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Paolo Woods – Le strade del petrolio
Mentre la Casa Bianca preparava e conduceva la sua guerra in Iraq, Paolo Woods e i due giornalisti Serge Enderlin e Serge Michel si avventuravano sulle strade dell’oro nero.
Comunicato stampa
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Mentre la Casa Bianca preparava e conduceva la sua guerra in Iraq, Paolo Woods e i due giornalisti Serge Enderlin e Serge Michel si avventuravano sulle strade dell’oro nero. Il loro obiettivo: far emergere quest’argomento dalle pagine specializzate dei giornali economici per restituirgli la sua dimensione di saga intrisa di miseria, sangue e potenza assoluta, che accompagna il petrolio ovunque sgorghi.
Alcuni brani di questo lavoro sono stati pubblicati nel luglio del 2003 sul F**aro, Le Temps di Ginevra e Le Soir di Bruxelles.
Accompagna la mostra il libro “Pianeta petrolio. Sulle rotte dell’oro nero”, Saggiatore Editore.
Gli attentati dell’11 settembre sono stati un campanello d’allarme per la Casa Bianca: l’approvvigionamento di petrolio americano è in pericolo. Gli Stati Uniti non si fidano più dell’Arabia Saudita – detentrice delle maggiori riserve mondiali – che ha partorito e finanziato l’esercito di Al-Qaida. Come liberarsi dall’ingombrante dipendenza petrolifera di Riyad? Risposta dell’amministrazione Bush: diversificando le fonti di approvvigionamento. Moltiplica allora i nuovi “fronti” nella guerra dell’oro nero. E inaugura così un nuovo ordine mondale del petrolio, un teatro che muove da alleanze e colpi bassi. Siamo andati a vedere dietro le quinte.
Prima di iniziare questo grande periplo petrolifero, vale la pena di portare tra i bagagli una citazione molto utile. […] È di Lee Raymond, proprietario della ExxonMobil, la prima compagnia petrolifera del mondo. «You kinda have to go where the oil is», dichiarava all’inizio del 2003 in un’intervista al giornale Forbes. «Bisogna andare là dove si trova il petrolio». E, di fatto, l’America ci va. […]
Il fatto è che, da alcuni anni, gli Stati Uniti muovono le loro pedine in modo straordinario nelle regioni del globo ricche di idrocarburi. […]
Il consiglio di Lee Raymond, di andare «dove si trova il petrolio», noi lo abbiamo ascoltato. Noi siamo un piccolo gruppo, formato da due giornalisti e un fotografo, che ha goduto dell’inappuntabile sostegno di due giornali, Le F**aro e Le Temps, e di un editore. Ci è sembrato importante allestire la scena, sbalorditiva, di questo nuovo ordine petrolifero mondiale. Non elaborare una tesi accademica o fare del petrolio l’unica spiegazione dei disordini del mondo. Abbiamo attraversato luoghi improbabili, le piattaforme del mar Caspio con gli uffici climatizzati degli strateghi di Houston, siamo andati incontro ai signori e ai miseri dell’oro nero, per dare più di quanto spetti a questo «terreno» e rendere intelligibile quest’argomento, spesso confinato sulle pubblicazioni specializzate. Perché il petrolio è vittima di un terribile malinteso. Viene trattato sulle pagine economiche o finanziarie dei giornali, per le variazioni del prezzo al barile o le fusioni delle grandi compagnie. Ma è anche uno degli argomenti più romanzeschi, costellato di personaggi straordinari.
Abbiamo iniziato questo viaggio in Texas, per sondare il motore della straordinaria macchina che stava per mettersi in moto. E l’America del febbraio 2003 ci ha offerto questo volto sorprendente: assetata di petrolio, impegnata sul sentiero della guerra. Poi abbiamo raggiunto le rive del mar Caspio, per capire come i barili di greggio si facevano strada tra i barili di polvere del Caucaso, seguendo il tracciato del futuro oleodotto Bakou-Tbilissi-Ceyhan. Questo progetto faraonico deve la sua esistenza (e l’inizio della sua realizzazione) solo all’ostinazione americana, che lo ha sostenuto a dispetto di alcune assurdità finanziarie e geografiche.
Sulla carta, il nostro «Asse del Greggio» traccia pressappoco una diagonale nord-est/sud-ovest, dalla Siberia al Golfo di Guinea, passando per l’Asia centrale, il Mar Caspio e il Golfo Persico. Eppure era impossibile percorrerlo senza fermarsi e da un capo all’altro, a causa delle incognite per l’ottenimento dei visti e delle incertezze legate alla guerra in Iraq. Sarebbe scoppiata? E, in caso affermativo, quanto tempo sarebbe durata? Bisognava andare in Iraq il più tardi possibile per non parlare dei combattimenti, bensì dell’argomento petrolio. Di fatto, la guerra è iniziata mentre noi ci trovavamo in Georgia, sulla pista dell’oleodotto caucasico, ed è terminata tre settimane dopo, quando siamo arrivati a Mourmansk, un porto russo dell’oceano Artico in cui un giorno l’America verrà forse a rifornirsi di petrolio presso il suo ex nemico della guerra fredda.
Abbiamo dunque fatto dei salti per atterrare in vari punti del nostro asse, lasciando l’Iraq come ultima tappa. Passare dalla Turchia, termine dell’oleodotto del Caspio, aveva senso: i carichi delle petroliere che seminano il terrore nel Bosforo provengono dalla Siberia. Per raggiungere la tappa successiva, il Golfo arabo-persico, abbiamo seguito i «Nuovi Russi» che vanno a fare shopping a Dubai. Poi è stata la volta dell’Africa occidentale, per cui ci sono stati infine concessi i visti, prima di ritornare verso il mar Caspio, in Kazakistan […].
La seconda citazione da infilare tra i bagagli, prima di immergersi in questo mondo di greggio, è più ironica e al contempo più disperata. «Il petrolio è l’escremento del diavolo», si era lasciato sfuggire nel 1975 il venezuelano Juan Pablo Pérez Alfonso, uno dei fondatori dell’OPEP. […]
Trent’anni dopo, la constatazione è la stessa. Durante tutta la nostra inchiesta, abbiamo visto che il petrolio era accompagnato, quando non la generava, da un’eccezionale violenza. Questo greggio così agognato ha infatti la caratteristica di sgorgare solo negli ambienti più estremi: quelli climatici – dal freddo siberiano all’afa della Guinea Equatoriale – ma anche e soprattutto quelli politici. Petrolio fa raramente rima con democrazia. Al contrario, l’oro nero genera un mondo brutale, un mondo di ricchezza assoluta e di grande povertà, in cui le major, le grandi compagnie multinazionali, interpretano il loro spartito. […]
Serge Enderlin e Serge Michel.
Estratto dalla prefazione del libro di accompagnamento alla mostra «Un Monde de brut». Testi di Serge Enderlin e Serge Michel, fotografie di Paolo Woods, Edizioni Seuil (pubblicato il 26 settembre 2003.)
Note biografiche
Paolo Woods è un fotoreporter indipendente che vive a Parigi.
Nato in Olanda nel 1970, inizialmente si rivolge alla fotografia artistica. Dal 1995 abbandona progressivamente quest’approccio, a favore delle foto di reportage. Tuttavia questo primo periodo costituisce un elemento determinante per capire il suo approccio giornalistico, che manterrà una dimensione fortemente estetica. Il suo stile si forgia a metà tra queste due concezioni della rappresentazione.
Dal 1995 al 1999, realizza i suoi primi grandi lavori in Egitto, in Marocco, in Vietnam, ad Haiti. Comincia anche ad esporre: a Firenze, Genova, Bogotà e poi Budapest.
Il 1999 segna una svolta nella sua carriera: viene ingaggiato dalla Anzenberger Photo Agency. Espone alla Biennale di Roma e i suoi reportage si moltiplicano: India, Albania, Kosovo e Iran. Questi lavori sembrano delineare soprattutto una strada verso l’est. Il suo ultimo reportage, in Iran, vent’anni dopo la rivoluzione, è determinante. Il Medio Oriente diventa il centro del suo lavoro di fotografo. Tra il 1999 e il 2002, si concentra su alcuni aspetti specifici di questa regione del mondo: i campi profughi, le manifestazioni, i giovani, le donne e la terra. Ritorna in Iran, fotografa i profughi afghani poi, a tre riprese, va in Pakistan, e si concentra sulla comunità afghana, le scuole coraniche e le manifestazioni a favore dei talebani. Ritorna quattro volte in Afghanistan, sotto il regime talebano e dopo la sua caduta. Fotografa il ritorno dei profughi dall’Iran, i giovani sotto i talebani, la siccità. Il suo ultimo reportage è una descrizione del paese dopo la guerra, in collaborazione con Serge Michel.
Espone «Afghanistan» al Circulo de Belles Artes di Madrid nel 2001, «Afghanistan 2001» a Visa pour l’image di Perpignan nel 2002, poi «Afghanistan Anno zero» a Firenze nel 2003.
La mostra Le strade del petrolio inizia la sua tournée nella rete delle Gallerie fotografiche, alla Fnac Etoile nell’autunno del 2003.
Serge Enderlin, giornalista, è capo servizio estero del quotidiano Le Temps a Ginevra. Ha vissuto a Praga dal 1994 al 1998 ed ha coperto l’Europa dell’Est e l’ex-URSS per Libération e Le Nouveau Quotidien, prima di trasferirsi a Londra nel 1998.
Serge Michel, giornalista che vive a Belgrado, è corrispondente nei Balcani per Le F**aro e Le Temps. Vincitore del premio Albert Londres 2001, è stato corrispondente a Teheran dal 1998 al 2002 e ha fatto frequenti viaggi in Afghanistan.
Alcuni brani di questo lavoro sono stati pubblicati nel luglio del 2003 sul F**aro, Le Temps di Ginevra e Le Soir di Bruxelles.
Accompagna la mostra il libro “Pianeta petrolio. Sulle rotte dell’oro nero”, Saggiatore Editore.
Gli attentati dell’11 settembre sono stati un campanello d’allarme per la Casa Bianca: l’approvvigionamento di petrolio americano è in pericolo. Gli Stati Uniti non si fidano più dell’Arabia Saudita – detentrice delle maggiori riserve mondiali – che ha partorito e finanziato l’esercito di Al-Qaida. Come liberarsi dall’ingombrante dipendenza petrolifera di Riyad? Risposta dell’amministrazione Bush: diversificando le fonti di approvvigionamento. Moltiplica allora i nuovi “fronti” nella guerra dell’oro nero. E inaugura così un nuovo ordine mondale del petrolio, un teatro che muove da alleanze e colpi bassi. Siamo andati a vedere dietro le quinte.
Prima di iniziare questo grande periplo petrolifero, vale la pena di portare tra i bagagli una citazione molto utile. […] È di Lee Raymond, proprietario della ExxonMobil, la prima compagnia petrolifera del mondo. «You kinda have to go where the oil is», dichiarava all’inizio del 2003 in un’intervista al giornale Forbes. «Bisogna andare là dove si trova il petrolio». E, di fatto, l’America ci va. […]
Il fatto è che, da alcuni anni, gli Stati Uniti muovono le loro pedine in modo straordinario nelle regioni del globo ricche di idrocarburi. […]
Il consiglio di Lee Raymond, di andare «dove si trova il petrolio», noi lo abbiamo ascoltato. Noi siamo un piccolo gruppo, formato da due giornalisti e un fotografo, che ha goduto dell’inappuntabile sostegno di due giornali, Le F**aro e Le Temps, e di un editore. Ci è sembrato importante allestire la scena, sbalorditiva, di questo nuovo ordine petrolifero mondiale. Non elaborare una tesi accademica o fare del petrolio l’unica spiegazione dei disordini del mondo. Abbiamo attraversato luoghi improbabili, le piattaforme del mar Caspio con gli uffici climatizzati degli strateghi di Houston, siamo andati incontro ai signori e ai miseri dell’oro nero, per dare più di quanto spetti a questo «terreno» e rendere intelligibile quest’argomento, spesso confinato sulle pubblicazioni specializzate. Perché il petrolio è vittima di un terribile malinteso. Viene trattato sulle pagine economiche o finanziarie dei giornali, per le variazioni del prezzo al barile o le fusioni delle grandi compagnie. Ma è anche uno degli argomenti più romanzeschi, costellato di personaggi straordinari.
Abbiamo iniziato questo viaggio in Texas, per sondare il motore della straordinaria macchina che stava per mettersi in moto. E l’America del febbraio 2003 ci ha offerto questo volto sorprendente: assetata di petrolio, impegnata sul sentiero della guerra. Poi abbiamo raggiunto le rive del mar Caspio, per capire come i barili di greggio si facevano strada tra i barili di polvere del Caucaso, seguendo il tracciato del futuro oleodotto Bakou-Tbilissi-Ceyhan. Questo progetto faraonico deve la sua esistenza (e l’inizio della sua realizzazione) solo all’ostinazione americana, che lo ha sostenuto a dispetto di alcune assurdità finanziarie e geografiche.
Sulla carta, il nostro «Asse del Greggio» traccia pressappoco una diagonale nord-est/sud-ovest, dalla Siberia al Golfo di Guinea, passando per l’Asia centrale, il Mar Caspio e il Golfo Persico. Eppure era impossibile percorrerlo senza fermarsi e da un capo all’altro, a causa delle incognite per l’ottenimento dei visti e delle incertezze legate alla guerra in Iraq. Sarebbe scoppiata? E, in caso affermativo, quanto tempo sarebbe durata? Bisognava andare in Iraq il più tardi possibile per non parlare dei combattimenti, bensì dell’argomento petrolio. Di fatto, la guerra è iniziata mentre noi ci trovavamo in Georgia, sulla pista dell’oleodotto caucasico, ed è terminata tre settimane dopo, quando siamo arrivati a Mourmansk, un porto russo dell’oceano Artico in cui un giorno l’America verrà forse a rifornirsi di petrolio presso il suo ex nemico della guerra fredda.
Abbiamo dunque fatto dei salti per atterrare in vari punti del nostro asse, lasciando l’Iraq come ultima tappa. Passare dalla Turchia, termine dell’oleodotto del Caspio, aveva senso: i carichi delle petroliere che seminano il terrore nel Bosforo provengono dalla Siberia. Per raggiungere la tappa successiva, il Golfo arabo-persico, abbiamo seguito i «Nuovi Russi» che vanno a fare shopping a Dubai. Poi è stata la volta dell’Africa occidentale, per cui ci sono stati infine concessi i visti, prima di ritornare verso il mar Caspio, in Kazakistan […].
La seconda citazione da infilare tra i bagagli, prima di immergersi in questo mondo di greggio, è più ironica e al contempo più disperata. «Il petrolio è l’escremento del diavolo», si era lasciato sfuggire nel 1975 il venezuelano Juan Pablo Pérez Alfonso, uno dei fondatori dell’OPEP. […]
Trent’anni dopo, la constatazione è la stessa. Durante tutta la nostra inchiesta, abbiamo visto che il petrolio era accompagnato, quando non la generava, da un’eccezionale violenza. Questo greggio così agognato ha infatti la caratteristica di sgorgare solo negli ambienti più estremi: quelli climatici – dal freddo siberiano all’afa della Guinea Equatoriale – ma anche e soprattutto quelli politici. Petrolio fa raramente rima con democrazia. Al contrario, l’oro nero genera un mondo brutale, un mondo di ricchezza assoluta e di grande povertà, in cui le major, le grandi compagnie multinazionali, interpretano il loro spartito. […]
Serge Enderlin e Serge Michel.
Estratto dalla prefazione del libro di accompagnamento alla mostra «Un Monde de brut». Testi di Serge Enderlin e Serge Michel, fotografie di Paolo Woods, Edizioni Seuil (pubblicato il 26 settembre 2003.)
Note biografiche
Paolo Woods è un fotoreporter indipendente che vive a Parigi.
Nato in Olanda nel 1970, inizialmente si rivolge alla fotografia artistica. Dal 1995 abbandona progressivamente quest’approccio, a favore delle foto di reportage. Tuttavia questo primo periodo costituisce un elemento determinante per capire il suo approccio giornalistico, che manterrà una dimensione fortemente estetica. Il suo stile si forgia a metà tra queste due concezioni della rappresentazione.
Dal 1995 al 1999, realizza i suoi primi grandi lavori in Egitto, in Marocco, in Vietnam, ad Haiti. Comincia anche ad esporre: a Firenze, Genova, Bogotà e poi Budapest.
Il 1999 segna una svolta nella sua carriera: viene ingaggiato dalla Anzenberger Photo Agency. Espone alla Biennale di Roma e i suoi reportage si moltiplicano: India, Albania, Kosovo e Iran. Questi lavori sembrano delineare soprattutto una strada verso l’est. Il suo ultimo reportage, in Iran, vent’anni dopo la rivoluzione, è determinante. Il Medio Oriente diventa il centro del suo lavoro di fotografo. Tra il 1999 e il 2002, si concentra su alcuni aspetti specifici di questa regione del mondo: i campi profughi, le manifestazioni, i giovani, le donne e la terra. Ritorna in Iran, fotografa i profughi afghani poi, a tre riprese, va in Pakistan, e si concentra sulla comunità afghana, le scuole coraniche e le manifestazioni a favore dei talebani. Ritorna quattro volte in Afghanistan, sotto il regime talebano e dopo la sua caduta. Fotografa il ritorno dei profughi dall’Iran, i giovani sotto i talebani, la siccità. Il suo ultimo reportage è una descrizione del paese dopo la guerra, in collaborazione con Serge Michel.
Espone «Afghanistan» al Circulo de Belles Artes di Madrid nel 2001, «Afghanistan 2001» a Visa pour l’image di Perpignan nel 2002, poi «Afghanistan Anno zero» a Firenze nel 2003.
La mostra Le strade del petrolio inizia la sua tournée nella rete delle Gallerie fotografiche, alla Fnac Etoile nell’autunno del 2003.
Serge Enderlin, giornalista, è capo servizio estero del quotidiano Le Temps a Ginevra. Ha vissuto a Praga dal 1994 al 1998 ed ha coperto l’Europa dell’Est e l’ex-URSS per Libération e Le Nouveau Quotidien, prima di trasferirsi a Londra nel 1998.
Serge Michel, giornalista che vive a Belgrado, è corrispondente nei Balcani per Le F**aro e Le Temps. Vincitore del premio Albert Londres 2001, è stato corrispondente a Teheran dal 1998 al 2002 e ha fatto frequenti viaggi in Afghanistan.
08
gennaio 2005
Paolo Woods – Le strade del petrolio
Dall'otto gennaio al 28 febbraio 2005
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Napoli, Via Luca Giordano, 59, (Napoli)
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Orario di apertura
da lunedì a domenica 10-21