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Zoltan Bela – Transition Icons
La politica riempie e svuota l’arte di messaggi ideologici, spesso con grande facilità. Conseguentemente, nelle opere d’arte si ritrova occultata la storia politica –tombe di immagini, tracce di iconoclastia, nel nostro caso il realismo socialista.
Comunicato stampa
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East files.
Dopo il 1989 molte cose sono cambiate in Europa, soprattutto le parole Est e di Ovest ha cambiato radicalmente significato. Ma è anche vero che c’è stata una straordinaria fretta a rimuovere completamente 50 anni di storia a favore di un tempo e di una memoria più semplici, rettilinei e uniformi, una sorta di memoria “americana” breve e ipocrita. Però è vero che l’arte, soprattutto dagli anni 90 fino ad oggi, ha assunto anche una funzione antropologica, è diventata un serbatoio di memorie, un archivio. Forse per mancanza di idee o per trend alimentati dalle molti biennali internazionali, vediamo un succedersi di lavori incomprensibili e noiosi, piatti e incredibilmente inutili che no aggiungono nulla a quanto già non si sappia sulle emarginazioni sociali e politiche nel mondo. Spesso i giovani artisti, con strumenti e tecniche multimediali (le più pratiche ) , hanno affrontato il tema del cambiamento, delle origini tradite, delle etnie in pericolo, del confronto tra il passato recente e l’attualità senza fine che abbiamo davanti. Zoltan Bela ha scelto una strada difficile perché ha scelto la pittura. Il suo però non è un libro di ricordi o di nostalgie. Non si è messo a recuperare vecchi video, e non ne ha creati di nuovi per metterli a confronto, né si è messo a realizzare dei finti reportages o documentari. Ha scelto una tecnica antica e difficile per organizzare la sua visione delle cose, per sedimentare nell’arte la memoria della sua Romania, di quella non solo che ha vissuto, ma che è ancora sopravvissuta ai sussulti della storia. Da artista non si limita a registrare, in lui tutto diventa simbolico, viene organizzato e trasformato in opera d’arte. Non cerca di riprendere delle immagini perdute consacrandole al futuro, sceglie e crea dei simboli. Uno su tutti è nell’opera intitolata “Aurochs”, in cui un bufalo guarda l’osservatore del quadro all’interno di una sgangherata officina. Ma l’Aurochs o Urus è proprio un simbolo del regime comunista, qualcosa di antico che resiste, che muta ma non cambia. D’altra parte, storicamente, il bue europeo si è salvato dalle stragi dei nazisti in ritirata dalla Russia, proprio in Romania e in Polonia. La metafora ha una sua logica e una profonda ironia. Però è chiaro che prevale il valore metaforico di un animale antico che sopra/vvive in un habitat caratterizzato da una forte presenza di bassa tecnologia.E sopravvivenze ci sono anche in “Posterboard”, volti, personaggi, storie di un passato che non si cancella ritagliando da una bandiera il simbolo del comunismo, ma non si vuole nemmeno celebrare come memoria. La storia avviene anche senza di noi che ricordiamo, ma questa è la versione di Zoltan, un giovane artista che ricomincia da dove è finito il mondo della sua infanzia. Naturalmente i ricordi non sono di quelli che si attaccano troppo ai sentimenti. La “Dacia” è soprattutto una parte del paesaggio, non certo un campione d’avventure motoristiche, altro nome del low tech del “blocco comunista”. Si tratta sempre di simboli, di etichette che non si possono più rimuovere senza offendere la storia e senza dimenticare il presente. Sono letteralmente dei “luoghi comuni” difficili da rimuovere, non solo come inconscio. La sua stessa scelta coloristica tende ai toni alti, non vi è drammaticità ma una luminosità diffusa, uniforme quasi grigiastra, E’ un mondo colorato ma con una certa parsimonia. Non è un mondo televisivo e né tanto meno cinematografico. Ha qualcosa di polveroso e di attenuato, comunque esplicito, anche se non certamente scintillante. E non potrebbe essere diversamente. Il tempo sbiadisce anche i ricordi più vividi e drammatici come l’11 settembre delle Twin Towers accostato ad un graffito che inneggia all’America come terra promessa di libertà e bellezza. Del resto l’intelligenza di Zoltan Bela sta proprio nel non dare delle sentenze definitive. Come artista fa vedere delle cose, dipinge, non si espone a giudizi, né tanto meno vuole assumere un ruolo che non è suo. Questa è la sua storia che è vista con il distacco non solo del tempo, ma anche dell’ironia. “Still life” è una natura morta in progress, per così dire. Una serie di candellotti di dinamite sta per essere avviata all’esplosione da un timer che scandisce gli ultimi secondi. L’opera d’arte è anche questo, possibilità di giocare all’eternità sul filo del rasoio. Zoltan rifà il verso ad uno dei generi artistici più noti e celebrati, lo reinventa dandogli una straordinaria attualità. Per questo il titolo non sta per il gergale “Natura morta” come lo si usa in ambito pittorico e fotografico, ma più una traduzione parola per parola: “Still life” come “Ancora vita”, sopravvivenza alla rigidità e fissità della morte. Ma anche semplice rassegnazione all’impossibilità di vivere con completezza la nostra esistenza, quando la morte stessa ci viene fatta passare per la vita, diventando un’unica entità irriconoscibile e non più separabile. L’ironia apre a grandi pensieri, le memorie personali diventano qualcosa che appartiene a tutti. La pittura di Zoltan Bela non finisce davanti alla retina, va oltre raccontandoci storie che non conosciamo e facendoci interrogare sul senso del futuro che ci attende.
Valerio Dehò
Dopo il 1989 molte cose sono cambiate in Europa, soprattutto le parole Est e di Ovest ha cambiato radicalmente significato. Ma è anche vero che c’è stata una straordinaria fretta a rimuovere completamente 50 anni di storia a favore di un tempo e di una memoria più semplici, rettilinei e uniformi, una sorta di memoria “americana” breve e ipocrita. Però è vero che l’arte, soprattutto dagli anni 90 fino ad oggi, ha assunto anche una funzione antropologica, è diventata un serbatoio di memorie, un archivio. Forse per mancanza di idee o per trend alimentati dalle molti biennali internazionali, vediamo un succedersi di lavori incomprensibili e noiosi, piatti e incredibilmente inutili che no aggiungono nulla a quanto già non si sappia sulle emarginazioni sociali e politiche nel mondo. Spesso i giovani artisti, con strumenti e tecniche multimediali (le più pratiche ) , hanno affrontato il tema del cambiamento, delle origini tradite, delle etnie in pericolo, del confronto tra il passato recente e l’attualità senza fine che abbiamo davanti. Zoltan Bela ha scelto una strada difficile perché ha scelto la pittura. Il suo però non è un libro di ricordi o di nostalgie. Non si è messo a recuperare vecchi video, e non ne ha creati di nuovi per metterli a confronto, né si è messo a realizzare dei finti reportages o documentari. Ha scelto una tecnica antica e difficile per organizzare la sua visione delle cose, per sedimentare nell’arte la memoria della sua Romania, di quella non solo che ha vissuto, ma che è ancora sopravvissuta ai sussulti della storia. Da artista non si limita a registrare, in lui tutto diventa simbolico, viene organizzato e trasformato in opera d’arte. Non cerca di riprendere delle immagini perdute consacrandole al futuro, sceglie e crea dei simboli. Uno su tutti è nell’opera intitolata “Aurochs”, in cui un bufalo guarda l’osservatore del quadro all’interno di una sgangherata officina. Ma l’Aurochs o Urus è proprio un simbolo del regime comunista, qualcosa di antico che resiste, che muta ma non cambia. D’altra parte, storicamente, il bue europeo si è salvato dalle stragi dei nazisti in ritirata dalla Russia, proprio in Romania e in Polonia. La metafora ha una sua logica e una profonda ironia. Però è chiaro che prevale il valore metaforico di un animale antico che sopra/vvive in un habitat caratterizzato da una forte presenza di bassa tecnologia.E sopravvivenze ci sono anche in “Posterboard”, volti, personaggi, storie di un passato che non si cancella ritagliando da una bandiera il simbolo del comunismo, ma non si vuole nemmeno celebrare come memoria. La storia avviene anche senza di noi che ricordiamo, ma questa è la versione di Zoltan, un giovane artista che ricomincia da dove è finito il mondo della sua infanzia. Naturalmente i ricordi non sono di quelli che si attaccano troppo ai sentimenti. La “Dacia” è soprattutto una parte del paesaggio, non certo un campione d’avventure motoristiche, altro nome del low tech del “blocco comunista”. Si tratta sempre di simboli, di etichette che non si possono più rimuovere senza offendere la storia e senza dimenticare il presente. Sono letteralmente dei “luoghi comuni” difficili da rimuovere, non solo come inconscio. La sua stessa scelta coloristica tende ai toni alti, non vi è drammaticità ma una luminosità diffusa, uniforme quasi grigiastra, E’ un mondo colorato ma con una certa parsimonia. Non è un mondo televisivo e né tanto meno cinematografico. Ha qualcosa di polveroso e di attenuato, comunque esplicito, anche se non certamente scintillante. E non potrebbe essere diversamente. Il tempo sbiadisce anche i ricordi più vividi e drammatici come l’11 settembre delle Twin Towers accostato ad un graffito che inneggia all’America come terra promessa di libertà e bellezza. Del resto l’intelligenza di Zoltan Bela sta proprio nel non dare delle sentenze definitive. Come artista fa vedere delle cose, dipinge, non si espone a giudizi, né tanto meno vuole assumere un ruolo che non è suo. Questa è la sua storia che è vista con il distacco non solo del tempo, ma anche dell’ironia. “Still life” è una natura morta in progress, per così dire. Una serie di candellotti di dinamite sta per essere avviata all’esplosione da un timer che scandisce gli ultimi secondi. L’opera d’arte è anche questo, possibilità di giocare all’eternità sul filo del rasoio. Zoltan rifà il verso ad uno dei generi artistici più noti e celebrati, lo reinventa dandogli una straordinaria attualità. Per questo il titolo non sta per il gergale “Natura morta” come lo si usa in ambito pittorico e fotografico, ma più una traduzione parola per parola: “Still life” come “Ancora vita”, sopravvivenza alla rigidità e fissità della morte. Ma anche semplice rassegnazione all’impossibilità di vivere con completezza la nostra esistenza, quando la morte stessa ci viene fatta passare per la vita, diventando un’unica entità irriconoscibile e non più separabile. L’ironia apre a grandi pensieri, le memorie personali diventano qualcosa che appartiene a tutti. La pittura di Zoltan Bela non finisce davanti alla retina, va oltre raccontandoci storie che non conosciamo e facendoci interrogare sul senso del futuro che ci attende.
Valerio Dehò
13
marzo 2009
Zoltan Bela – Transition Icons
Dal 13 marzo al 20 aprile 2009
arte contemporanea
Location
GALLERIA CARINI & DONATINI
San Giovanni Valdarno, Via Gruccia, 192b, (Arezzo)
San Giovanni Valdarno, Via Gruccia, 192b, (Arezzo)
Orario di apertura
lun-ven 9,30/20.00
Vernissage
13 Marzo 2009, opening venerdi 13 marzo 19:00
Autore
Curatore