19 novembre 2013

La Lavagna La storia a due voci: Fabio Mauri e Alfredo Jaar

 
La storia a due voci: Fabio Mauri e Alfredo Jaar
di Ludovico Pratesi

Due mostre in corso rileggono il passato attraverso la lente dell’arte. E lo riattualizzano con documenti originali (Mauri) e un ambiente evocativo (Jaar). Ma qual è lo strumento più efficace per non rimuovere la storia?

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Si può trasformare la storia in opera d’arte, e con quali modalità? Il manufatto storico può essere considerato sic et simpliciter un oggetto artistico o va interpretato? Sono domande suscitatemi dalla visita a due mostre che si ispirano direttamente ad episodi della storia italiana (e non solo) del secolo scorso: gli anni della contestazione politica rivisitati da Alfredo Jaar nella mostra “Abbiamo amato la Rivoluzione” alla Fondazione Merz di Torino e la Seconda Guerra Mondiale riletta da Fabio Mauri con “Picnic o il Buon Soldato” nella nuova sede veneziana della galleria Michela Rizzo alla Giudecca. Due esposizioni diverse, che ci invitano entrambe a riflettere sulla storia intesa non come evento passato e relegato nella memoria collettiva, bensì come principio attivatore di questioni ancora aperte e presenti nel nostro quotidiano: problematiche che sembrano appartenere a tempi remoti, ma in realtà capaci di suscitare questioni attuali e mai veramente risolte.  
Alfredo Jaar. Abbiamo amato tanto la rivoluzione. Photo Andrea Rossetti. Courtesy Fondazione Merz
Cominciamo da Jaar, da sempre vigile e attento interprete della decadenza culturale del nostro Paese, alla quale ha dedicato una serie di opere importanti, che vanno dall’intenso video Le Ceneri di Pasolini all’ultima installazione presentata al padiglione Cileno nell’ultima Biennale di Venezia. Ispirato dalla personalità di Mario Merz, in questa occasione Jaar ha lavorato su un’idea di enviroment, trasformando la sede espositiva in un ambiente chiuso e claustrofobico, dove sul pavimento è cosparso un tappeto di vetri rotti, quasi polverizzati, che ricordano le strade di una città dopo il passaggio di una manifestazione politica illuminato dalle luci fredde di due neon in dialogo tra loro e sonorizzato dalle note stridenti di un clarinetto, suonato dallo stesso artista in un video del 1981. Qui la storia non è descritta, ma evocata attraverso il proprio fallimento, che si reifica nella negazione di un’idea, nella tomba di un’utopia. Anzi, in una sorta di cimitero, che Jaar ha popolato degli spettri dei suoi protagonisti, attraverso immagini ed opere di intellettuali ed artisti come Pier Paolo Pasolini, Antonio Gramsci, Nancy Spero, Michelangelo Pistoletto,  Lawrence Wiener e lo stesso Fabio Mauri
Ognuna di esse, riunita in una sorta di camera mortuaria della rivoluzione, documenta la memoria di un sogno infranto, ricordato dai vetri a terra e dal suono sinistro, a tratti simile ad un raglio asinino, del clarinetto. Memoria che si fa rimpianto, funerale, sepolcro, senza mai però comparire in realtà né ricordata attraverso manufatti originali, ma ricostruita soltanto attraverso immagini soggettive, mai oggettive, quasi a voler sottolineare che, nell’epoca di Internet, l’oggetto fisico sia insufficiente a trasmettere un messaggio emotivo forte e diretto. 
Alfredo Jaar. Abbiamo amato tanto la rivoluzione. Photo Andrea Rossetti. Courtesy Fondazione Merz
Fabio Mauri invece, nella mostra Picnic o il Buon Soldato, presentata la prima volta a Castelluccio di Pienza da Plinio de Martis nel 1998 e riproposta oggi da Michela Rizzo nell’intenso e articolato spazio dell’ex Birrificio alla Giudecca, affida la forza evocativa della guerra quasi esclusivamente ad oggetti originali, reimpaginati dall’artista in un percorso espositivo che si dipana  in ambienti diversi, creando un’imprescindibile relazione con lo spazio. 
«L’attualità di un secolo, questo, è senz’altro sanguinaria, stravolta nella coscienza, incalzata da un futuro privo di distanza, privo dei confini obbligatori di una forma», scrive Mauri, che ha concepito la mostra come un contrappunto tra guerra e pace, disastro e quiete, vita e morte, azione e stasi. Così le opere esposte sono sostanzialmente oggetti fisici, che vanno da Arsyan radio, un modello di radio d’epoca, ad oggetti quotidiani, bellici e non (stufe, elmetti, pompe da bicicletta, tubi ed altro) posizionati su lastre d’acciaio, di ispirazione vagamente kounellisiana. «Oggetti – sottolinea giustamente Carolyn Christov-Bakargiev – che sono elementi di un linguaggio determinato e che ci determina; linguaggi da cui vogliamo liberarci, come d’un fardello, ma che allo stesso tempo ci danno ossigeno e ci rendono umani, capaci di sentire, di capire». 
A fare da contrappunto a questa panoplia ecco la performance, concepita da Mauri come un lungo fotogramma tratto da un film di guerra, con una ragazza accanto ad un giovane soldato, che distribuisce ai presenti una zuppa calda, mentre sulla schiena di una giovane donna nuda viene proiettato il film La Ballata di un Soldato, girato nel 1959 dal regista russo Grigorij Chukraj. 
Fabio Mauri - Picnic o Il buon soldato 2013
A differenza di Jaar, qui la storia viene presentata come un insieme di testimonianze materiali, ready-made della memoria presenti in quanto tracce di eventi accaduti, tragici e brucianti in quanto tattili e materici, che portano nella loro materialità il senso della storia, così come i Sacchi di Burri rimandano al vissuto di un conflitto ancora vicino nel tempo. «Mauri – aggiunge la Christov-Bakargiev – afferma pubblicamente l’importanza della memoria ed il pericolo dell’amnesia e della rimozione psichica e storica». 
Entrambi gli artisti quindi puntano il dito sul rischio di perdita di un vissuto dai tratti drammatici (guerre, rivoluzioni), che le generazioni più giovani non hanno sperimentato direttamente, senza poter far tesoro del suo valore di monito. Cambiano però le modalità espressive: se alla fine del ventesimo secolo Mauri si confronta con la storia affidandone il messaggio all’opera fisica e tattile, documento riesumato dal passato senza interpretazioni o mediazioni, all’alba del ventunesimo Jaar elimina del tutto il manufatto originale, per costruire uno spazio caratterizzato da un’atmosfera evocativa, dove la rivoluzione viene ricordata attraverso le opere degli artisti ma mai direttamente. Un’arte che rinuncia alla propria fisicità ma si trasforma in immagine immateriale, per colpire non più tatto e vista ma tutti i sensi, per tramutarsi in un’esperienza unica ed irripetibile, struggente nella sua profonda malinconia. 
A questo punto vorrei concludere con una domanda: quale voce è più corretta ed efficace per evitare la rimozione della storia? La forza del documento originale o l’interpretazione dell’artista?

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