10 ottobre 2020

extratype #3. Con l’Averno di Louise Gluck, Dante&Descartes diventano Nobel

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La nostra rubrica dedicata al rapporto tra arte e letteratura continua con l'Averno di Louise Gluck, vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura e portavoce di una poesia a doppio taglio

L’Averno di Louise Gluck è un libro importante. L’idea di base dà buona partenza e riesce a mantenere l’attenzione lungo tutta la tonalità del verso. Peraltro, quanto è stato letto come un suo difetto – ovvero l’apologismo alessandrino e il soffermarsi eccessivo sulle dinamiche dell’intimismo, la professoralità e l’aulicità, la dimensione antichista e simbolica e il rovesciamento di ruoli – non mi sembra per nulla un elemento negativo.

Intanto, il libro è ben ancorato alla determinazione storica – quella del periodo della riscrittura del mito di Proserpina, figlia della dea Cerere – e, anche quando si sofferma sul personale, sull’introspettivo, non scivola sul disagio del melenso femminilistico, filtrato dalle analisi psicoadvisor dei social. Un lavoro come The wild iris (premio Pulitzer 1993) testimonia quale forza evocativa, quale capacità di suggerire scenari determinatamente concreti e incarnati si possono esprimere in un dramma a due voci, tra essenza della poesia e altro artistico.

A me sembra davvero un pregio, che Louise Gluck sia riuscita a far echeggiare, per tutta la raccolta dell’Averno, quei colpi di sensibilità che hanno risuonato nella testa dell’abilissimo incisore dell’immagine di copertina, Vittorio Avella, senza aver mai ceduto a un realismo fantasma, a una scena posticcia, all’intimismo e all’astrazione.

La rivoluzione editoriale di Dante&Descartes

L’uso della vocalità poetica, per Louise Gluck, è già come dichiarare di non voler seguire una via facile, ma un percorso a tinte forti e solitarie, c’è pudore e vocalità in Averno, una sensibilità che sembra ben concertata nella traduzione efficace di Massimo Bacigalupo, nell’acquaforte (a tratti alla Alfred Kubin) di Avella e nell’intenzione della mirabile casa editrice napoletana Dante&Descartes, che l’ha editato, rinvigorendo una vera dimensione d’azzardo.

Vittorio Avella, Averno, acquaforte acquatinta, 2019

Straordinariamente convincente, misurata, dignitosa, spietata con se stessa, senza alcuna disponibilità a transigere, Gluck sembra aver fondato una comunità indipendente e spontanea con la pubblicazione napoletana, capace di mettere in discussione lo stesso Istituto che le ha conferito il Nobel: una piccola rivoluzione contro un sistema culturale che, piegandosi alle logiche dei colossi dell’editoria e del commercio, reprime il valore della proposta culturale autentica. In questo caso, gli sperimentalismi della poesia sono equidistanti a quelli dell’impresa editoriale, ma questo stadio con Dante&Descartes pare ormai superato e oggi l’editore napoletano si pone di fronte al pubblico come colui che vuole annunciare una piccola impresa mediale e a questo tende con il pieno vigore della sua intelligenza, della sua sensibilità e della sua gioiosa spinta rivoluzionaria.

Louise Gluck e la voce di Proserpina

Trovo importante che il Premio Nobel sia stato affidato a una donna, a una voce recitante il travaglio di Proserpina: il suo sottrarsi nella solitudine, è un modo di porsi, non un segno di resa e di fragilità, ma una consapevolezza forte della voce, una qualità del tono della poesia, una linea di fuga dall’obbligo al pressapochismo neo-dadaistico corrente, che vorrebbe farci credere che la voce della poesia si è spostata nel primato dell’immagine. Qui confesso una certa inquietudine: il Nobel alla poeta-professoressa Gluck, inconsapevolmente, incarna l’obbligo a ricordare la sapienza strutturale della voce di donna e della sua vera importanza nel pensiero della differenza – al di là delle neo-infatuazioni, alla Carla Lonzi – senza aver capito come si evolve la differenza stessa.

Alla lettura dei giornali dell’Industria culturale il mondo letterario viene avanti come animato da una quotidiana congiura per il bene poetico. Il tentativo praticato dal neoliberismo di accaparrarsi l’inventività dei Poeti, di porre cioè un’ipoteca produttivistica sul loro presunto genio, è riuscito solo ad amplificare l’imprecisione del discorso sulle umane lettere e sulle attitudini da recital: più gli emulatori ricorrono a strategie di affabulazione, più il linguaggio si fa falsante e melico, destinato a far da velo alle storture e alle ingiustizie dell’umanità. Troppe volte mi sono domandato: che cos’è un premio Nobel alla poesia? e perché viene assegnato? O meglio: perché l’industria culturale è sempre più attaccata all’etica della pubblicità letteraria, ovvero editoriale? Se le numerose definizioni attribuite alla poesia riflettono seriamente sulla sua originalità e finalità, non possono mai essere state denunciate in senso assoluto, se non considerando la poesia come la parte di una realtà che va oltre la poesia stessa.

L’arte non è una manifestazione piena e totale della creatività umana, ma una sua alienazione: questa è la tesi sostenuta, indirettamente, da Alfred Nobel lungo tutta la sua carriera di imprenditore. L’industria culturale prodotta dall’imprenditoria capitalistica, intesa come significato senza realtà, e l’economia, intesa come realtà senza significato, costituiscono la struttura del mondo liberal-monarchico: in esso, alla spiritualità impotente della prima, corrisponde la materialità violenta della seconda. Entrambe cercano di chiudere il poeta in un contesto totalitario fondato sulla separazione, ma in questo ambito parcellare agiscono altresì l’immaginazione, il desiderio e i contrasti sociali: dalla loro unità consapevole nascono le manifestazioni storiche precorritrici di una mutazione totale della vita.

Un particolare non trascurabile, nell’annuncio dell’assegnazione del premio, accennava alla inconfondibile voce poetica di Louise Gluck, che fa pensare alla consapevolezza dell’autrice dei propri strumenti, legati non solo alla scrittura, ma anche alla versatilità del recitato che crea l’interazione con il pubblico e che, fin dalla nascita del verso, ne è parte integrante.

L’arma a doppio taglio della poesia

Da un po’ di tempo il giornalismo ufficiale ha cominciato a occuparsi del fenomeno dei festival di poesia. L’oralità è un’arma a doppio taglio, perché, se da un lato, sembra offrire una dilatazione del testo poetico, dall’altro lo delimita, in quanto ne dà un’interpretazione unica. Osserviamo, che questa possibilità di confronto diretto con il pubblico è, per il poeta, soprattutto liberatorio, e lo è di più di quanto non lo sia il momento della produzione scritta. Infatti, se nel comporre, l’autore esprime la parte più vera di sé, la sua opera è frutto di una sublimazione, che nella lettura del testo può produrre fra l’autore e l’uditorio un effetto di transfert e quindi di reciproca soddisfazione.

Dopo il ‘68, anche i poeti, dinanzi alla rovina della nostra società, cercavano una via d’uscita. Per questo la poesia, abbandonato provvisoriamente l’intimismo, si è fatta, di volta in volta, cronachistica, narrativa, umoristica, satirica, drammatica e sempre più dissacrante, iconoclasta, contestataria e, rispecchiando la disintegrazione della società attuale, ha assunto forme sintattiche, oniriche, dissociate, ha sperimentato ogni sorta di nuovo modello; essa si è appropriata di tutti i temi e i contenuti al fine di parlare a gran voce e di provocare un risveglio delle coscienze, onde ricondurre l’uomo a una vita umana.

Questa ricerca dell’umano nel senso più alto della parola, e quindi del logos, può essere diffusa e sviluppata attraverso il lavoro di rete con il pubblico. Forse questa è una speranza illusoria: vedremo in futuro se la poesia letta a ristrette cerchie di appassionati, o urlata in piazza riuscirà allo scopo. Accontentiamoci per ora di registrare che oggi la poesia entra dappertutto, anche grazie al nuovo intimismo della Gluck. Essa fa spettacolo e offre, come il teatro e la musica, un’evasione e un superamento della tragica e avvilente quotidianità.

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