La pittura è una cosa maledettamente seria e quella di Paride Di Stefano ce lo conferma. Diciamo subito che le opere in mostra sono realizzate da una creatura angelicata, che in niente assomiglia alle figure mutanti e apocalittiche che dipinge. O meglio, può darsi che l’artista assomigli alle sue immagini nella sua anima e che questo ci lasci intendere. I lavori sono figurativi, ci danno cioè ancora la possibilità di comprendere il soggetto, però non riescono più a tranquillizzarci, come invece avviene quando siamo davanti a qualcosa di riconoscibile. I corpi che vediamo sembrano sopravvissuti a cataclismi ed essersi trasformati in altro, hanno subìto mutilazioni e metamorfosi, ci ricordano un po’ come diventiamo noi quando smarriamo il senso del nostro esistere, quando assumiamo un’altra forma perché forzati dalle vicende che ci schiacciano e che non ci lasciano margini di sopravvivenza. L’artista, in una nota, parla di un universo ampio tanto da non poter essere più pensabile e dice che i suoi corpi lo abitano. Omette il passaggio della tragedia umana che pure racconta, quella che ha forzato le sue creature, costringendole a diventare altro. E accade così che noi in questi suoi corpi ci identifichiamo, anche noi smarriti nel mondo, e che questa pittura, così concreta nel suo apparente naturalismo, diventi la nostra possibilità di ottenere consolazione, ci parli di noi come sempre fa l’arte quando è una cosa seria, ci sia data per abitare non solo universi sterminati ma anche la nostra sconcertata e mutilata anima.
Rosella Gallo