, naturalmente con un brano di Antonio Pizzuto. Mi sono reso conto che non è invecchiata per niente.
Quando, verso il 1973, tornai definitivamente in Sicilia mi sentivo tagliato fuori, non pensavo si potesse produrre arte lontano dalle sollecitazioni continue che mi davano le mostre i concerti le gallerie i musei gli incontri il dibattito costante il teatro d’avanguardia le biblioteche. L’informazione in quel periodo era limitata a qualche rivista da noi introvabile, la televisione non esisteva (e non esiste tuttora), di libri arrivava solo una copia in un paio di librerie di Catania. Ne approfittai per approfondire lo studio della pittura barocca, che in quegli anni riprendeva vigore.
Ma rividi con occhio maturo il colore e, soprattutto, la luce della nostra terra. Cominciai a pensare che forse aveva ancora un senso riprendere i pennelli, rivedere le posizioni, mettere da parte i pregiudizi, cercare di reinventare la luce dei nostri paesaggi, rimettersi in gioco. Mi è sembrato perciò che la cifra più corretta, per me, è proprio quella del gioco, dell’ironia, dello scherzo (la dimensione ludica si sarebbe detto qualche anno fa). E ho ripreso a giocare. E mi diverto ancora.
A.F. Nella storia dell’arte anche grandissimi maestri hanno mantenuto separati i quadri di ricerca dalle tele più commerciabili che gli consentivano di vivere. Oggi, a distanza di secoli per alcuni, anche i lavori ritenuti commerciali di questi autori non appaiono spesso meno importanti di altri più ambiziosi. Il rapporto tra pittore e committente diventa a volte un importante, e delicato, elemento del processo creativo.
P.N. Mi chiedi del rapporto tra pittore e committente. Non so come rispondere: non ho mai avuto un committente. Certamente nella produzione di ogni artista ci sono opere di pura ricerca e lavori di routine. Non tutti i giorni ti viene un’idea nuova, di quelle che ti fanno intravedere sviluppi inaspettati e sorprendenti della tua continua ricerca. Ma, spesso, è il lavoro giornaliero che ti suggerisce varianti e opzioni nuove o impreviste, importante avere sempre la necessaria recettività ad accogliere gli stimoli, la freschezza di sorprendersi e il piacere di giocarci.
A.F. Che lavori esporrai alla Galleria degli Archi?
P.N. Alla Galleria degli Archi porterò dodici opere giocate sull’idea dell’intervallo. Qualche anno fa mi colpì molto la lettura di un libro di Gillo Dorfles (“L’intervallo perduto”) in cui ragionava sulla perdita degli intervalli, delle pause, delle cesure nella società di oggi occupata interamente dai messaggi sonori e visivi, a cui siamo sottoposti, nostro malgrado, incessantemente, tanto da augurarsi l’insorgere di un “orror pleni” per equilibrare l”orror vacui”. In questi dodici lavori ci sono quegli intervalli ritrovati.
Biografia
Paolo Nicolosi nasce ad Acireale nel 1945. Dopo il liceo classico si trasferisce a Roma per studiare Architettura, senza mai trascurare, però, la sperimentazione artistica intrapresa da ragazzo. In quegli anni di grande fervore frequenta, non da semplice spettatore,gli ambienti artistici più stimolanti, mettendo a punto un suo proprio linguaggio espressivo. Rientrando, dieci anni più tardi, in Sicilia riscopre la luce del paesaggio e inizia una rivisitazione dei moduli figurativi. Hanno scritto fra gli altri: Giuseppe Quatriglio, Vincenzo Crapio, Vincenzo Tomasello, Valter Pinto, Anna Maria Ruta, Ugo Cantone. I suoi lavori sono presenti in numerose collezioni in Italia e all'estero
Secondo appuntamento con Paolo Nicolosi, un altro artista del segno dell'ariete. Sabato 25 giugno alle ore 20 alla Galleria degli Archi di Comiso "si potranno ammirare - dice lo stesso Nicolosi - dodici opere giocate sull’idea dell’intervallo. Qualche anno fa mi colpì molto la lettura di un libro di Gillo Dorfles (“L’intervallo perduto”) in cui ragionava sulla perdita degli intervalli, delle pause, delle cesure nella società di oggi occupata interamente dai messaggi sonori e visivi, a cui siamo sottoposti, nostro malgrado, incessantemente, tanto da augurarsi l’insorgere di un “orror pleni” per equilibrare l”orror vacui”. In questi dodici lavori ci sono quegli intervalli ritrovati."
Dall'intervista di PAOLO NICOLOSI
A.F. Vorrei ci parlassi della tua particolare tecnica pittorica, dell’utilizzo della carta e del colore.
Paolo Nicolosi Utilizzo la carta velina in due grammature differenti per avere differenti effetti. Sono grandi fogli (140x100 cm) che stropiccio o piego preventivamente e dipingo con colori acrilici molto diluiti. La stropicciatura o la piegatura iniziale fa sì che il colore venga assorbito lungo la rottura delle fibre della cellulosa ottenendo un effetto finale di”craquelure”. Questi fogli dipinti e asciugati diventano il materiale che utilizzo per un tradizionale collage o come supporto per ulteriori ridipinture È una tecnica che mi consente di ottenere grandi superfici semitrasparenti dai colori indecisi, di grande leggerezza e effetti sorprendenti.
A.F. Tempo fa mi hai confessato il tuo amore per David Hockney, per la sua leggerezza e ironia. Anche nel tuo lavoro, pur nelle notevoli differenze formali con l’opera del Maestro inglese, aleggiano queste caratteristiche. In un nostro recente incontro abbiamo parlato dei tuoi anni passati a Roma, della conoscenza con Novelli e Perilli, dell’importanza che hanno avuto nella tua ricerca. Poi ritornato in Sicilia si è riacceso il rapporto con il paesaggio mediterraneo, con i suoi colori che hanno dato nuova linfa ai tuoi dipinti. Cosa è rimasto nella tua pittura attuale del periodo romano?
P.N. Non ho avuto insegnamenti di disegno o di pittura, se non gli esempi familiari. Ho solo seguito i corsi universitari di “Disegno dal vero” della facoltà di architettura che frequentai a Roma. Avendo una certa predisposizione e provandoci molto piacere ero riuscito a disegnare piuttosto bene: la mia mano riusciva ad eseguire infallibilmente il segno dettato dalla mia mente, senza incertezze o correzioni. Credo che fosse il 1966 quando Gastone Novelli e Achille Perilli vennero a tenere una serie di conversazioni, che la facoltà presentava come “Corso di visual design” a cui partecipai con un gruppetto di altri studenti. Avevo visto già delle cose di Perilli, che mi piacevano molto, ma fui colpito dal lavoro di Novelli che mi sembrò di una leggerezza straordinaria e di una poetica bellezza anche se, mi sembrava a quel tempo, privo di grazia e scorretto. L’incontro con Gastone Novelli mi ha influenzato molto, mi ha fatto vedere il lavoro della pittura sotto una luce nuova. In quel periodo cercai di dimenticare le regole del “bel disegno” per cercare un disegno privo di regole. Ero affamato di nuovi linguaggi e Roma in quegli anni mi dava l’occasione di vedere e ascoltare quanto di meglio si produceva in campo artistico.
A.F. In una recente rassegna ragusana hai esposto un tuo lavoro ispirato alla scrittura di Antonio Pizzuto. È una ricerca che avevi condotto diversi anni fa di cui vorrei ci parlassi.
P.N. L’utilizzo della scrittura nasce proprio in quegli anni 1968-69, quando utilizzavo i caratteri trasferibili per le mie tavole di “Composizione architettonica”. Mi accorsi di avere nelle mani una vera tipografia, ma senza i limiti della composizione tipografica. Mi divertii molto e mi ricordo che le mie cose piacevano molto ai miei amici. Spero che qualcuno di quei lavori ancora sopravviva. Alla fine degli anni ’70 ripresi ad usare la scrittura. Sono sempre stato un appassionato lettore della letteratura di avanguardia, mi è sempre interessata la sperimentazione del linguaggio e, naturalmente, Antonio Pizzuto mi ha tenuto compagnia quasi giornaliera da “Signorina Rosina” in poi. Avevo preso l’abitudine di rallentare i tempi della lettura adeguandoli ai tempi della scrittura manuale su un foglio a fianco, per meglio capire la spesso impervia architettura lessicale. Quando era necessario rallentare i tempi scrivevo stampatello. Non essendo una scrittura che doveva essere riletta, ma la cui funzione si esauriva nello stesso istante in cui l’avevo eseguita, non aveva spazi né segni di interpunzioni né maiuscole: era una stringa compatta e continua. Nasce così l’idea di riprodurre la musica della scrittura pizzutiana con una lunga serie di acquerelli che continuai a produrre fino agli anni 1983-84. Recentemente mi hanno proposto la partecipazione con un’opera al meeting “A tutto volume” a Ragusa, ho quindi ripreso la mia vecchia idea e l’ho riproposta, naturalmente con un brano di Antonio Pizzuto. Mi sono reso conto che non è invecchiata per niente.
Quando, verso il 1973, tornai definitivamente in Sicilia mi sentivo tagliato fuori, non pensavo si potesse produrre arte lontano dalle sollecitazioni continue che mi davano le mostre i concerti le gallerie i musei gli incontri il dibattito costante il teatro d’avanguardia le biblioteche. L’informazione in quel periodo era limitata a qualche rivista da noi introvabile, la televisione non esisteva (e non esiste tuttora), di libri arrivava solo una copia in un paio di librerie di Catania. Ne approfittai per approfondire lo studio della pittura barocca, che in quegli anni riprendeva vigore.
Ma rividi con occhio maturo il colore e, soprattutto, la luce della nostra terra. Cominciai a pensare che forse aveva ancora un senso riprendere i pennelli, rivedere le posizioni, mettere da parte i pregiudizi, cercare di reinventare la luce dei nostri paesaggi, rimettersi in gioco. Mi è sembrato perciò che la cifra più corretta, per me, è proprio quella del gioco, dell’ironia, dello scherzo (la dimensione ludica si sarebbe detto qualche anno fa). E ho ripreso a giocare. E mi diverto ancora.
A.F. Nella storia dell’arte anche grandissimi maestri hanno mantenuto separati i quadri di ricerca dalle tele più commerciabili che gli consentivano di vivere. Oggi, a distanza di secoli per alcuni, anche i lavori ritenuti commerciali di questi autori non appaiono spesso meno importanti di altri più ambiziosi. Il rapporto tra pittore e committente diventa a volte un importante, e delicato, elemento del processo creativo.
P.N. Mi chiedi del rapporto tra pittore e committente. Non so come rispondere: non ho mai avuto un committente. Certamente nella produzione di ogni artista ci sono opere di pura ricerca e lavori di routine. Non tutti i giorni ti viene un’idea nuova, di quelle che ti fanno intravedere sviluppi inaspettati e sorprendenti della tua continua ricerca. Ma, spesso, è il lavoro giornaliero che ti suggerisce varianti e opzioni nuove o impreviste, importante avere sempre la necessaria recettività ad accogliere gli stimoli, la freschezza di sorprendersi e il piacere di giocarci.
A.F. Che lavori esporrai alla Galleria degli Archi?
P.N. Alla Galleria degli Archi porterò dodici opere giocate sull’idea dell’intervallo. Qualche anno fa mi colpì molto la lettura di un libro di Gillo Dorfles (“L’intervallo perduto”) in cui ragionava sulla perdita degli intervalli, delle pause, delle cesure nella società di oggi occupata interamente dai messaggi sonori e visivi, a cui siamo sottoposti, nostro malgrado, incessantemente, tanto da augurarsi l’insorgere di un “orror pleni” per equilibrare l”orror vacui”. In questi dodici lavori ci sono quegli intervalli ritrovati.
Biografia
Paolo Nicolosi nasce ad Acireale nel 1945. Dopo il liceo classico si trasferisce a Roma per studiare Architettura, senza mai trascurare, però, la sperimentazione artistica intrapresa da ragazzo. In quegli anni di grande fervore frequenta, non da semplice spettatore,gli ambienti artistici più stimolanti, mettendo a punto un suo proprio linguaggio espressivo. Rientrando, dieci anni più tardi, in Sicilia riscopre la luce del paesaggio e inizia una rivisitazione dei moduli figurativi. Hanno scritto fra gli altri: Giuseppe Quatriglio, Vincenzo Crapio, Vincenzo Tomasello, Valter Pinto, Anna Maria Ruta, Ugo Cantone. I suoi lavori sono presenti in numerose collezioni in Italia e all'estero
25
giugno 2011
Paolo Nicolosi – Sul segno degli artisti #2
Dal 25 giugno al 13 luglio 2011
arte contemporanea
Location
GALLERIA DEGLI ARCHI
Comiso, Via E. Calogero, 22, (Ragusa)
Comiso, Via E. Calogero, 22, (Ragusa)
Orario di apertura
da martedì a domenica ore 17-20 o su appuntamento
Vernissage
25 Giugno 2011, ore 20.00
Autore
Curatore