14 settembre 2006

libri_monografie Bernard Berenson – Caravaggio (abscondita 2006)

 
La parola arte esiste. Garantisce Bernard Berenson. Che, a oltre sessant’anni di distanza, qualche dubbio ce lo fa venire ancora. Partendo da Caravaggio...

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Da leggere. O rileggere. Perché sarà pure datato, digressivo e descrittivo, sarà pure costellato di sviste e stroncature sbrigative, ma il Caravaggio di Bernand Berenson è uno di quei libri ai quali la definizione di “pietra miliare” non è certo regalata. Per la tempra, innanzitutto, e l’acume di un argomentare serrato e puntiglioso, talvolta pedante nella maniacale ricerca di ascendenze e parallelismi, ma scorrevole ed evocativo. Un testo non servile, lontano anni luce dalle monografie o dai romanzi che, dalla “riscoperta” novecentesca in qua, hanno costruito e foraggiato il mito del maudit da cavalletto. Un saggio che, fin dalle prime battute, ha l’aria di una tenzone fra due caratterini egocentrici: “Mi lascerò andare a dire qualsiasi cosa mi passi per la testa”, annuncia l’autore, divertendosi poi a stanare e sbeffeggiare le incongruenze di questo ritrattista “di natiche” che –tutto sommato– egli apprezza “più in fotografia che dal vero”. Non una condanna a morte, beninteso, perché Berenson riconosce nero su bianco il valore del “più interessante pittore che l’Italia abbia prodotto fra il Tintoretto e il Tiepolo”, genio “severo” che, come tutti i geni, non nasce dal nulla. Ricorrente nella disamina è infatti –insieme alle riflessioni sull’assenza di uno spazio definito nelle tele del lombardo– il problema delle origini dello stile caravaggesco, dissertando del quale lo studioso americano finisce col ridimensionare pure la portata rivoluzionaria dell’attacco al cuore dell’arte sferrato dal Merisi. In fondo, “agitò le acque stagnanti” del proprio tempo, e in particolare quelle romane, rielaborando la lezione imparata a casa -ovvero in quell’area lombardo-veneta che, in fatto di pennelli, aveva poco da invidiare e molto da insegnare– sapientemente condita da un’accorta vocazione teatrale (piuttosto che da un intenzionale scandalismo).
E che dire della sua fortuna? Conscio di quanto una parte consistente della seduzione del personaggio si fondi sulla sua bohéme, il critico stigmatizza i propri colleghi (specie tedeschi), tanto ligi al canone vita uguale arte, quanto propensi a letture forzate delle opere.
Caravaggio, La buona ventura, olio su tela, 1595, Roma Pinacoteca Capitolina
Attenzione: seppur steso alla soglia degli ottant’anni (e sulle amate colline fiorentine), il volume non è il canto del cigno d’un arzillo vegliardo, ma un pamphlet lucido e ironico, vanitoso e viperino, godibile come una pagina di Voltaire, tagliente e conciso (di contro all’ampolloso lirismo dell’altrettanto “mitico” Roberto Longhi), scritto, come viene più volte sottolineato, da uno che una certa familiarità con l’argomento poteva a ragione vantarla, “dal punto di vista estetico, storico, morale”. Ed è questo, e non l’immunità anagrafica, ad accordare allo storico la facoltà di dire pane al pane e vino al vino. Anche perché la trattazione, a un certo punto, tracima dagli argini della filologia caravaggesca –che filologia non è, vista la deliberata rinuncia a impelagarsi in ipotesi attributive– per inondare più vasti e insidiosi campi: l’inadeguatezza delle etichette classificatorie –per cui drasticamente contestata è l’iscrizione del lombardo nelle liste del barocco, che invece trova l’indiscusso campione in Rubens–, la questione degli epigoni e, dilatando la prospettiva, alcune discutibili tendenze del XX secolo –la museologia ostinatamente storicista, la perniciosa inclinazione a promuovere qualsiasi manufatto al rango di capolavoro– e dei critici mestieranti, prima fra tutti la roboante e fiorita oscurità, riflesso non solo dell’onanistico vizio/piacere dello scriver complicato, ma travestimento per i fragili contenuti dell’arte contemporanea. Insomma, Berenson ne ha per tutti e non la manda certo a dire. E pur tenendo conto del fatto che il libro ha quasi sessant’anni, è con un certo sorriso che si leggono affermazioni come questa: “Ogni giorno mi giungono settimanali da Londra e da New York con articoli su mostre d’arte contemporanea. Essi esaltano le eleganze non rappresentative e le decalcomanie di oggi, come nessun maestro del passato fu esaltato ai giorni suoi. Trasudano fermissima convinzione in una scrittura così arzigogolata, artificiosa e sofisticata, che viene da domandarsi se l’autore veramente si aspetti che dei lettori lo seguano”. Parole per buon intenditor, e tutt’altro che inattuali, anche se –si domanda la curatrice Luisa Vertova nella postfazione-, “un colloquiare provocatorio e divagante è ancora ammesso nella storia dell’arte?”.

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Caravaggio a Palazzo Reale a Milano

anita pepe


Bernard Berenson – Caravaggio. Delle sue incongruenze e della sua fama (a cura di Luisa Vertova)
Abscondita, Milano 2006
ISBN 8884161347
Pagg. 172, illustrazioni ***, € 19
ISBN 88-510-0319-X
Info: la scheda dell’editore – http://www.exibart.com/profilo/editore.asp/idelemento/136


la rubrica libri è diretta da marco enrico giacomelli

[exibart]

2 Commenti

  1. brava anita pepe, bell’articolino: fa venire voglia di leggere il libro, anche memori della indimenticabile prosa della storia della pittura italiana del vecchio maestro.

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