24 maggio 2013

La Lavagna

 
Una grande bellezza sprecata
di Ludovico Pratesi
L’ultimo film di Paolo Sorrentino punta l’indice su un mondo romano floscio e forse disperato che abita una città dalla bellezza ormai paradossale. Ma ce n’è anche per il mondo dell’arte contemporanea. Altrettanto malmesso e paradossale. Senza essere neanche particolarmente "bello".

di

Un pozzo melmoso dalle pareti di pietra, dove si precipita nelle sabbie mobili di un tempo azzerato, tra i ritmi ossessivi della disco music e i silenzi funerei di una città in agonia. Una morte annunciata che si rispecchia nello sguardo cinico e disilluso di Jep Gambardella, sessantacinquenne giornalista fallito, che si aggira come uno spettro tra strade, piazze e palazzi della città eterna, accompagnato dalla regia sontuosa e visionaria di Paolo Sorrentino. Immagini di monumenti spettacolari, riprese con occhio sapiente e spesso sorprendente, che non hanno però alcun rapporto con l’umanità che li abita, dominata da una disperazione rassegnata, senza speranza né energia. Jep è circondato da figure decadenti e patetiche, dai volti sfigurati dal botulino e le anime sprofondate in una noia profonda, che consumano le loro giornate inutili e immemori tra un nuotata in piscina, una conversazione insulsa e una scopata stanca e triste. Ed è la tristezza il leit-motiv di La Grande Bellezza, l’unico film che l’Italia ha portato a Cannes e il quinto della brillante e veloce carriera di Sorrentino, che si misura con temi sempre più ambiziosi, come in questo caso. 
L’inizio è folgorante, con la macchina da presa che rivela i visi devastati di tutti i protagonisti, gli amici riuniti su una vertiginosa terrazza affacciata su via della Conciliazione per festeggiare il compleanno di Jep, dove si sovrappongono le note dei mariachi messicani e la versione disco delle canzoni di Raffaella Carrà, tra volteggi di nobildonne attempate, giornaliste nane e stempiati faccendieri, che volteggiano intorno a Gambardella, flemmatico gagà d’altri tempi. 
La grande bellezza, di Paolo Sorrentino
Un impietoso ritratto in stile cafonal che rivela la desolazione di una città che ha svenduto la propria cultura per una mondanità da baraccone, animata da anziani stanchi, depressi e rassegnati, che Sorrentino mette in scena in maniera impietosa. Ma dopo un incipit brillante e molto promettente, il film prosegue in maniera assai discontinua per più di due ore, con momenti luminosi e molte zone d’ombra, che a volte sembrano quasi un pretesto per carrellate di immagini di monumenti famosi presi da angolature particolari, tipo documentario turistico. Ripetitive le conversazioni sulla terrazza “bordo Colosseo” di Jep, inutili i riferimenti troppo smaccatamente felliniani al mondo religioso, con suore in ogni angolo della città, mentre assai riuscito il cammeo di Roberto Herlizka in veste di porporato. 
Sorrentino se la prende anche con il mondo dell’arte contemporanea, con una ridicola performance di una bambina urlante che getta secchi di vernici colorate su una tela in un garden party affollato di cadaveri agghindati a festa, e una visita del nostro Gambardella, nella sua veste di cronista mondano, ad una mostra fotografica di autoritratti allestita nell’emiciclo di Villa Giulia. Anche qui, pur nella sua lettura eccessivamente paradossale e grottesca, Sorrentino ha messo il coltello nella piaga, denunciando quel senso di stanchezza che da qualche tempo circola tra i vernissage capitolini, dove la dimensione sociale sembra aver preso il sopravvento su quella culturale. La percezione di una perdita di senso e di necessità malcelato da riti mondani spesso privi di motivazioni se non una sfilata di persone che trovano una pallida giustificazione della propria esistenza nell’appartenere ad un mondo professionale dove basta autodefinirsi per essere accolti. Ma perché il film di Sorrentino, pur configurandosi come un efficace e intenso ritratto della Roma di oggi, non riesce a convincere del tutto? Per un eccessivo rifarsi alla filmografia del passato (dal Fellini della Dolce Vita al De Sica di Ladri di biciclette) che non riporta le trasformazioni che la città ha subito negli ultimi decenni, poi per un inutile compiacimento nel tratteggiare la decadenza fisica e morale dei personaggi, senza approfondirne la complessità, che rimane troppo in superficie, e infine un ritmo più serrato (e qualche minuto in meno) avrebbero certamente giovato alla Grande Bellezza. Che rimane comunque uno spietato affresco agrodolce dai chiaroscuri caravaggeschi dell’Italia di oggi, un paesaggio di rovine dove la grandezza e la qualità del patrimonio artistico sembra non trovare più corrispondenza con il popolo che lo abita.
 

13 Commenti

  1. Caro Ludovico come fai a parlare di “opening senza carattere culturale” quando sei il primo a frequentare gli ambienti “alti e facoltosi”, sei sempre li con il bicchiere in mano a far sorrisi per pettinare il tuo narcisismo, sempre il primo tra i ricchi romani..cerca almeno una coerenza “intellettuale” lascia perdere considerazioni a sfondo sociale. per una volta prova a fare qualcosa di nuovo invece di ripetere ( come tutti gli altri insicuri) gli stessi artisti che “i giornalini” o “amici galleristi” ti dicono di fare. Dai fai uno sforzo che non sei in fondo così patetico

  2. Ma da quale pulpito viene la predica? Proprio da Pratesi, ciambellano ipocrita della mondanità più inutile, quella che va ai vernissage solo per vedere chi c’è e per parlarci se può essere utile. Senza vedere neppure un’opera. Che coraggio!!!! L’avete mai visto Ludovico? Entra in una mostra, non guarda le opere e punta chi gli serve per sfruttarlo.

  3. Penso che questa lettura del film rispecchi quello che lei ha VOLUTO vederci. La Grande Bellezza è una storia di esseri umani profondamente complessi che nonostante l’apparente luccicanza nascondono abissi di dolore e frustrazione; così come la città che li ospita, li vizia e li peggiora giorno dopo giorno. Ecco perchè il montaggio non è lineare: qui non si stava raccontando una storia, ma sentimenti e sensazioni, i quali non seguono mai un andamento lineare, piuttosto fluttuano trasportati dai moti interni e da ciò che ci circonda. Ecco perchè La Grande Bellezza è un film meraviglioso.

  4. Il mio lavoro per proporre mostre e iniziative condotte con il massimo impegno al fine di valorizzare e promuovere gli artisti in cui credo mi ha spinto ad intervenire per mettere a fuoco lo sguardo superficiale e arrogante di Sorrentino sulle figure degli artisti contemporanei, ridotti a patetici fenomeni da baraccone ad uso e consumo di una platea di personaggi superficiali e patetici .

  5. Il Pratesi figlio di quella stessa borghesia che ripugna appena si allontana ma nella quale sguazza quotidianamente? Il Pratesi che basa la sua vita sull’arte del “particulare” guicciardiano come nelle peggiori feste di questo film? Quel Pratesi che inveisce contro il sistema e poi fa di tutto per ricoprire l’ennesima carica dirigenziale dello stesso?
    Il Pratesi che parla bene ad un artista per parlare male dello stesso artista al successivo interlocutore?
    Caro Pratesi, se lei fosse un po’ più coerente capirebbe che se questo paese è decadente è anche per figure distruttive come lei. Si guardi allo specchio, c’è ancora tanto da imparare alla sua età diventando un po’ più umile.

  6. Che coraggio…
    caro Ludovico sei proprio tu uno di quei personaggini romani che si aggirano, come avvoltoi spennati, per la città vuota.

  7. Ma come si selezionano i commenti? Come si permette di insultare il critico in questione, e lostesso trattamento su altri e’ censurato?

  8. “La grande bellezza” è un film molto ambizioso, ma di straordinaria profondità. Personalmente ho trovato la pellicola incredibilmente autentica e sofferta, direi addirittura coraggiosa. Che le scelte di Sorrentino non siano scontate, facili o studiate lo dimostra la tiepida (quando non fredda) accoglienza che molta critica (soprattutto ma non solo italiana) ha riservato al film, che tra l’altro è stato decisamente snobbato anche dalla giuria di Cannes, uscendo a mani vuote dal Festival. Quanto agli ambienti intellettuali del nostro Paese, credo che in molti casi abbiano bollato come “pretenzioso” l’ultimo lavoro di Sorrentino perché si sono trovati di fronte ad uno specchio che non rifletteva l’immagine desiderata. Il realismo crudo, cinico e spietato del Garrone di “Reality” era stato in qualche modo tollerato perché colpiva il “popolo”, la “massa”. “La grande bellezza” non risparmia le élite, per questo motivo non riesce ad essere ben digerito neppure dal pubblico per il quale è stato girato. Una critica diretta e scomoda che mi ha ricordato la bella intervista di Simonetta Fiori al professor Asor Rosa, pubblicata da Laterza con il titolo “Il grande silenzio”. Oggi, nel momento in cui il silenzio colpevole degli intellettuali fa più rumore, è troppo facile liquidare la lucida presa di posizione di Sorrentino accusandolo di essere troppo “felliniano”. Altro che felliniane evasioni! Questo film è una doccia fredda di realtà, appena addolcita dal velo poetico rassicurante della citazione. Quanto alla critica più vicina al mondo delle arti visive, è comprensibile un certo risentimento. Sorrentino ha voluto letteralmente “far sbattere la testa” all’artworld contro il muro delle sue ipocrisie. L’intervista del personaggio di Servillo ad una pseudo-artista in una scena memorabile ed esilarante del film mette in evidenza le pratiche diffuse di ricezione e diffusione acritica del vuoto, in assenza di contenuti. Bisognerebbe riflettere con autoironia su un ritratto così impietoso. In fondo, è tutto un trucco (per usare le parole di Jep Gambardella)… Anche la disillusione di Sorrentino.

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