28 giugno 2016

MARGINALIA #9

 
di Serena Carbone
Un Museo dell'Altro e dell'Altrove, a Roma

di

La luna, appena si affaccia nei versi dei poeti, ha avuto sempre il potere di comunicare una sensazione di levità, di sospensione, di silenzioso e calmo incantesimo. E dunque… Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,/ silenziosa luna?… dove vai luna? Perché non ti posi qui tra noi, per un attimo ancora e poi un altro, perché la fantasia – lo sai – è un posto dove ci piove dentro (la prima parte è stata liberamente rubata alla Leggerezza di Italo Calvino). 
Quando la luna ha bussato alla casa dell’arte, allo spioncino del chi è ha mostrato quasi sempre il lato melanconico, solitario e saturnino. Ma ci sarà pure in quello sfavillio notturno l’altra metà, quella allegra e gioviale, comunitaria e caparbia, perché in fondo luna sei sempre lì in cielo che ci guardi ed appartieni a tutti in maniera eguale, perché tutti da ogni parte del mondo possiamo mirarti e parlarti. Ma dal momento che fissa stai ma sembri non ascoltare, qualcuno ha deciso che è arrivato il momento di farti approdare sulla terra, o in caso contrario, raggiungerti per svelarne il mistero. Così nel 2011 a Roma nel cuore della grande fabbrica dismessa che è Metropoliz, è iniziata la costruzione di un razzo per arrivare fin da te e ricominciare, perché come racconta Giorgio De Finis, che insieme a Fabrizio Boni, è l’ideatore del progetto: «La luna è come l’ultimo spazio pubblico ancora rimasto, luogo secondo i trattati internazionali dove è vietato l’uso delle armi e la stessa proprietà privata… un foglio bianco dove ciascuno può scrivere le nuove regole per un vivere insieme diverso». Questa reale utopia, soggetto di un progetto cinematografico concretamente realizzato, è stata messa in atto non in uno spazio qualsiasi, ma nell’ex salumificio Fiorucci in Via Prenestina occupato dal 2009 dai Blocchi Precari Metropolitani e denominato poi città meticcia, perché al suo interno convivono circa duecento persone provenienti da differenti paesi: Perù, Santo Domingo, Marocco, Tunisia, Eritrea, Sudan, Ucraina, Polonia, Romania e la stessa Italia. 
Big Rocket - il razzo per andare sulla luna Foto Luca Ventura
Tutti gli abitanti insieme a diversi artisti come Gian Maria Tosatti, Lucamaleonte, Francesco Careri di Stalker/Osservatorio nomade e tanti altri nel tempo, sono stati coinvolti nella realizzazione di questa grande scenografia trasformatasi in un vero e proprio laboratorio di esperienze condivise e partecipate. E dalla fine di questo progetto nel 2012 nasce il MAAM –  Museo dell’Altro e dell’Altrove. «Dopo un film fanta-realista e un po’ situazionista che portava nello spazio abitato la situazione del cinema, nasce questo museo situazionista che porta invece la situazione del museo d’arte contemporaneo – il fiore all’occhiello della città contemporanea – nel punto più basso, lo slum, il luogo che nessuno vuole vedere», continua de Finis, antropologo, filmaker nonché oggi direttore artistico del MAAM. Dopo aver portato la terra sulla luna o la luna sulla terra (a seconda di come si guardi il cielo, a testa in giù o a testa in su poco importa), i tempi sono maturi per annullare la gravitazione e far cadere sul pianeta il suo satellite. Dalle premesse, è naturale che il museo proposto non si profili come una cattedrale nel deserto frutto di progettazioni ingegnose da parte di archi-star stramilionarie. Il MAAM nasce infatti dentro Metropoliz e questa componente fa di lui un museo in primo luogo “abitato”, contaminato dalla vita o in una parola sola “reale”, come lo ha definito Cesare Pietroiusti. Ma proponendosi e sperimentandosi come un altro modello di museo, non mancano gli elementi che lo qualifichino in quanto tale: una collezione (ad oggi circa 500 opere), le collaborazioni con altre istituzioni come il Dipartimento Educazione del Castello di Rivoli e Cittadellarte, le iniziative periodiche come i sabati del villaggio e le inaugurazioni collettive in occasione di solstizi ed equinozi. Questo tipo di organizzazione dà vita «ad un flusso ininterrotto di visitatori, connettendo di fatto la città meticcia con il resto della capitale, perché il MAAM opera come un facilitatore di incontri e mette in atto precise strategie affinché questo sia possibile e fecondo di arricchimento reciproco», aggiunge De Finis. 
Locandina film Space Metropoliz di G.De Finis e F. Boni
L’insieme si struttura come “un’opera corale”- sempre dalle parole del suo direttore- o un “super-oggetto” dal momento che convoglia in sé il progetto artistico, l’opera d’arte e il soggetto artistico. Del resto, il MAAM si fonda sul circuito del “dono”, ovvero ogni artista invitato propone un intervento che viene discusso nell’assemblea del martedì, se la proposta viene accettata l’opera viene realizzata a proprie spese. Il MAAM, infatti specifica De Finis, «non partecipa ai bandi e non cerca nessuna forma di finanziamento e la sottoscrizione libera che viene chiesta all’ingresso è totalmente utilizzata dagli abitanti di Metropoliz. Il Museo dell’Altro e dell’Altrove è, in fondo, un grande “mosaico”, un assemblaggio a scala urbana, alla cui realizzazione ciascun artista partecipa con la propria tessera; somiglia alla cappa multicolore e cangiante di Arlecchino descritta da Michel Serres, un vestito che è anche “pelle”, perché Arlecchino ha molto viaggiato e porta tatuati sul corpo i segni del suo peregrinare». 
Il MAAM non mira ad uniformare le molteplicità identità che sotto il suo tetto vivono, ma indubbiamente si configura come un museo politico. «Ciascun artista firma con il proprio lavoro una petizione virtuale (e non) a favore di Metropoliz, sottoscrive la lotta contro la precarietà della vita, per il diritto alla casa, alla libertà di movimento, alla bellezza, all’arte e alla cultura per tutti e alla cultura “indipendente”, oggi l’unica possibile, dopo la resa incondizionata delle istituzioni culturali alla logica del profitto».
L.U.N.A. di Massimo Di Giovanni
Infine, de Finis chiosa la formula della coralità come un possibile antidoto all’assenza di fondi in cui le istituzioni dichiarano di versare: «Il lavoro insieme, potrebbe suggerire agli altri musei romani che se non ci sono fondi sufficienti si potrebbe, invece che optare a subappaltare il museo pubblico a galleristi privati, lasciare gestire lo spazio museale in autonomia agli stessi artisti… un po’ come il Valle, o come il MAAM appunto. Sono sicuro che godrebbero di ottima salute contribuendo davvero alla crescita culturale della città».
Ed ecco quindi prender vita un’altra “stanza di realtà” che si insinua nel paesaggio urbano con una forte componente visionaria capace di alterarne lo skyline e che, tramite esperienze inclusive e non sottrattive, propone modelli diversi di abitare lo spazio ripensandolo e ricreandolo dal suo interno. 
Serena Carbone

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