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Rolando Tessadri / Sandro DeAlexandris – 11,7 mq
Fra Sandro De Alexandris e Rolando Tessadri intercorre lo spazio di una generazione. Questo deve indurre a pensare alle tangenze e al senso che nei rispettivi percorsi assume una interrogazione sulla pura pittura in quanto riflessione (non priva di emozione) sui termini del linguaggio stesso.
Comunicato stampa
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Fra Sandro De Alexandris e Rolando Tessadri intercorre lo spazio di una generazione. Questo li colloca in due diversi punti di una genealogia precisa della ricerca visiva, ma soprattutto deve indurre a pensare alle tangenze e al senso che nei rispettivi percorsi assume una interrogazione sulla pura pittura in quanto riflessione (non priva di emozione) sui termini del linguaggio stesso. Bisognerà tuttavia focalizzare l’attenzione sulla ricerca condotta dai due negli inoltrati anni Duemila, con i dovuti distinguo dovuti al punto raggiunto nei rispettivi percorsi.
In entrambi i casi, infatti, la pittura ha valore in quanto tale slegata non solo da un referente, ma anche da una possibilità di forma: il colore è ostensione a sé della propria prima materia. Al di là di questo aspetto, condiviso con specifiche declinazioni dentro la grande famiglia delle istanze “analitiche”, ciò che davvero conta è la vibrazione della superficie della tela, la qualità di immersione di questa che rapisce l’occhio e lo trascina al suo interno. Non si pensa mai, oltretutto, a quanto queste ricerche, tutte mentali nel loro concepimento, comportino un esercizio di pazienza e una importante partecipazione fisica all’esecuzione: è per questo che certe superfici, riempite di piccoli tocchi di colore, diventano grandi e vibranti tessiture, frutto di un lavoro lungo e reiterato che diventa un calibrato corpo a corpo con la tela a distanza ravvicinata. Non a caso, parlando di Tessadri, Claudio Cerritelli sottolineava la «qualità fisica della luce», che è una luce sollecitata dal colore dal suo interno, ma è frutto di trasparenza del colore. Riguardo a De Alexandris, invece, nel 2004 Francesco Tedeschi parlava di uno «spazio di luce, forma del colore, impalpabile realtà che assorbe quell’idea e quel frammento di ricordo o di racconto che i pochi segni tracciati in funzione preparatoria ci mostrano, per trasporli in una dimensione altra, lontana, fuori da questo tempo e da questo spazio, dove essa recupera analogie con quelle pieghe della poesia e della filosofia che non intendono dichiarare, ma porre domande o anche alludere all’impossibilità di risolvere l’esistente in una forma compiuta». Oppure, «lo sguardo interroga la superficie», scrive ancora Cerritelli di Tessadri, «ma non riesce mai ad esaurire la sua sollecitazione, a comprendere la complessa identità del colore che procede per addizioni e sottrazioni, sfiorando talvolta il grado zero ma non proponendosi mai di assumerlo in modo definitivo». È evidente, dunque, che, limitandoci alla proposta dei due artisti dopo il Duemila e sul punto attuale delle loro ricerche, tutto si gioca su un’esperienza retinica, e sui meccanismi della visione, con quanto ciò comporta nella definizione del campo e della percezione dello spazio in profondità. Contano molto, come ha sottolineato Bonomi relativamente a Tessadri, i temi della griglia, del reticolo che struttura la composizione rendendola un piano partizionato in maniera regolare, e che in De Alexandris trova una rispondenza nel problema dell’impaginazione e del rapporto evidente fra campo cromatico e margine, ma al di là della disposizione degli elementi dentro una struttura più o meno esatta, resta aperta la questione di uno sfondamento in profondità “dentro” o “davanti” al quadro, di uno spazio che tende a risucchiare lo sguardo e a proiettarlo in uno spazio profondo o di un colore che si fa avanti e occupa lo spazio della fruizione, che è ostensione cromatica che avanza. Gli stessi titoli delle tele di de Alexandris suggeriscono questo ragionamento. Nei quadri recenti, infatti, non è raro incontrare “Stanze”, ma anche “luoghi d’ombra”, o indicazioni di movimento che tendono a un colore “verso l’indaco”, o che suggeriscono un’assimilazione del dipinto con una lastra di ardesia: tutti suggerimenti che inducono a vedere quel limite tracciato dal pittore a pastello non solo come un modo di delimitare il campo, ma come il confine fra un fronte e uno sfondato in profondità: tutto sta nel decifrare se quel campo di colore vibrante, che sembra prendere forma sotto lo sguardo dell’osservatore, sia un impedimento o un cono d’ombra, un’apertura su uno spazio retrostante non illuminato, a prescindere dal fatto che la stessa campitura, delimitata sulla cornice superiore e sfumata e indistinta nella zona inferiore. A instaurarsi, infatti, è una gerarchia degli spazi sul piano, a cui invece Tessadri non ricorre preferendo il trattamento della superficie come un unico campo in cui i limiti della tela sono solo un modo per inquadrare e circoscrivere un motivo virtualmente reiterabile all’infinito. Qui, in fondo, si gioca il discrimine fra un modo di intendere il quadro come unità singola e autonoma che si configura per cicli di ricerca (De Alexandris), o come oggetto aperto a possibili combinazioni, in cui la singola tela può essere dipinto a sé o elemento di una serie combinabile con altri amplificando l’effetto tramite combinazioni multiple e diversificate, adattabili di volta in volta al luogo e alla parete su cui vanno a disporsi (Tessadri).
Non si può fare a meno, poi, di riflettere sul valore della tessitura cromatica, su quel procedere verso una pittura impalpabile che sembra essersi fatta da sola. Il procedimento di Tessadri, da questo punto di vista, punta davvero a un effetto rarefatto, fatto di velature progressive che arrivano a cancellare il segno della mano, come se la luce, o i punti d’ombra che trapuntano la tela affiorassero per emersione spontanea dal fondo, a cui risponde invece il tracciato evidente con cui De Alexandris isola l’area in cui andrà a operare con larghi tratti di pastello colorato lasciati a vista come in un ex-tempore o come una indicazione di lavoro in corso: uno sviluppo di quell’idea di precarietà evidente quando, in passato, aveva lavorato sulla stratificazione di carte appena puntate sul supporto con minimali strumenti.
Il punto fondamentale su cui merita porre attenzione, estraniandosi un attimo dalle istanze “analitiche” del discorso autoreferenziale sul linguaggio, i suoi limiti e i suoi strumenti, sta nel fatto che il colore si riconferma come una esperienza empatica, come una vera e propria “emozione cromatica” che sfugge a qualsiasi schema freddo e razionale, raggiungendo anzi le vette del sublime romantico quando ha modo di dispiegarsi in piena estensione. Del resto, sia De Alexandris sia Tessadri hanno optato per una tavolozza tonale e per un timbro di colore rispondente a una gamma cromatica naturale: nessuna inclinazione per un colore “artificiale” irreale e straniante, che respingerebbe una immersione ottica.
L’occhio che si perde in una perlustrazione palmare della tela, infatti, fa parte della storia della pittura: è un modo per estraniarsi dal soggetto, come hanno ben spiegato a suo tempo diversi libri di Daniel Arasse, e recuperare quel piacere sensuale per il tocco, per quel punto di colore e il suo modo di sollecitare e divertire lo sguardo. Un effetto non diverso, in fondo, dall’occhio che si avvicina alle grandi Ninfee dell’ultimo Monet fino a vedere soltanto la trama ordita dal pennello, o si perde nella selva di filamenti degli Stati d’animo boccioniani,che ai prodromi del Futurismo stavano a ribadire quanto di emozione passi anche attraverso l’accordo quasi musicale dei colori. Può darsi che si tratti di un anacronismo dello sguardo, ma può darsi anche che sia invece un perpetuarsi delle esperienze della visione secondo delle linee di lungo periodo che ricordano quanto il presente sia figlio ed erede di una grande tradizione con cui non ha mai tagliato davvero i ponti come talvolta gli assunti di poetica vorrebbero dichiarare.
D’altra parte, per chiudere, vale la pena rileggere un bellissimo appunto di De Alexandris, riproposto in quella raccolta di testi suoi dal titolo eloquente, Soglie, edito dalla torinese libreria OOLP nel 2014. Qui il pittore, e si è tentati di rileggere queste righe pensando anche al lavoro del collega più giovane, si sofferma su una esperienza cromatica, ma anche su un dato di natura inedito, che stonerebbe nel profilo austero e monacale di una pittura tutta concentrata filosoficamente su se stessa, dimenticando un sottofondo romantico che, alla fine, permane e si fa riconoscere: «L’azzurrità trascolora nell’aria che sommuove la leggerezza del colore avvolto da un respiro, sospeso nel trapasso verso il ceruleo della lontananza. Spazio trasparente intessuto di luce chiara, si fa pittura che precipita nel riverbero sospeso all’orizzonte, dove i margini disegnano i loro fermagli. Margini dell’infinito scorrono in spazi di trasparente leggerezza, nel vano desiderio di fermarne, seppur precariamente, il fluire. Che infinitamente ricomincia».
In entrambi i casi, infatti, la pittura ha valore in quanto tale slegata non solo da un referente, ma anche da una possibilità di forma: il colore è ostensione a sé della propria prima materia. Al di là di questo aspetto, condiviso con specifiche declinazioni dentro la grande famiglia delle istanze “analitiche”, ciò che davvero conta è la vibrazione della superficie della tela, la qualità di immersione di questa che rapisce l’occhio e lo trascina al suo interno. Non si pensa mai, oltretutto, a quanto queste ricerche, tutte mentali nel loro concepimento, comportino un esercizio di pazienza e una importante partecipazione fisica all’esecuzione: è per questo che certe superfici, riempite di piccoli tocchi di colore, diventano grandi e vibranti tessiture, frutto di un lavoro lungo e reiterato che diventa un calibrato corpo a corpo con la tela a distanza ravvicinata. Non a caso, parlando di Tessadri, Claudio Cerritelli sottolineava la «qualità fisica della luce», che è una luce sollecitata dal colore dal suo interno, ma è frutto di trasparenza del colore. Riguardo a De Alexandris, invece, nel 2004 Francesco Tedeschi parlava di uno «spazio di luce, forma del colore, impalpabile realtà che assorbe quell’idea e quel frammento di ricordo o di racconto che i pochi segni tracciati in funzione preparatoria ci mostrano, per trasporli in una dimensione altra, lontana, fuori da questo tempo e da questo spazio, dove essa recupera analogie con quelle pieghe della poesia e della filosofia che non intendono dichiarare, ma porre domande o anche alludere all’impossibilità di risolvere l’esistente in una forma compiuta». Oppure, «lo sguardo interroga la superficie», scrive ancora Cerritelli di Tessadri, «ma non riesce mai ad esaurire la sua sollecitazione, a comprendere la complessa identità del colore che procede per addizioni e sottrazioni, sfiorando talvolta il grado zero ma non proponendosi mai di assumerlo in modo definitivo». È evidente, dunque, che, limitandoci alla proposta dei due artisti dopo il Duemila e sul punto attuale delle loro ricerche, tutto si gioca su un’esperienza retinica, e sui meccanismi della visione, con quanto ciò comporta nella definizione del campo e della percezione dello spazio in profondità. Contano molto, come ha sottolineato Bonomi relativamente a Tessadri, i temi della griglia, del reticolo che struttura la composizione rendendola un piano partizionato in maniera regolare, e che in De Alexandris trova una rispondenza nel problema dell’impaginazione e del rapporto evidente fra campo cromatico e margine, ma al di là della disposizione degli elementi dentro una struttura più o meno esatta, resta aperta la questione di uno sfondamento in profondità “dentro” o “davanti” al quadro, di uno spazio che tende a risucchiare lo sguardo e a proiettarlo in uno spazio profondo o di un colore che si fa avanti e occupa lo spazio della fruizione, che è ostensione cromatica che avanza. Gli stessi titoli delle tele di de Alexandris suggeriscono questo ragionamento. Nei quadri recenti, infatti, non è raro incontrare “Stanze”, ma anche “luoghi d’ombra”, o indicazioni di movimento che tendono a un colore “verso l’indaco”, o che suggeriscono un’assimilazione del dipinto con una lastra di ardesia: tutti suggerimenti che inducono a vedere quel limite tracciato dal pittore a pastello non solo come un modo di delimitare il campo, ma come il confine fra un fronte e uno sfondato in profondità: tutto sta nel decifrare se quel campo di colore vibrante, che sembra prendere forma sotto lo sguardo dell’osservatore, sia un impedimento o un cono d’ombra, un’apertura su uno spazio retrostante non illuminato, a prescindere dal fatto che la stessa campitura, delimitata sulla cornice superiore e sfumata e indistinta nella zona inferiore. A instaurarsi, infatti, è una gerarchia degli spazi sul piano, a cui invece Tessadri non ricorre preferendo il trattamento della superficie come un unico campo in cui i limiti della tela sono solo un modo per inquadrare e circoscrivere un motivo virtualmente reiterabile all’infinito. Qui, in fondo, si gioca il discrimine fra un modo di intendere il quadro come unità singola e autonoma che si configura per cicli di ricerca (De Alexandris), o come oggetto aperto a possibili combinazioni, in cui la singola tela può essere dipinto a sé o elemento di una serie combinabile con altri amplificando l’effetto tramite combinazioni multiple e diversificate, adattabili di volta in volta al luogo e alla parete su cui vanno a disporsi (Tessadri).
Non si può fare a meno, poi, di riflettere sul valore della tessitura cromatica, su quel procedere verso una pittura impalpabile che sembra essersi fatta da sola. Il procedimento di Tessadri, da questo punto di vista, punta davvero a un effetto rarefatto, fatto di velature progressive che arrivano a cancellare il segno della mano, come se la luce, o i punti d’ombra che trapuntano la tela affiorassero per emersione spontanea dal fondo, a cui risponde invece il tracciato evidente con cui De Alexandris isola l’area in cui andrà a operare con larghi tratti di pastello colorato lasciati a vista come in un ex-tempore o come una indicazione di lavoro in corso: uno sviluppo di quell’idea di precarietà evidente quando, in passato, aveva lavorato sulla stratificazione di carte appena puntate sul supporto con minimali strumenti.
Il punto fondamentale su cui merita porre attenzione, estraniandosi un attimo dalle istanze “analitiche” del discorso autoreferenziale sul linguaggio, i suoi limiti e i suoi strumenti, sta nel fatto che il colore si riconferma come una esperienza empatica, come una vera e propria “emozione cromatica” che sfugge a qualsiasi schema freddo e razionale, raggiungendo anzi le vette del sublime romantico quando ha modo di dispiegarsi in piena estensione. Del resto, sia De Alexandris sia Tessadri hanno optato per una tavolozza tonale e per un timbro di colore rispondente a una gamma cromatica naturale: nessuna inclinazione per un colore “artificiale” irreale e straniante, che respingerebbe una immersione ottica.
L’occhio che si perde in una perlustrazione palmare della tela, infatti, fa parte della storia della pittura: è un modo per estraniarsi dal soggetto, come hanno ben spiegato a suo tempo diversi libri di Daniel Arasse, e recuperare quel piacere sensuale per il tocco, per quel punto di colore e il suo modo di sollecitare e divertire lo sguardo. Un effetto non diverso, in fondo, dall’occhio che si avvicina alle grandi Ninfee dell’ultimo Monet fino a vedere soltanto la trama ordita dal pennello, o si perde nella selva di filamenti degli Stati d’animo boccioniani,che ai prodromi del Futurismo stavano a ribadire quanto di emozione passi anche attraverso l’accordo quasi musicale dei colori. Può darsi che si tratti di un anacronismo dello sguardo, ma può darsi anche che sia invece un perpetuarsi delle esperienze della visione secondo delle linee di lungo periodo che ricordano quanto il presente sia figlio ed erede di una grande tradizione con cui non ha mai tagliato davvero i ponti come talvolta gli assunti di poetica vorrebbero dichiarare.
D’altra parte, per chiudere, vale la pena rileggere un bellissimo appunto di De Alexandris, riproposto in quella raccolta di testi suoi dal titolo eloquente, Soglie, edito dalla torinese libreria OOLP nel 2014. Qui il pittore, e si è tentati di rileggere queste righe pensando anche al lavoro del collega più giovane, si sofferma su una esperienza cromatica, ma anche su un dato di natura inedito, che stonerebbe nel profilo austero e monacale di una pittura tutta concentrata filosoficamente su se stessa, dimenticando un sottofondo romantico che, alla fine, permane e si fa riconoscere: «L’azzurrità trascolora nell’aria che sommuove la leggerezza del colore avvolto da un respiro, sospeso nel trapasso verso il ceruleo della lontananza. Spazio trasparente intessuto di luce chiara, si fa pittura che precipita nel riverbero sospeso all’orizzonte, dove i margini disegnano i loro fermagli. Margini dell’infinito scorrono in spazi di trasparente leggerezza, nel vano desiderio di fermarne, seppur precariamente, il fluire. Che infinitamente ricomincia».
27
aprile 2018
Rolando Tessadri / Sandro DeAlexandris – 11,7 mq
Dal 27 aprile al 27 maggio 2018
arte contemporanea
Location
SPAZIO KN
Trento, Vicolo Dei Dall'armi, 15, (Trento)
Trento, Vicolo Dei Dall'armi, 15, (Trento)
Orario di apertura
da martedì a sabato ore 17-19
Vernissage
27 Aprile 2018, ore 18.00
Autore
Curatore