29 aprile 2025

Black Mirror, settima stagione: la distopia digitale alla ricerca dell’anima

di

Torna su Netflix la celebre serie tv di Charlie Brooker con sette nuovi episodi, tra il romantico e il sorprendente, alla ricerca di una nuova e più equilibrata relazione con la tanto temuta tecnocrazia digitale

«La realtà ha superato Black Mirror». Queste le parole di qualche tempo fa di Charlie Brooker, ideatore, sceneggiatore e padre padrone della celebre serie tv inglese – ora su Netflix – trasmessa fino al 2016 su Channel 4 e dedicata a storie immaginarie ambientate in una distopica era digitale. Da qualche settimana è uscita la stagione numero sette ma, in verità, sembra che pochi se ne siano accorti. È stato difficile trovare articoli, recensioni, opinioni sul lavoro di Brooker. Il prodotto si è sicuramente “normalizzato” ma non è dipeso solo dalla produzione americana. Qualcosa è davvero cambiato in questi anni.

Cosa è stato Black Mirror

Gli inizi furono veramente scintillanti. L’uscita della serie nel 2011 muoveva migliaia di post, commenti, recensioni, ore e ore di vlog di ogni commentatore su YouTube (Twitch era appena nato). Era un evento mediatico di grande portata. Le storie di BM raccontavano e immaginavano futuribili tecnologie digitali e cibernetiche in modo disturbante, angosciante, proprio mentre queste si diffondevano come una vera e propria rivoluzione culturale e antropologica.

Brooker e la sua squadra di sceneggiatori volevano metterci in guardia sul potenziale impatto che questi strumenti potenti e pericolosi potevano avere sulla percezione di noi stessi, del tempo, dello spazio, degli altri. BM esplorava nei suoi episodi ogni ipotesi, immaginava nuovi strumenti, nuovi gadget, cognitivi ed emozionali in grado di modificare il senso e il concetto stesso di vita.

L’impianto neuronale che permette di registrare ma soprattutto condividere con chiunque ogni ricordo ed esperienza di vita di The Entire History of You; il sistema di rating tramite app di Nosedive, che dava la possibilità di valutare ogni interazione umana offline, con la conseguente creazione di una spietata gerarchia tra individui, privilegiati o bannati a seconda del punteggio; le paurose tecnologie videoludiche immersive (squilibranti in ogni senso) di Playtest, Striking Vipers e USS Callister; i canidi robot da guerra di Metalhead o gli umani mostrificati dagli impianti usati dai soldati in Men Against Fire; fino al tentativo estremo di sfidare i confini della morte con Be Right Back (la creazione di cloni in grado di sostituire una persona morta) o l’episodio più significativo, San Junipero (una zona costiera per vacanzieri dove trasferire avatar digitali di persone morte o in fase terminale). Insomma ce n’era per tutti i gusti e tutte le necessità. Qualcosa di prorompente e inimmaginabile al tempo.

Poi qualcosa si deve essere rotto. O forse ha semplicemente avuto ragione lo showrunner di Reading, creatore di altre serie interessanti come How TV Ruined Your Life (2010) e la parodia delle serie crime A Touch of Cloth (2012-2014).

L’eterno ritorno della dimensione umana

Le nostre vite sono sempre più prossime a questi dispositivi, alla loro ideazione, alla necessità di crearle. Ne siamo consapevoli e sappiamo che qualcuno sta lavorando per crearli. E tematiche come l’immersione e la dipendenza psicologica, fisica, emotiva dalle tecnologie digitali, il potere invasivo e modellante dei social e della rete, la fine di ogni privacy, la solitudine avvolgente e l’alienazione confortante, il brutale sfruttamento economico degli affetti e delle relazioni sono ormai all’ordine del giorno. Non è più fantascienza ma scienza del quotidiano. Come la relativa disumanizzazione, l’insostenibile distanza/vicinanza con gli altri esseri umani che nel frattempo si sono trasformati in user, followers, haters, ghoster o love bombers.

È stata infine dimessa, lentamente, ogni dimensione reale, personale, umana alla volta di una iper-realtà sfuggente e sconosciuta. Qualcosa da esplorare ancora, per certi versi. E questo elemento sembra aver preso il sopravvento nella stagione sette di Black Mirror.

Le tecnologie sono queste, le abbiamo immaginate e create da tempo, oppure siamo lì per crearle. Ma non sappiamo più chi siamo noi. Coloro che le adoperano e che cambiano a causa loro, che si modificano a ogni nuovo impiego, a ogni uso.

Ed è questo che Brooker ha deciso di analizzare e ritrarre. Ha abbandonato la formula dei tre episodi brevi, dei tre shot rapidi e implacabili e con Netflix ha scelto il formato dei mediometraggi, con episodi anche oltre l’ora. Dei veri e propri mini film, tutto sommato di buona qualità, da gustare senza grandi pretese. Per provare a scavare dentro la nostra psiche pixellata, dentro la nostra anima renderizzata.

Così Plaything, che fa rivivere certe atmosfere anni ‘90, tra pixel e legami in stile “tamagotchi”, il gioco elettronico portatile che creava relazione affettiva tra l’utente e un piccolo animale virtuale (che aveva un ciclo di vita medio di 20 giorni e che poneva il tema della morte a ragazzini e ragazzine sopra i 10 anni). O Bête Noire e Reverie che trattano il tema dei potenziali effetti di distorsione del reale attraverso le tecnologie digitali e virtuali.

La più grande bio-macchina dell’universo

Ma le due perle di questa stagione, da vedere assolutamente, e che spostano un po’ più in là il confine tra realtà e tecno-realtà sono Common People (56 min) ed Eulogy (45 min). Qui i toni, i colori, le atmosfere cambiano. Si entra in uno spazio profondo, emozionale e ispirato. E forse tutto l’orientamento della serie cambierà in modo radicale.

Nel primo episodio, i due personaggi di Rashida Jones e Chris O’Dowd, Mike e Amanda, operaio e insegnante, si trovano costretti ad affrontare una sfida esistenziale e tecnologica ai limiti dell’umano. Amanda ha un cancro al cervello incurabile ma l’azienda Rivermind si offre di sostituire la parte malata con una ricostruita in laboratorio. Il problema è che l’innesto ha bisogno di un costante collegamento con dei server forniti dall’azienda. Con un relativo abbonamento che nei tempi diventa obsoleto, che va costantemente aggiornato con nuovi servizi e tariffe. Eventi che in fondo non sono così distanti dall’attualità.

Grazie alla tecnologia biomedica del bioprinting è oggi possibile stampare pelle, cartilagine, ossa attraverso il patrimonio genetico delle cellule staminali del soggetto, (come per il progetto Printmed, dell’università Statale di Milano). Ciò che però sconvolge, che annichilisce i due protagonisti dell’episodio è lo sfruttamento temporale, metodico, a suon di mensilità e scadenze; una specie di stillicidio economico e psicologico che l’azienda richiede ai suoi clienti per tenerli in vita, a costo di impoverirsi e non avere nient’altro che una scarna sopravvivenza.

Ed è qui che la coppia vuole rimanere unita, a fare gioco di squadra contro questa condizione umanamente ed economicamente insostenibile. Qui la tecnologia del futuro richiede un surplus di umanità, fino a una reazione luddista e suicida, ispirata però dalla ricerca, insieme, di un senso accettabile, vero, dignitoso di vita.

Meno drammatica ma più malinconica e agrodolce la storia di Eulogy. Come i lineamenti, il volto, le espressioni tenui e disperanti del bravissimo attore protagonista dell’episodio, Paul Giamatti.

Philip, uomo di mezza età, solo e riservato, riceve una telefonata dell’azienda Eulogy, un servizio di onoranze funebri davvero speciale. Lo informa infatti che una sua vecchia amica e fiamma della gioventù, Carol, è passata a miglior vita. La voce al telefono lo informa che la famiglia vorrebbe ricostruire ricordi e momenti della cara estinta. E per fare ciò sarà possibile utilizzare vecchie foto, che attraverso degli elettrodi speciali (pubblicizzati su una vera pagina Instagram come Nubbin, prodotto già acquistabile nella realtà) immergeranno Philip nel suo passato profondo, in una dimensione a metà tra l’onirico e il sub coscienziale.

Le vecchie foto sbiadite saranno la porta d’accesso per riattivare zone del cervello di Philip inattive, da cui estrarre ricordi, immagini e momenti apparentemente perduti ma in realtà soltanto sopiti, immagazzinati nella più grande bio-macchina dell’universo: il cervello umano.

L’idea dell’episodio in realtà non è così rivoluzionaria, né la tecnologia sembra così avveniristica. Basterebbe qualche seduta da un buon psicanalista per recuperare pezzi di memoria. Mentre per la tecnologia qualcosa è già stato immaginato da Ridley Scott in Blade Runner (1982) quando il capitano Rick Deckard scova il volto di una donna replicante “entrando” in una foto polaroid attraverso un computer dotato di visore ottico speciale.

Philip, addestrato e accompagnato dalla IA che ha le sembianze della figlia della donna scomparsa, accetta così la richiesta della tecnologia di Eulogy, quello di compiere un faticosissimo lavoro di lutto e memoria, alla ricerca di pezzi di vita, di frammenti che in morte diventano preziosi e introvabili come diamanti.

I due protagonisti vivono così qualcosa di estremamente intenso e condiviso. Qualcosa che tutti noi abbiamo vissuto o vivremo in qualche modo una volta nella vita. E questa tecnologia di scavo diventa davvero un mezzo neutro, uno strumento non invasivo ma che permette di dissotterrare, di ritrovare, qualcosa di perduto e prezioso.

Una tecnologia come realmente dovrebbe essere. Utile, neutra, benefica, alla portata di tutti. Una tecnologia umana. A quel punto potremmo dire, insieme a Brooker, che la realtà ha superato la nostra più rosea fantasia.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui