31 ottobre 2017

WHAT’S QUEER

 
Intervista a Ruben Montini in occasione di “Questo anonimato è sovversivo”, al MAN di Nuoro
di Elena Calaresu

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Pare sempre che capitino nel momento giusto le sollecitazioni artistiche di Ruben Montini, specie se l’argomento clou è l’Unione Europea e se ci troviamo in un clima fervido di manifestazioni e agitazioni politiche (il referendum catalano e la risposta del governo spagnolo, ndr.). L’artista sardo, da numerosi anni all’estero, in collaborazione con il Museo MAN, arriva a Nuoro con un progetto ad ampio raggio a cura di Micaela Deiana, e che riguarda proprio l’Europa. “Questo anonimato è sovversivo”, arriva al terzo appuntamento di una performance on-the-road, in piazza Sebastiano Satta: trenta metri di tessuto bianco, che visiterà ogni Paese d’Europa per poter essere rielaborato attraverso il ricamo, dai partecipanti alla performance. Il progetto di Ruben Montini è stato selezionato dal Museo MAN in occasione di Art Verona 2016, nell’ambito del progetto Level 0. Un progetto multiculturale che abbraccia l’Europa, con l’obiettivo di ricordare e riannodare le fila di un’unione che a volte stenta ad essere riconosciuta e amata. E visto che l’occasione era propizia, ne abbiamo approfittato per estendere la chiacchierata sugli elementi più significativi della sua carriera.
“Questo anonimato è sovversivo” è giunto alla terza tappa: quali differenze hai notato tra Londra, Berlino e Nuoro?
«A Londra ci trovavamo all’interno della Royal School of Needlework che è l’unica istituzione dedicata all’ insegnamento del ricamo a livello universitario, in Europa. La performance è stata realizzata il 28 Aprile di quest’anno, ma ho iniziato a lavorare con le professoresse del corso molto prima. Il primo appuntamento è stato proprio il giorno prima del referendum sulla Brexit, nel Giugno 2016. Durante la performance gli studenti hanno dimostrato un interesse attento e onesto per quello che facevano. Il 10 Giugno abbiamo invece realizzato la performance a Berlino, al Museum Europäischer Kulturen, un museo pubblico che racconta e documenta le culture europee: era il luogo ideale dove portare questo progetto. Il pubblico è stato vario: dalle signore che ricamano per hobby, al bambino che sa ricamare perché vede la madre farlo per lavoro, alla turista svedese lì per caso. A Nuoro abbiamo avuto un pubblico molto vasto e diversificato. Se a Londra il ricamo è praticato quasi esclusivamente da coloro che hanno deciso di specializzarsi in questa disciplina, viaggiando verso Sud ci accorgiamo che viene ancora tramandato di generazione in generazione, solitamente di madre in figlia. Insieme alle tante signore anziane, sono stato felice, ma non sorpreso, nel vedere anche tanti giovani a Nuoro. Il momento di comunità e di unione che si è creato tra generazioni differenti è stato davvero intenso». 
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Solo (adagio)
, Performance 4’,A Bang! Festival, Begijnhfkerk, Bruxelles, 2017
Nelle tue performance, il pubblico è un elemento necessario, e nel tuo caso, spesso estremamente attento e sensibile. Ci sono stati dei feed-back esterni che ti sono serviti per calibrare e strutturare le tue performance, nel tempo? 
«Il pubblico durante le performance è il luogo più importante in cui avvengono le azioni, e di volta in volta, ha reagito in maniera diversa. Solitamente, durante le performance in cui sono io a compiere l’azione, il pubblico è estremamente composto e silenzioso e rispettoso di quello che sta accadendo. Mi è capitato poche volte di subire interferenze: una volta a Venezia una signora mi diede del “sessantottino depresso” e una volta, più recente, in cui un ragazzo ha letteralmente iniziato a darmi dei calci mentre ero disteso a terra in una situazione di totale vulnerabilità. Spesso quando si usa la performance si dà anche addito all’esuberanza di persone tra il pubblico, senza capire fino in fondo quello che stanno facendo. Nello specifico di “Questo Anonimato è Sovversivo”, invece, il pubblico è anche il principale e unico performer. Io non agisco, se non nell’avvicinarmi a loro e chiacchierare di volta in volta coi diversi partecipanti. Si instaura uno scambio più “normale”, sullo stesso piano, spesso raccontandoci a vicenda le nostre visioni sull’Unione Europea». 
Hai spesso utilizzato il ricamo come modalità per sollevare questioni di tipo sociale e politico (la questione Queer, l’identità europea, ecc.): per quale ragione ti sei affidato ad una pratica così retrò, solitamente legata al passato e alla dimensione domestica, per discutere di argomenti così forti e contemporanei?
«Per me il ricamo non è una pratica retrò, anzi! È stato un qualcosa con cui mi sono confrontato da sempre: è stato automatico, dopo le mie prime performance in cui re-contestualizzavo azioni femministe degli anni ’60 e ‘70. Ho iniziato a ricamare trasformando questa prassi in una performance lunghissima in cui io mi costringo in casa a incarnare un cliché -a me vicino- legato alla figura domestica della donna. Ci sono tantissimi artisti contemporanei che usano il ricamo, e non solo artisti Queer. Pensiamo ai lavori di Tracey Emin, Channing Hansen, Mary Zygouri, solo per citarne alcuni, o l’uso monumentale di questa tecnica del “The AIDS Memorial Quilt” di Cleve Jones, nel 1987. E non posso non citare artiste come Louise Bourgeois e la sarda Maria Lai, dalla quale ho preso tanto, anche visivamente. Per poi arrivare a David Medalla, il cui lavoro “A Stitch in Time” realizzato per la prima volta nel 1967 e ripetuto fino al 2016, presenta degli elementi strutturali simili a “Questo Anonimato è Sovversivo”: il pubblico chiamato a ricamare o cucire qualcosa su una stoffa messa a disposizione nello spazio espositivo. Ma nel mio lavoro l’accento è posto sul concetto di Europa, della sua Unione che il ricamo cerca di ricostruire fisicamente nel punto di incontro sul cotone bianco. Pongo l’attenzione sul mio viaggio e sul viaggio del lavoro, che va a visitare i partecipanti nelle loro città, e li unifica nel momento della cooperazione». 
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Questo anonimato è sovversivo, documentazione della performance, Museum Europäischer Kulturen, Berlino, 10.VI.2017

Incasellare te stesso e il tuo lavoro in “Queer” è forse da considerarsi “riduttivo”? In quale maniera e in quali occasioni hai percepito di essere riuscito ad aprire uno spiraglio più autentico sull’argomento? E tu, sei “politico”?
«Queer è un termine-ombrello così vasto che non può essere considerato riduttivo. Ma se anche lo fosse, sarebbe comunque necessario menzionarlo per capire più a fondo l’opera degli autori. La mia preoccupazione, è che in Italia il Queer venga interpretato in maniera sbagliata: sembra quasi una “cosa che va di moda” e che per questo motivo debba essere frivola, banale, luccicante. Ma non è così. Anzi, il Queer è politico e viene usato proprio per sottolineare la differenza con tutta quella serie di stereotipi legati al mondo gay che, invece, in Italia si cuciono sullo stesso termine Queer. Sarebbe opportuno chiarire anche la differenza tra cosa è Queer e cosa è Camp, ma si aprirebbe qui un lungo discorso che non sarei in grado di esaurire da solo. Sicuramente con alcuni miei lavori ho attirato l’attenzione su temi scomodi nel panorama artistico italiano, come spiega Eugenio Viola nel suo saggio “Omo in omnibus? Note sull’esistenza di uno specifico omosessuale nell’arte” (Flash Art 2011), nel mio lavoro “l’omosessualità è spesso trattata in chiave polemica e politica”. Soprattutto nei miei primissimi lavori, invece, strizzando l’occhio alla performance femminista degli anni ‘60 e ‘70 o a quella sudamericana contemporanea, l’azione si palesava secondo modalità simili a quelle dell’attivismo politico». 

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Questo anonimato è sovversivo, documentazione della performance, Royal School of Needlework, Londra

La musica è complementare a moltissimi dei tuoi lavori: con quale criterio la tua selezione si sposta sempre verso il pop o verso la musica conosciuta al grande pubblico? Da cosa nasce questa scelta? Che impatto ha su chi partecipa alle tue performance? 
«Spesso, soprattutto in Italia, il Pop è visto come qualcosa di basso e negativo. Io invece lo adoro. Mi accorgo che, anche da lontano, continuo ad attingere dal nostro patrimonio culturale (musicale, visivo, letterario) che è immenso e stupendo. Naturalmente i miei lavori fanno spesso riferimento anche alla cultura mitteleuropea e a quella inglese, avendo vissuto a lungo all’estero. Eppure, il richiamo istintivo all’italiano (come lingua e come cultura) è spesso più immediato. Inoltre, in Italia più che in altre nazioni europee, alcune canzoni pop hanno avuto una diffusione così estesa e immediata che sono già entrate nell’immaginario e nella memoria collettiva. Ecco perché le uso nei miei lavori: credo che a livello sociale e politico, niente possa essere più forte di una melodia conosciuta». 
In più occasioni, il tuo corpo (come nell’esperienza di molti artisti contemporanei), è centrale nel corso delle tue opere. Nella tua esperienza, quali potenzialità credi possieda la fisicità (dal nudo, allo sforzo fisico, alla voce, ai cambi d’abito) come strumento artistico?
«Il corpo porta all’estremo la capacità di coinvolgere il pubblico, fa sì che questo si rispecchi nell’azione, senza la mediazione dei filtri che gli altri media intrinsecamente possiedono. Il corpo del performer diventa il corpo di ogni singola persona del pubblico, senti un dolore quasi fisico, o una gioia carnale, a seconda dei momenti dell’azione. Si crea, a mio avviso, uno scambio di energie tra performer e fruitore che è difficile da spiegare a parole, perché è quasi magico». 
Elena Calaresu

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