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Saperi e Sapori
Venti studenti iscritti al corso di pittura dell’Accademia di Belle Arti di Brera, hanno partecipato al progetto espositivo Saperi e Sapori sotto la duplice direzione dei professori Stefano Pizzi e Nicola Salvatore. Le opere raccolte in questo catalogo offrono un’ampia visione sul sistema espressivo
Comunicato stampa
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“Saperi e Sapori”
di Ida Chicca Terracciano
Venti studenti iscritti al corso di pittura dell’Accademia di Belle Arti di Brera, hanno partecipato al progetto espositivo Saperi e Sapori sotto la duplice direzione dei professori Stefano Pizzi e Nicola Salvatore.
Le opere raccolte in questo catalogo offrono un’ampia visione sul sistema espressivo scaturito dal percorso iniziato circa vent’anni fa dall’idea del prof. Nicola Salvatore di scegliere il territorio della trasversalità percettiva come luogo dell’approfondimento creativo.
All’interno di questo spazio occupa una posizione centrale il rapporto tra l’esperienza vissuta attraverso l’arte e il senso immaginifico originato dal rapporto con i sapori, portatori della molteplicità evocativa e sensoriale.
“Sgomberando il tavolo” da tendenze contemporanee in cui i sapori hanno assunto un rilievo importante quanto spesso effimero, il lavoro di ricerca qui presentato è stato predisposto attraverso il fare arte. Le conoscenze si sono combinate quindi con i sapori aprendo il campo della ricerca alle implicazioni e alle relazioni simboliche, psicologiche, sociologiche, biologiche insieme, riaffermando così la valenza profondamente antropologica del soggetto. L’universo dei sapori-saperi sperimentati o da sperimentare rappresenta quindi un luogo di ricerca individuale, ma soprattutto e forse ancor prima collettiva.
Ogni mercoledì e per l’intero anno accademico, il frutto dell’osservazione degli studenti: carote, ceci, patate, sono state rivisitate da ciascuno e verso mezzogiorno raccolte e cucinate nella bottega alchemica dell’aula otto di Brera, dove trovano posto le cucine della Trattoria da Salvatore. Culmine di questo percorso è l’esperimento organizzato in collaborazione con uno staff composto da uno chef e un sommelier, giunti apposta per descrivere il menù per poi cucinarlo, mentre gli effluvi dei vapori che invadevano l’aula evocavano nei giovani artisti immagini e sintesi percettive.
La condivisione degli elementi primari, prima sotto forma di osservazione individuale e poi attraverso la loro cottura e assunzione condivisa rientra in un grande momento rituale e performativo.
La convivialità, la goliardia, la sacralità della condivisione degli stessi sapori ha un’origine remota quanto complessa nei suoi significati; così i sapori possono divenire ora un medium unificante ora, al contrario, un transfert nell’esagerazione bacchica o bulimica come ampiamente raccontato ieri dalla stagione barocca italiana ed europea, oggi dal patrimonio dell’arte contemporaneo, tra performance e documentazione, tra antropologia dell’arte e fotografia e anche nel cinema.
L’aspetto collettivizzante rappresenta quindi l’altra faccia della questione, e sebbene i lavori qui presentati siano costituiti prevalentemente da pitture e quindi da concezioni squisitamente individuali, esso è un dato comunque presente. Il percorso esperienziale ha obbligato, infatti, gli artisti a liberarsi dalle sovrastrutture e ad affidarsi alla parte più sincera della propria espressività; a esperire la trasversalità sensoriale dove l’immagine ha un odore, un suono, una particolare resa tattile, materica e cromatica.
I giovani artisti verificando la propria sensibilità e la propria parte istintiva, hanno assunto se stessi come soggetto di un’esperienza diretta, compiendo così un atto autenticamente conoscitivo.
La stessa azione verificatasi nel corso delle lezioni di far “inchiodare” a ciascun giovane artista dei polipi sul muro dell’aula, come oggetto di studio, pur riprendendo un’antica pratica accademica nello studio della “natura morta”, riafferma la necessità di ripensare il vivente, dove appendere, vuol dire mettere al centro del proprio sistema prima, della propria osservazione poi.
Il lavoro degli artisti in mostra rappresenta l’espressione più autentica e vivace di questo clima e ciascun’opera presenta una propria spiccata specificità e una sincera impronta espressiva. Così le spire disegnate da Olga Abramova conservano l’impronta comune a molta produzione russa otto-novecentesca, lasciando però intravedere morfologie umane dall’essenza decadente, mentre Martina Lupi rafforza l’oggettività del contrasto materico tra corpo femminile e corpo animale aderenti tra loro in un connubio sensuale. Altra posizione occupa l’opera di Enea Gjeci che attraverso l’animazione del segno rileva la lucidità acquosa dei tentacoli quali elementi vivi e aperti sulla realtà; superando la staticità della descrizione rileva il movimento pluridirezionale delle spire. Ancora, Matteo Giagnacovo in “Carta 4” attraverso un notevole processo di sintesi realizza una sezione stratigrafica e corpuscolare di un terreno la cui estensione è attraversata in verticale da carote. Si tratta di una visione ripensata attraverso il filtro della memoria, la materia perde i suoi connotati e si parcellizza mostrando solo l’impronta della permanenza retinica. Il concetto di attraversamento, invece, è isolato ed emblematizzato da Pietro Ferri in “Carota/chiodo” attraverso la concettualizzazione delle proprietà fisiche e morfologiche del terreno e della carota. Angela Mangiarini disegna seguendo l’inversione di luce e ombra del fenomeno negativo, le figure appaiono così come apparati biologici rivelati da raggi X; al contrario i “Semi” di Emanuela Castelli si configurano nella loro pienezza morfologica che è insieme vitale e materica.
Beatrice Cerminara e Kim Sun Woo, pur nelle diverse identità culturali ed espressive, si distinguono per la comune sensibilità plastica dal carattere sintetico; la ricerca della prima si orientata in essenza sul tema dell’impronta, la seconda, invece, si muove seguendo le contemporanee tendenze analitiche e minimaliste.
Caratteristiche neo dada presenta l’opera “Filling bottle” di Matthew Constance, in cui l’oggetto bicchiere diviene il tramite simbolico della saturazione e del colmo della misura; mentre Erica Motta in “Liquido” opera una de-contestualizzazione dell’oggetto reinterpretandolo in una marcata riduzione d’uso, realizzando un’opera a metà strada tra ready-made e arte povera. Vanessa Anzoni dipinge un Lady Godiva, l’opera per le caratteristiche puramente esteriori e l’annullamento critico di ogni soggettività nella rappresentazione, rivisita il linguaggio della Pop Art. continuando sulla stessa linea Ciro Casale riprende il linguaggio specifico dei cartelli informativi dei supermercati, proponendo l’analisi descrittiva delle parti che compongono l’animale macellato in cui il suo corpo-puzzle numerato si sovrappone e confonde con il frazionamento dello sfondo creando una mappa capziosa dei sapori.
Wang Pan, invece, conserva la propria appartenenza culturale compreso l’utilizzo della scrittura ideografica, offrendo una rappresentazione al cui centro si pone la relazione tra il sapore e la tenerezza.
Su tutt’altro fronte è orientata la ricerca espressiva di Noemi Quagliati che, attraverso la serialità delle immagini, documenta l’esperienza dell’assunzione del sapore; vicina a quest’ultima per la scelta dei mezzi espressivi è Federica Murè che compone in un’immagine unica l’intera esperienza realizzata con l’intervento del performativo dello staff culinario.
Ancora, dalla contemporanea “natura morta” di Claudia Piatti scoperta dal violento flash notturno e rivelata con violenza nelle parti mature e marcescenti a quella di Ottavio Mangiarini cruda nel suo realismo quanto orientata al riappropriarsi del tema, non solo per un esercizio di stile, ma per formare un linguaggio che sappia parlare di passioni. Caratteristiche analoghe, ma addolcite da un’atmosfera neo-romantica, presenta il “Noturno” di Domenico Liguigli.
Il carattere espressionista di Dino Cerchiai si manifesta nell’impulso motorio conferito al segno-gesto per esprimere la condizione d’innocenza e vulnerabilità della “Bambina con cestino di frutta”.
L’opera di Francesca Nacci si colloca in maniera autonoma rispetto alle opere presenti in catalogo per le caratteristiche d’immediatezza e vibrante intensità. E’ una ricerca condotta attraverso l’uso del colore declinato in gamme trasparenti e di essenziali gesti segnici; le macchie cromatiche si dilatano fluide sulla superficie e con il loro potere evocativo si aprono alla rivelazione dell’anima delle cose. In “Malvasia” sono descritti i colori e i profumi del vino, gli umori-emozioni si effondono con una vivida liquidità pregna di evocazioni e di atmosfere che si succedono a più livelli. Particolare significativo della intuitiva sensibilità dell’artista, sono i diversi automatismi grafici e la presenza, pur all’interno di un discorso astratto- informale, di immagini figurative.
di Ida Chicca Terracciano
Venti studenti iscritti al corso di pittura dell’Accademia di Belle Arti di Brera, hanno partecipato al progetto espositivo Saperi e Sapori sotto la duplice direzione dei professori Stefano Pizzi e Nicola Salvatore.
Le opere raccolte in questo catalogo offrono un’ampia visione sul sistema espressivo scaturito dal percorso iniziato circa vent’anni fa dall’idea del prof. Nicola Salvatore di scegliere il territorio della trasversalità percettiva come luogo dell’approfondimento creativo.
All’interno di questo spazio occupa una posizione centrale il rapporto tra l’esperienza vissuta attraverso l’arte e il senso immaginifico originato dal rapporto con i sapori, portatori della molteplicità evocativa e sensoriale.
“Sgomberando il tavolo” da tendenze contemporanee in cui i sapori hanno assunto un rilievo importante quanto spesso effimero, il lavoro di ricerca qui presentato è stato predisposto attraverso il fare arte. Le conoscenze si sono combinate quindi con i sapori aprendo il campo della ricerca alle implicazioni e alle relazioni simboliche, psicologiche, sociologiche, biologiche insieme, riaffermando così la valenza profondamente antropologica del soggetto. L’universo dei sapori-saperi sperimentati o da sperimentare rappresenta quindi un luogo di ricerca individuale, ma soprattutto e forse ancor prima collettiva.
Ogni mercoledì e per l’intero anno accademico, il frutto dell’osservazione degli studenti: carote, ceci, patate, sono state rivisitate da ciascuno e verso mezzogiorno raccolte e cucinate nella bottega alchemica dell’aula otto di Brera, dove trovano posto le cucine della Trattoria da Salvatore. Culmine di questo percorso è l’esperimento organizzato in collaborazione con uno staff composto da uno chef e un sommelier, giunti apposta per descrivere il menù per poi cucinarlo, mentre gli effluvi dei vapori che invadevano l’aula evocavano nei giovani artisti immagini e sintesi percettive.
La condivisione degli elementi primari, prima sotto forma di osservazione individuale e poi attraverso la loro cottura e assunzione condivisa rientra in un grande momento rituale e performativo.
La convivialità, la goliardia, la sacralità della condivisione degli stessi sapori ha un’origine remota quanto complessa nei suoi significati; così i sapori possono divenire ora un medium unificante ora, al contrario, un transfert nell’esagerazione bacchica o bulimica come ampiamente raccontato ieri dalla stagione barocca italiana ed europea, oggi dal patrimonio dell’arte contemporaneo, tra performance e documentazione, tra antropologia dell’arte e fotografia e anche nel cinema.
L’aspetto collettivizzante rappresenta quindi l’altra faccia della questione, e sebbene i lavori qui presentati siano costituiti prevalentemente da pitture e quindi da concezioni squisitamente individuali, esso è un dato comunque presente. Il percorso esperienziale ha obbligato, infatti, gli artisti a liberarsi dalle sovrastrutture e ad affidarsi alla parte più sincera della propria espressività; a esperire la trasversalità sensoriale dove l’immagine ha un odore, un suono, una particolare resa tattile, materica e cromatica.
I giovani artisti verificando la propria sensibilità e la propria parte istintiva, hanno assunto se stessi come soggetto di un’esperienza diretta, compiendo così un atto autenticamente conoscitivo.
La stessa azione verificatasi nel corso delle lezioni di far “inchiodare” a ciascun giovane artista dei polipi sul muro dell’aula, come oggetto di studio, pur riprendendo un’antica pratica accademica nello studio della “natura morta”, riafferma la necessità di ripensare il vivente, dove appendere, vuol dire mettere al centro del proprio sistema prima, della propria osservazione poi.
Il lavoro degli artisti in mostra rappresenta l’espressione più autentica e vivace di questo clima e ciascun’opera presenta una propria spiccata specificità e una sincera impronta espressiva. Così le spire disegnate da Olga Abramova conservano l’impronta comune a molta produzione russa otto-novecentesca, lasciando però intravedere morfologie umane dall’essenza decadente, mentre Martina Lupi rafforza l’oggettività del contrasto materico tra corpo femminile e corpo animale aderenti tra loro in un connubio sensuale. Altra posizione occupa l’opera di Enea Gjeci che attraverso l’animazione del segno rileva la lucidità acquosa dei tentacoli quali elementi vivi e aperti sulla realtà; superando la staticità della descrizione rileva il movimento pluridirezionale delle spire. Ancora, Matteo Giagnacovo in “Carta 4” attraverso un notevole processo di sintesi realizza una sezione stratigrafica e corpuscolare di un terreno la cui estensione è attraversata in verticale da carote. Si tratta di una visione ripensata attraverso il filtro della memoria, la materia perde i suoi connotati e si parcellizza mostrando solo l’impronta della permanenza retinica. Il concetto di attraversamento, invece, è isolato ed emblematizzato da Pietro Ferri in “Carota/chiodo” attraverso la concettualizzazione delle proprietà fisiche e morfologiche del terreno e della carota. Angela Mangiarini disegna seguendo l’inversione di luce e ombra del fenomeno negativo, le figure appaiono così come apparati biologici rivelati da raggi X; al contrario i “Semi” di Emanuela Castelli si configurano nella loro pienezza morfologica che è insieme vitale e materica.
Beatrice Cerminara e Kim Sun Woo, pur nelle diverse identità culturali ed espressive, si distinguono per la comune sensibilità plastica dal carattere sintetico; la ricerca della prima si orientata in essenza sul tema dell’impronta, la seconda, invece, si muove seguendo le contemporanee tendenze analitiche e minimaliste.
Caratteristiche neo dada presenta l’opera “Filling bottle” di Matthew Constance, in cui l’oggetto bicchiere diviene il tramite simbolico della saturazione e del colmo della misura; mentre Erica Motta in “Liquido” opera una de-contestualizzazione dell’oggetto reinterpretandolo in una marcata riduzione d’uso, realizzando un’opera a metà strada tra ready-made e arte povera. Vanessa Anzoni dipinge un Lady Godiva, l’opera per le caratteristiche puramente esteriori e l’annullamento critico di ogni soggettività nella rappresentazione, rivisita il linguaggio della Pop Art. continuando sulla stessa linea Ciro Casale riprende il linguaggio specifico dei cartelli informativi dei supermercati, proponendo l’analisi descrittiva delle parti che compongono l’animale macellato in cui il suo corpo-puzzle numerato si sovrappone e confonde con il frazionamento dello sfondo creando una mappa capziosa dei sapori.
Wang Pan, invece, conserva la propria appartenenza culturale compreso l’utilizzo della scrittura ideografica, offrendo una rappresentazione al cui centro si pone la relazione tra il sapore e la tenerezza.
Su tutt’altro fronte è orientata la ricerca espressiva di Noemi Quagliati che, attraverso la serialità delle immagini, documenta l’esperienza dell’assunzione del sapore; vicina a quest’ultima per la scelta dei mezzi espressivi è Federica Murè che compone in un’immagine unica l’intera esperienza realizzata con l’intervento del performativo dello staff culinario.
Ancora, dalla contemporanea “natura morta” di Claudia Piatti scoperta dal violento flash notturno e rivelata con violenza nelle parti mature e marcescenti a quella di Ottavio Mangiarini cruda nel suo realismo quanto orientata al riappropriarsi del tema, non solo per un esercizio di stile, ma per formare un linguaggio che sappia parlare di passioni. Caratteristiche analoghe, ma addolcite da un’atmosfera neo-romantica, presenta il “Noturno” di Domenico Liguigli.
Il carattere espressionista di Dino Cerchiai si manifesta nell’impulso motorio conferito al segno-gesto per esprimere la condizione d’innocenza e vulnerabilità della “Bambina con cestino di frutta”.
L’opera di Francesca Nacci si colloca in maniera autonoma rispetto alle opere presenti in catalogo per le caratteristiche d’immediatezza e vibrante intensità. E’ una ricerca condotta attraverso l’uso del colore declinato in gamme trasparenti e di essenziali gesti segnici; le macchie cromatiche si dilatano fluide sulla superficie e con il loro potere evocativo si aprono alla rivelazione dell’anima delle cose. In “Malvasia” sono descritti i colori e i profumi del vino, gli umori-emozioni si effondono con una vivida liquidità pregna di evocazioni e di atmosfere che si succedono a più livelli. Particolare significativo della intuitiva sensibilità dell’artista, sono i diversi automatismi grafici e la presenza, pur all’interno di un discorso astratto- informale, di immagini figurative.
17
giugno 2010
Saperi e Sapori
Dal 17 giugno al 15 luglio 2010
arte contemporanea
Location
OFFBRERA ACCADEMIA CONTEMPORANEA
Milano, Via San Calocero, 27, (Milano)
Milano, Via San Calocero, 27, (Milano)
Orario di apertura
da martedì a sabato ore 16-19
Vernissage
17 Giugno 2010, ore 18,00
Autore
Curatore