13 gennaio 2023

exibart prize incontra Angela Viola

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La passione quasi inspiegabile per scatole e contenitori mi caratterizza: li uso come piccoli palchi scenografici nei quali metto in scena frammenti di immagini.

Angela Viola

Qual è stato il tuo percorso artistico?

Ho intrapreso il mio percorso dal liceo fino all’Accademia di belle Arti, prima a Palermo e poi a Milano. Dal 2004, in un lungo soggiorno a Valencia, la mia ricerca inizia a delinearsi chiaramente a seguito di un periodo di crisi e, soprattutto, grazie al confronto con artisti e linguaggi contemporanei al di fuori dell’ambito accademico. Dal 2010 una nuova ricerca, la serie Happy Family, ha contrassegnato per molti anni il mio lavoro e, parallelamente, una produzione di disegni su carta della serie MA(ta)SSE è divenuta una parte importante della mia produzione, fino alla chiusura definitiva con un’azione performativa avvenuta il 5 agosto 2022.
Attualmente sto attraversando un momento di crescita, dettato dal confronto con ciò che mi circonda; un momento in cui sto chiudendo definitivamente dei capitoli, dettati da scelte ed esperienze che non sono più su misura per me. Sto lavorando e ricercando sulla stratificazione della materia, nelle sue infinite forme, e su come rimettere ancora più ordine al concetto di caos che contraddistingue il nostro momento storico. Alla soglia dei 42 anni ho voglia di ripartire nuovamente, lasciare andare molti aspetti della mia vecchia ricerca per mantenere poche cose essenziali, affinché possa perseguire il mio unico scopo e la mia unica necessità, essere un’artista fino alla fine dei miei giorni.

 

Quali sono gli elementi principali del tuo lavoro?

Il filo rosso ha segnato una parte della mia ricerca fin dagli esordi, nel 2004, per giungere al suo progressivo esaurimento qualche anno fa: attraverso quel filo sono riuscita a sublimare un’esperienza dolorosa, vissuta passando per il dolore fino al perdono. Anche la serie Happy Family è nata dall’esigenza di rimettere insieme dei pezzi, legati alla nostra esperienza interiore, che si sono accumulati o frammentati nella prima forma di relazione che abbiamo vissuto: quella con la famiglia. Nel corso degli anni ho studiato e sono passata da esperienze che mi hanno fatto comprendere come ognuno di noi, ad un certo punto, tenta di mettere ordine al disordine delle nostre identità, generato e derivato dall’ambiente familiare: legami e traumi che navigano tra ricordi e azioni incontrollate che, spesso, definiscono chi siamo.
Infine, la passione quasi inspiegabile per scatole e contenitori mi caratterizza: li uso come piccoli palchi scenografici nei quali metto in scena frammenti di immagini, a volte incomplete, che possano suggerire a chi osserva (e non necessariamente raccontare in modo didascalico) le parti mancanti della storia così da lasciare spazio alla loro di storia. La scatola è anche una custodia reliquiaria, una forma di conservazione di aspetti fragili della nostra esistenza: a volte sono surreali, a volte metaforici, a volte espliciti, che mirano a voler coinvolgere emotivamente chi li osserva, a destare dubbi o a creare fastidio. Un invito gentile, o forse no, ma che deve essere sempre curato nei dettagli, elegante nella forma e nell’estetica affinché possa imprimersi in chi osserva, o almeno ci provo. Credo fermamente che si possa comunicare qualcosa di sgradito, vero o autentico mantenendo sempre vive la bellezza e la gentilezza.

 

In quale modo secondo te l’arte può interagire con la società, diventando strumento di riflessione e spinta al cambiamento?

L’arte si è servita di strumenti come l’immagine e lo spazio per interagire con i suoi contemporanei e, con il tempo, i loro eredi. Il potere dell’immagine ha determinato nel corso della storia numerose influenze estetiche, sociali, politiche e culturali; un potere amplificato dalla creazione di spazi (sacri, civili, privati) nei quali l’uomo è diventato egli stesso strumento e protagonista. L’arte è sempre stata un’esperienza attiva, mai passiva.
Oggi, più che in altri momenti storici, il ruolo dell’artista sembra porsi su una linea di confine molto sottile e, a volte, ambigua: la velocità con la quale ingurgitiamo immagini, inclusi i video e le realtà virtuali, dalla tv ai social, sta sacrificando il nostro senso critico e l’esperienza viva e attiva dell’arte, nella mente, nel corpo e nel cuore. A volte mi chiedo spesso si possa guarire da questa forma di bulimia e, nello stesso tempo, accettare che sia un aspetto chiave della nostra società contemporanea e che contraddistingue questo tempo.
Osservo ogni giorno il lavoro delle artiste e degli artisti che sono a me contemporanei e sono sempre alla ricerca di quella bellezza e di quella gentilezza, dello stupore e dell’autenticità, frutto di una dedizione (quasi maniacale e devota) al proprio lavoro (inteso come processo creativo). Apprezzo questo aspetto nella contemporaneità dell’arte e credo possa essere la base di un profondo cambiamento: che i temi trattati siano legati alla tecnologia dei materiali, passando per la denuncia o per l’ironia, non importa. L’importante è non dimenticarsi di condurre chi osserva verso lo stupore e nel silenzio immersivo che ti conducono in un’altra dimensione. Vi sono troppi prodotti da discount, troppe opere ritenute indispensabili ma non necessarie: l’arte può essere anche fine a sé stessa ma non finire in poco tempo.

 

Quali sono i tuoi programmi per il futuro?

Come affermato prima, i miei programmi futuri sono già in movimento: lasciando andare vecchi schemi per ripartire da zero, distruggendo per poi ricostruire. Ho programmato, entro pochi mesi, il mio trasferimento all’estero e guardo alla possibilità di una collaborazione oltre oceano con una giovane artista e curatrice argentina.
In quest’ultimo anno, il confronto con lei e altre realtà, hanno rafforzato la mia scelta di cambiamento e di sfida che si è aperta e che ho deciso di seguire. Purtroppo, spesso nel nostro paese se hai superato i quaranta e non fai parte del “jet set”, è difficile proporsi in vesti nuove, avere supporto e riconoscimento. Forse siamo in troppi (e troppa è la competizione), forse è la storia culturale del nostro paese, densa di un patrimonio artistico millenario o forse è il tipico atteggiamento “italiano”.
Sento il bisogno di prendere le distanze dall’Italia, mantenendo comunque delle relazioni con realtà e con coloro che lavorano nel settore dell’arte con passione, dedizione e senza eccessiva speculazione: il ponte affettivo e professionale con il mio paese sarà sempre costante ma, per non cadere nell’errore di giudicarlo con delusione, a volte è necessario osservarlo da lontano e in uno spazio diverso.

 

In quale modo le istituzioni potrebbero agevolare il lavoro di artisti e curatori?

Creando davvero una rete di collaborazione, senza influenze politiche e di speculazione economica, attraverso investimenti che siano davvero un aiuto e un sostegno, anche per le piccole realtà, di artisti e curatori desiderosi di mostrarsi e di operare in campo: solo così si creeranno reti e reali competenze, si scopriranno talenti e, perché no, si commetteranno errori. Solo così si potrà allenare e ripristinare un senso critico nella società e nel pubblico per l’arte e i suoi professionisti. Le istituzioni devono supportare la crescita culturale, dalle piccole associazioni alle grandi fondazioni, devono accettare le sfide e sostenere i contenuti di artisti e curatori senza pregiudizi e senza schieramenti: le istituzioni devono essere complici del cambiamento che artisti e curatori vogliono proporre al pubblico. Infine, rendendo il più possibile accessibili i luoghi dell’arte e dell’architettura a tutti, prendendo esempio dall’estero: qualcosa si sta muovendo negli ultimi anni ma non è ancora abbastanza.

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