Sudcoreano, formatosi tra gli studi nel proprio paese e quelli presso l'Accademia di Carrara, Park Jung Boo rappresenta un punto d'incontro tra coscienza estatico-riflessiva d'oriente e passione per la lavorazione dei materiali totalmente italica. In pratica è come tracciare un percorso che parte dalle arguzie mentali di Nam June Paik, passa per le eleganti meditazioni dell'altro connazionale Bohnchang Koo, e termina coi bilanciamenti materici assurdamente perfetti di Pietro Consagra. Tre differenti descrizioni della contemporaneità, tre antitetiche proiezioni icono-concettuali indirettamente commutate da Jungboo nella lavorazione di un Carrara bianchissimo, superficie carica della figuratività di una connessione terrestre-marina senza fronzoli narrativi, ibridazione riformatrice per fisicità che s'incontrano convalidandosi in un'unica soluzione (Connessione bianco).
Cura nella scelta del marmo, preziosismo in uso a dispetto della reale ricercatezza, oggetto su cui Park Jung Boo esercita potere avendo in tasca la consapevolezza che dal suo volume inerte possa generarsi nuova percezione volumetrico-intellegibile. Oggetto pronto quindi a divenire soggetto. Comprensibile pertanto che l'artista pensi a ricreare uno spazio plastico privato, campo tra pratica ed estetica entro cui la scultura interpreti il proprio codice formale non unitario, puntuale nel ricorso ad un verismo post-classicista che sia finalizzato alla definizione del particolare in generali descrizioni fisico-motorie. Codice ancor più preciso nel completare quest'eredità pratico-verista con la metafisica di geometrie perfettamente definite, rigide finché non franate e interrotte nella loro potenziale percezione d'insieme, all'occorrenza scheggiate come a doverne bloccare la perentoria regolarità. Superfici ostiche che bilanciano con la loro staticità preordinata l'essenza di un movimento naturale.