14 aprile 2016

Torte bianche al Campo Rom di Scampia

 

di

Il furgoncino Mercedes procede
lentamente nel solco lasciato libero dai sacchi di immondizia, che si
diffondono su tutta la carreggiata come correnti marine di colori diversi. Ogni
tanto spunta qualche carcassa bruciata di un’automobile, relitti dalla storia
immobile, incagliati su un fondale d’asfalto. Sulla balaustra di un cavalcavia
c’è scritto, in azzurri caratteri fumettistici, “è permesso!?”. Luca muove il
volante con sicurezza, si gira continuamente sul sedile per guardarci, mentre
racconta il motivo per cui ci ha chiesto di accompagnarlo al campo Rom di
Scampia. Una ricchissima fondazione statunitense, gestita da un imprenditore
ungherese, vuole avviare un progetto di riqualificazione del campo. È un
investimento economicamente importante, che coinvolgerà la Comunità Europea e
vari altri soggetti e la fondazione vuole vederci chiaro, per questo ha deciso
di inviare una delegazione a Napoli. Luca è un architetto e ha dedicato gran
parte della sua vita al lavoro con le popolazioni romaní, di cui conosce le
storie, le culture, gli spostamenti, le paure, le leggende e le aspirazioni. Stiamo
andando al campo perché vuole assicurarsi che tutti sappiano di questa visita
imminente, così da poter discutere delle necessità e delle criticità con la
dovuta preparazione.

Le case si innestano tra i massicci
piloni della tangenziale, buona parte di esse è totalmente coperta dalla strada
sopraelevata. Le automobili vanno veloci e se ne sente solo il rumore che si
espande verso l’alto, come se volassero in un racconto vintage di fantascienza.
Ci accostiamo alla prima abitazione che incontriamo. Il rivestimento è composto
da pannelli rosa di diverse dimensioni, saldamente attaccati l’uno all’altro. Luca
ferma il furgone e dice a Flaviano, seduto al suo fianco, di scendere, bussare
alla porta e chiedere di Argentina. Aspettiamo all’esterno e, dopo poco, Argentina
arriva, imponente e con i capelli tirati all’indietro. Indossa guanti trasparenti,
sta facendo l’henné alle sue amiche e guarda con complicità Vittoria che, seduta
dietro, affianco a me, tenta di ricambiare. Il furgone prosegue sobbalzando
vertiginosamente sul fondo irregolare ed entriamo in questa fitta foresta di
piloni, attraversata da un pesante alito di plastica bruciata che si introduce
svogliatamente nel ritmo della respirazione. Luca ci dice che nel campo
convivono, non sempre cordialmente, diversi gruppi, dai Khorakhanè ai Kaloperi,
divisi per famiglia, provenienza, lavoro o religione, organizzati in nuclei
abitativi separati, tanti piccoli quartieri di una città senza luoghi.

Gruppi di bambini giocano a
rincorrersi, misurando, con le immagini create dai loro movimenti rapidi, con
le eco diffuse dalle loro voci acute, ogni frazione di questo spazio che, per
noi gadže, uomini non romaní, sembra
estendersi al di fuori di ogni coordinata. I bambini si avvicinano, riconoscono
il furgone come elemento di alterità ma ci sorridono con malizia e chiedono chi
stiamo cercando. Luca deve parlare con uno dei capifamiglia e sa dove andare.
C’è anche un cartello che è infisso su un’inferriata e indica chiaramente la strada:
“vendita di gelati da Dijean”. Un gruppo di case delimita la circonferenza di un
cortile, dove parcheggiamo il furgone. Dijean ci viene incontro, conosce bene Luca
ma non noi. Ci sorride e si presenta. Non è molto alto ma ben piazzato, un
ciuffo di capelli neri gli copre la fronte, un accenno di mosca stende un ombra
di vanità sul mento. Vorrei chiedergli il significato di quel cartello ma la
domanda potrebbe sembrare retorica, insulsa oppure fraintendibile. Ci fa
entrare in casa sua e fa cenno alla figlia di preparare il caffè. Ci sediamo a
un grande tavolo di vetro e legno laccato in bianco. Uno schermo piatto è
appeso in alto, i fili scompaiono nella parete. Sullo schermo passano le
immagini di un talent show presumibilmente rumeno. La casa è divisa da tende,
pareti animate dal vento che determinano le funzioni delle camere con
un’incertezza invadente o accogliente. Ogni angolo serve a qualcosa ed è stato
qualcos’altro. Nell’incoerenza dei colori e dei materiali, nella
sovrapposizione tra le dimensioni, c’è un linguaggio fatto di codici complessi
e simboli stratificati, un’architettura orale, scandita dall’alternanza di
impurità e preziosismi. Questa periferia di legni, lamiere, plastiche, vetri,
cavi, corde, è tenuta insieme da una sapienza millenaria che dichiara con
consapevolezza le peculiarità del proprio stile. L’instabilità è la condizione
strutturale di queste cattedrali, come un composto volatile che si è
cristallizzato in una forma organica e attraversabile. Ciò che i gadže chiamano casualità, qui diventa un
canone costruttivo e interpretativo.

«Quando verrà Matteo Salvini, noi
ce ne dovremo andare», Dijean lo ripete più volte con un nota di superficialità
che incrina la voce della paura o della rabbia. È un sentimento ibrido, impossibile
da comprendere e profondo, le sue radici si estendono dall’Italia all’Austria e
alla Germania, fino alla Serbia, alla Romania, alla Bulgaria, al Kosovo. Dijean vive
a Napoli da più di dieci anni, ha un lavoro, forse più di uno, e quattro figlie
che vanno a scuola e che, probabilmente, la lasceranno appena superata l’età di
un obbligo straniero che non hanno proprio motivo di riconoscere. Li salutiamo
e ci invitano per la festa del giorno seguente. La più piccola compirà gli anni
e, tra la casa di Dijean e le altre, c’è una via vai di vassoi carichi di torte
bianche. 

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