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Il lato oscuro dei dispositivi: una raccolta di saggi di Gabriele Perretta
Libri ed editoria
Ora che gli equilibri geopolitici sono saltati e si arranca nel trovare soluzioni politiche adeguate o auspicabili negoziati tra le nazioni in guerra; ora che la minaccia atomica è addirittura rientrata nel linguaggio comune, nel novero della “logica” militare dei conflitti; ora – ancora di più – siamo obbligati a interrogarci su questo mondo e chi sia quest’uomo che, con tragica leggerezza e sorriso sulle labbra, sta minando i cardini su cui si basa il Diritto Internazionale: cioè tutte le conquiste valoriali acquisite dopo la Seconda Guerra Mondiale.
E dunque, nel mondo di oggi, veniamo a trovarci nell’irrisolta antitesi generata dalla pressione della superpotenza dello sviluppo tecnologico e l’inadeguatezza dello sviluppo umano, capace di risolvere le controversie tra i popoli soltanto attraverso la guerra.
Un mondo caratterizzato, da un lato, da una selva di dispositivi di tutti i generi, prodotti dalla dimensione razionale e scientifica; dall’altro, dall’inadeguatezza dei leader ad affrontare le sfide della nostra contemporaneità. Un quadro drammatico in cui il potere è concentrato nelle mani di pochi, cinicamente distanti dalla coltivazione del pensiero rivolto alla “complessità”.
Così gli istinti del “primate” riaffiorano, concentrati sul raggiungimento sovranista dei propri obiettivi nazionali e “personali”: come – ne abbiamo un esempio – il caso di Benjamin Netanyahu che, per sussistere politicamente, ha bisogno che il fiume di sangue dei palestinesi continui a scorrere. Più in generale, si dovrebbe parlare di una inadeguatezza della politica degli Stati, specialmente quella estera, deficitaria nel profondo, per non essere stata capace di rinnovare se stessa, nonostante tutti gli esempi drammatici vissuti in questi decenni.
Ora, talvolta, ci si chiede se gli strumenti tradizionali di lettura e interpretazione degli avvenimenti politici e dei conflitti siano ancora adeguati al mondo di oggi; o non sia per caso necessario, e forse urgente, introdurre – accanto alle analisi del contesto, dei programmi, dell’economia, delle dinamiche sociali – nuove tecniche di problem solving che tengano conto dei fattori di non sviluppo, di inadeguatezza umana, ancorché di psicopatologie degli attori in campo, che rischiano di alterare definitivamente la gestione del conflitto e la geopolitica mondiale. Insomma, una nuova concezione del Galtung (triangolo del conflitto) che preveda l’introduzione di questi nuovi strumenti.
Si pensi alla psicolabilità delle scelte di Donald Trump, al suo ingenuo, semplicistico e riduzionistico modo di impostare i problemi, così drammaticamente lontano dall’equilibrio minimo necessario per gestire la complessità culturale, sociale e antropologica degli Stati Uniti d’America e delle relazioni internazionali. Come dire che la personale ricchezza economica del singolo attore politico, da sola, non è sufficiente ad attestarne il grado di sviluppo e maturità politica. Piuttosto essa manifesta l’ambizione e la volontà di occupare – grazie alla indiscutibile potenza del denaro – le redini di un governo. Ma questa è storia antica.
E quindi, ancora una volta siamo obbligati a guardare dentro mentre si guarda fuori e a ciò che accade: dentro alla psiche – come suggeriva a suo tempo Ronald David Laing nel saggio Politica dell’esperienza, del 1967, sul tema della “normalità” -, alla coscienza, al rapporto tra l’io e il mondo; con una attenzione rivolta all’ecologia del profondo, alla cura quotidiana della mente; a quel punto generatore di tutti i processi che vanno a costituire il bene e il male dell’esistenza degli umani.
E dunque si deve parlare anche dell’esercizio del pensiero critico, della filosofia e dell’arte; da intendere, queste ultime, come vie educative per uno sviluppo armonico della persona. Così – come si accennava sopra – lo sviluppo dell’individuo e della collettività, andrebbe inteso come la vera posta in gioco delle nostre società.
Individuo che si trova a gestire la sua libertà e identità nell’alveo del fiume inarrestabile della Tecnica e dei suoi ‘dispositivi’ che, nel bene e nel male, concorrono alla sua formazione o alla sua distruzione. E qui ci riferiamo a tutti i dispositivi – non soltanto quelli bellici finalizzati all’annientamento, come vediamo in questi giorni – ma anche quelli che costituiscono la “selva incantata” della nostra operatività quotidiana: televisori, computer, i-pad, smartphone, giornali ecc. Produttori, tra l’altro, di quell’iconosfera (Gilbert Cohen-Séat, 1959) che influenza costantemente il nostro modo di interagire con la realtà; in cui l’abbondanza (657 miliardi di immagini all’anno) e la diffusione delle immagini e dei data sostituisce e modifica la nostra esperienza diretta della realtà, che è costituita dai media e che, per tale ragione, andrebbe indagata in profondità in tutte le sue implicazioni.
Ed è ciò che da decenni, con una proficua ricerca, porta avanti Gabriele Perretta – ha insegnato Storia e teoria della critica e Media all’università di Parigi, e docente presso l’Accademia di Belle Arti di Brera -, conosciuto per il suo noto libro sul Medialismo (1993); termine che indica il principio e il metodo della logica visuale. Un’attenzione, quella del ricercatore storico e saggista, rivolta proprio alla selva dei dispositivi, come messo in luce nel suo ultimo libro, Il sensore che non vede, edito da Paginauno. Un volume che raccoglie saggi scritti negli ultimi 30 anni e tratta della perdita dell’immediatezza percettiva, aprendo un’indagine semiologica-letteraria sui conflitti tra arte e senso, sensori e modalità espressive.
L’obiettivo, stando alle parole dello storico, è quello di «Tentare di definire il rapporto di armonia e conflitto tra “stati d’animo” e “dispositivo di controllo” in prossimità di un mutamento radicale della medialità, della sensibilità e del pensiero, in cui le tecnologie dei dispositivi decadono nel loro ruolo più marginale e vengono sconfitti dal modello della nuova razionalità tecnologica, ingarbugliata quanto il concetto di “entaglement quantistico”». Un libro denso, interessante, che affronta i passaggi cruciali, dall’analogico al digitale. Che indaga e mette a nudo «L’alleanza tra smartphone e social network». Che tratta dello sviluppo della cultura dell’anonimato, dello sguardo cieco e dello sguardo risvegliato di chi, errante, pellegrino, va alla ricerca e alla ricomposizione di se stesso nel mondo frammentato, educandosi al distacco.
Uno sguardo e un pensiero critico, quello di Perretta, che non fa sconti a nessuno, mettendo in evidenza, tra l’altro, i limiti del sistema dell’arte, dei pupazzi del webinar, della curatela, delle brutte esposizioni di arte: ovvero mostrificazioni, del rapsodo-protagonista del managerialismo curatoriale, del gusto dell’esterofilo, del bipolarismo del capitalismo, del fuffatore professionista, del trash e dell’apparato mediatico che lo circumnaviga.
Insomma, un viaggio semiologico, ovvero, una semiotica riflessiva, ancorché una critica all’artivismo. Ma anche una critica allo «Sguardo sinistro e liberale che si ostina a non vedere». Una ricerca, preziosa, sempre in contatto costante con le grandi testualità della saggistica impegnata. Con l’obiettivo di stanare il lato perverso dei dispositivi, dei controlli mediatici della produzione, luoghi di lotte d’influenza e di potere feroci, e quindi di ‘guerra’, che tendono alla pianificazione delle libertà altrui.
Gabriele Perretta, Il sensore che non vede. Sulla perdita dell’immediatezza percettiva, Editore Paginauno, Euro 23.00, ISBN 9788899699758