06 maggio 2017

Spoiler Biennale

 
«L’arte può aumentare ed espandere la capacità di interpretare la realtà». Parla Gal Weinstein, artista per Israele in laguna
di Micol Di Veroli

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Gal Weinstein è un artista che nel corso degli anni ha ampliato il significato di fare arte, estendendosi su pittura, fotografia, installazione e video mediante l’utilizzo di materiali fuori dal comune come muffe e lana d’acciaio. Tra rappresentazioni legate ai fenomeni naturali ed analisi critiche sulla società contemporanea, la sua ricerca non ha tralasciato questioni politiche ed indagini sull’ambivalenza e sulla mimetizzazione, oltre che sul carattere complesso della provvisorietà sia legata alla condizione umana che a quella spazio temporale. 
La tua ricerca costringe il fruitore a guardare le cose da un angolo differente. Anche i materiali che utilizzi sono fuori dal comune, e parlo delle tue vedute aeree eseguite con i tappeti o i tuoi dipinti dove utilizzi il caffè. Puoi parlarci di questo processo creativo? 
«In opere come Jezreel Valley e Nahalal solitamente scelgo di trattare argomenti che fanno parte della cultura israeliana. Parlo di immagini che sono state usate in cartoline, posters e coffee-table books per mostrare i progressi del giovane stato d’Israele e hanno un vago retrogusto sentimentalista. Nel mio processo creativo seleziono accuratamente i materiali con cui ricreare queste immagini, tenendo conto dello stato simbolico ed iconico di ogni fotogramma. Spesso si tratta di materiali del tutto inusitati come tappeti, lana d’acciaio, MDF e caffè, il tutto mirato a donare una nuova esistenza fisica alle immagini. Quello che cerco di fare è stimolare il fruitore tramite la curiosità, compiendo al contempo uno spostamento sia concettuale che etimologico tramite un’immagine “toccante” che spinge alla tentazione di “toccare” fisicamente l’opera».
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Fare arte significa anche catalizzare, attivare ed aiutare a produrre una realtà, o almeno una sorta di realtà dissimile da quella di tutti i giorni. Anche i tuoi lavori bidimensionali riescono a possedere una forma tridimensionale, come se si trattasse di una realtà aumentata. Pensi che l’artista debba per forza di cose usare la realtà per poi cambiarla?
«Non sono del tutto sicuro che l’arte sia in grado di cambiare la realtà; la realtà cambia costantemente. Penso invece che l’arte possa acuire la consapevolezza del fruitore, espandendo le sue percezioni. In questo modo, dopo aver osservato un’opera d’arte, le persone possono avere una più ampia associazione fisica con le immagini che ruotano attorno alla vita di tutti i giorni. Quello che voglio dire è che l’arte può aumentare ed espandere la capacità che hanno le persone di interpretare la realtà». 
Il mondo contemporaneo sembra essersi dimenticato di guardare indietro. Internet non significa avere più informazioni o più memoria. Quale è il tuo rapporto con la memoria e come questo rapporto influenza la tua linea creativa. 
«Penso che le memorie del passato siano fissate all’interno di ognuno di noi, che lo si voglia o meno. Le nostre paure e le nostre ansie sono basate sul nostro vissuto collettivo, sia conscio che subconscio, quindi se sono attaccato al passato posso anche lavorare con esso. Il passato, soprattutto quello personale, è un punto di partenza delle mie opere dove tento di osservare se la stessa immagine può essere esperita in maniera diversa attraverso diversi materiali. Credo che il modo di esperire un’opera sia un continuum con il lavoro dell’artista, in questo modo si crea una comprensione completa del lavoro di quest’ultimo. Personalmente credo che creare una connessione con il passato ci renda anche molto più umili, poiché parte integrante di qualcosa di più grande».    
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La natura spesso entra nelle tue opera. Le muffe che spesso utilizzi sono in effetti degli organismi viventi. Puoi parlarci di questa tua relazione con l’ambiente e con la natura? 
«Legare la propria ricerca alla natura è un tema costante sia nella mia vita che nel mio percorso artistico. La questione su cosa sia naturale e cosa artificiale è un dibattito aperto che ci perseguita. Siamo perennemente indecisi su cosa sia reale, naturale, civilizzato o addomesticato. Nel mio lavoro cerco di scendere a patti con questo dubbio amletico, cancellando i confini tra il naturale e l’organico e tra il civilizzato e l’addomesticato. Ricreo immagini naturali con mezzi artificiali e uso materiali organici per creare immagini artificiali». 
Molti artisti creano opere in relazione alla politica. Tu sei cresciuto in un contesto politico molto difficile. Tutto questo entra nel tuo lavoro? 
«Si, ma nella mia ricerca artistica sono interessato al modo in cui la politica influenza i media e viceversa. Questo è uno dei motivi che mi ha spinto ad utilizzare immagini iconiche che sono apparse nei media e tentare di cambiare il modo in cui le interpretiamo attraverso un processo fisico. Ad esempio nella mia installazione Fire Tire abbiamo un cliché, un’immagine politica di pneumatici in fiamme durante una manifestazione ma, dato che l’opera è anche esperibile in maniera tattile, il fruitore è più interessato alla sua essenza fisica che a quella politica».   
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Come è andata la preparazione del Padiglione israeliano?
«Quando inizi a lavorare per il Padiglione nazionale l’unica cosa che sai è che hai una deadline e devi completare il tuo lavoro in sei mesi, tutti gli altri aspetti sono molto vaghi. Questo si tramuta in una sfida molto interessante, durante questo tempo hai bisogno di molta quiete per prepararti al meglio e focalizzare l’attenzione sul lavoro eliminando distrazioni esterne. Ho scelto un progetto molto difficile ma stimolante e sono veramente curioso di vederne i risultati». 
So che si tratta di un progetto site-specific dal titolo “Sun Stand Still” che rappresenta una sorta di compendio del tuo lavoro svolto sino ad ora. Puoi anticiparcelo?
«Si, penso che questo progetto abbia a che fare con il desiderio di fermare il tempo e tutti quei temi che ne conseguono, vale a dire l’impossibilità dell’essere umano di accettare i cambiamenti e la finitezza dell’esistenza. I miei lavori precedenti erano basati su immagini iconiche della memoria collettiva israeliana e, dato che in questo progetto uso alcune di quelle immagini, sto tentando quindi di creare una connessione tra la storia israeliana e la mia personale biografia artistica. Paradossalmente, sebbene l’installazione che presento alla Biennale abbia a che fare con la nostra impossibilità di controllare le cose, tutte le opere che la compongono sono state realizzate con metodi che richiedono un estremo controllo di vari materiali».  
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L’opera principale della mostra è la monumentale Moon over Ayalon Valley, si tratta quindi di un progetto complesso e decisamente difficile da sviluppare. Quanto costa in termini di tempo ed impegno organizzare una Biennale come quella di Venezia?  
«Lavorare alla Biennale di Venezia richiede molto tempo ed è un impegno decisamente complesso. Se tieni conto delle innumerevoli operazioni logistiche sia della moltitudine di lavoro manuale da svolgere oltre che della consapevolezza di essere all’interno di un evento con una immensa visibilità, tutti questi aspetti messi assieme possono essere molto stressanti e complicati. Penso però che la curiosità di vedere come tutto andrà in seguito a fondersi nell’opera finale vinca tutti gli stress e le paure. In qualche modo questa curiosità aiuta a godersi il processo di costruzione dell’installazione».  
Pensi che il mondo globalizzato abbia ancora bisogno di una Biennale d’arte? 
«Si, dal momento che abbiamo la possibilità di ammirare opere da differenti nazioni. Il mondo globalizzato è sempre monopolizzato dagli stessi attori e penso che la Biennale sia un’occasione importante per espandere la conoscenza sulle differenti espressioni artistiche che si rivelano così al grande pubblico». 
Micol Di Veroli

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