29 giugno 2019

Tutte le città del mondo, al Palais de Tokyo

 

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Nell’era delle megalopoli, le giungle urbane evolvono incessantemente, con edifici ultramoderni che accolgono centri d’affari, paradisiache zone residenziali per i più abbienti e una periferia trasformata dalle baraccopoli dove la popolazione si ammassa per perdersi nelle sfaccettature della povertà. 
È così per Lagos, in Nigeria, mecca dell’afropop e tra le città più popolate del mondo, ma anche per Dacca, Manila, Città del Messico e Teheran. Sono queste le megacittà che hanno ispirato i lavori di una cinquantina di creativi internazionali, emergenti e non, tra artisti, designer, stilisti, hacker, tatuatori e musicisti, riuniti nella mostra in “Prince.sse.s des villes” visitabile, dalla settimana scorsa, al Palais de Tokyo. 
Tema del percorso è l’ambiente urbano che, senza seguire una logica geografica o tematica, presenta una sorta di città in piena trasformazione, caotica, variopinta, umana, intrisa di sonorità alternative e, a volte, talmente vera da sembrare surreale. Curata da Hugo Vitrani e Fabien Danesi con la scenografia di Olivier Goethals, vi scopriamo non solo artisti ma anche spazi indipendenti e militanti. Come il Britto Arts Trust, primo spazio gestito da artisti in Bangladesh, nato nel 2002 a sostegno della creazione locale anche oltre i confini geografici, vedi la partecipazione alla 54ma Biennale di Venezia. A Parigi viene presentato un lavoro intorno agli oggetti di consumo quotidiano ispirati a immagini popolari come ombrellini o stoviglie. 
Troviamo, tra i giovani, Ema Edosio, la cineasta nigeriana di Kasala! (2018), un film che narra la storia di quattro adolescenti che vivono a Ojuelegba, nel ghetto di Lagos, dove ha vissuto inoltre Wizkid, la star dell’afropop. Tra gli artisti mid-career c’è Emeka Ogboh, che esplora le relazioni esistenziali, la migrazione e la colonizzazione, unendo cibo, suono, video e web. L’artista nigeriano porta qui The Tale of 5, una birra dai sapori speziati che rimandano a Lagos, Manila, Città del Messico, Teheran e Dacca. Un’opera che ricorda Sufferhead Original (2017), che l’artista ha presentato a documenta 14, dove furono distribuite 50mila bottiglie di birra artigianale, pubblicizzata con tanto di cartelloni, spot televisivi e jingle radiofonici. Ogboh presenta inoltre l’installazione Lagos: State of Mind, cioè un danfo, un autobus popolare giallo tipico di Lagos, nel quale il pubblico può accedere per errare nei paesaggi sonori della megalopoli. 
Interessanti le proposte dei collettivi, vedi quelle del nigeriano Wafflesncream o dei messicani Traición, promotori de cultura queer, ma anche Tercerunquinto e Biquini Wax EPS. Quest’ultimo presenta un’installazione in situ, Sa la na, a yuum, iasis, (lascia andare, lasciar andare), che vede la scultura di una grande orca in resina, rimando al film Save Willy (1993), per rivisitare diversamente la storia del Messico attraverso il tragico destino dell’animale. 
Segue Leeroy New che ha trasformato lo spazio Païpe in un bar di Coca Cola riempito di maschere aliene e oggetti in plastica coloratissimi, clin d’oeil ai mercati popolari filippini. Coloratissime sono anche le sculture d’art brut dell’iraniano Amir Kamand, un ex sciatore e pugile, che parte da ricordi intimi. Intorno alle disparità sociali, Doktor Karayom presenta un’installazione dai toni rossi, Isla Inip, che riempie una sala con al centro una grande scultura: si tratta del corpo del poeta filippino Jose Rizal ricoperto da figurine all’immagine di un’isola sovrappopolata. 
Bello il video di Reetu Sattar, che l’artista ha girato nel giardino della Galleria nazionale d’arte di Dacca, durante la sua performance Lost Tune (2016), dove vediamo un gruppo di musicisti di armonium suonare una sola nota, per una critica al fondamentalismo islamico crescente nel paese. Tantissime altre le storie da percorrere lungo questa mostra da vedere e rivedere fino all’8 settembre. (Livia De Leoni)
 

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