21 luglio 2008

libri_saggi Il tramonto dei non luoghi (meltemi 2008)

 
Un concetto frainteso come pochi e che, anche nella critica d’arte, ha trovato largo impiego. Ora pare avviarsi finalmente all’archivio o, almeno, a un impiego più misurato. Un libro ne decreta il tramonto. Anche se con qualche omissione...

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Per sbarazzarsi di un concetto nocivo spesso ci vogliono secoli e, alle volte, tutti gli intellettuali di un’epoca, pur nemici su altri fronti, possono trovarsi fianco a fianco in questa lotta per la distruzione di un concetto che getta nello scompiglio e nel panico il pensiero dei contemporanei. Eppure, il valore di quel concetto è direttamente proporzionale alle forze che un’epoca mobilita contro di esso (in certi casi, una simile lotta può divenire addirittura grottesca, come quando Gilles Deleuze, nelle conversazioni con Claire Parnet, se la prese con il sistema binario dell’informatica).
Quello di nonluogo non è certo tra questi concetti. Pur avendo occupato per tre lustri la ribalta dei dibattiti sui mutamenti dello spazio nella “surmodernità”, si avvia improvvisamente verso l’estinzione, come il nuovo libro di Massimo Ilardi pare voler sancire. Fino a non molti anni fa sembrava un concetto in grado di piegarsi a ogni discorso riguardante l’organizzazione dello spazio, dall’antropologia del presente e dalla sociologia urbana all’architettura e alla critica dell’arte (giusto per dirne una, ancora nel dicembre 2007 Omar Calabrese si lanciava a Pavia in un improbabile progetto curatoriale di Estetica dei non luoghi, in cui il povero Beuys si trovava a far compagnia a Mitoraj, Carrà a Cattelan).
In realtà, si piegava quasi a tutto e non spiegava quasi nulla. Tuttavia, il problema non era solo nel concetto, ma anche nel fatto che in pochi si erano dati la pena di leggere attentamente il libro di Augé, Nonluoghi, alla sua uscita in Italia. Il nonluogo era, secondo una definizione dell’antropologo francese, uno spazio che non può definirsi identitario né relazionale, né storico. Massimo Ilardi - Il tramonto dei non luoghiMa si veniva avvertiti fin dall’inizio: “Non esiste mai sotto una forma pura”, “dei luoghi vi si ricompongono”, “delle relazioni vi si ricostituiscono”.
Il “luogo antropologico” e il “nonluogo” erano da intendere solo come “polarità sfuggenti”. Il nonluogo “non si compie mai totalmente”. Quindi pare abbastanza tardiva l’ammissione di Ilardi quando scrive: “Ma forse questi nonluoghi non sono mai esistiti realmente se non nella nostra mente”. Significa che c’è stato un fraintendimento intellettuale che è durato ben quindici anni.
Ilardi aveva già tentato diverse volte di sgomberare il campo da questo concetto, prendendolo per una forma pura e non una polarità sfuggente, senza riuscirvi. Ma forse ora i tempi sono maturi. Pur se la fine del concetto sembra avvenire più per decreto che attraverso valide argomentazioni. Che i nonluoghi fossero nella mente degli intellettuali e non negli spazi che attraversiamo quotidianamente era già abbastanza chiaro quando, non molto tempo dopo l’uscita del libro di Augé, alcuni di costoro si cimentavano per gioco nello scovarli dappertutto. Allora erano nonluoghi non solo un autogrill (Eroiche pompe, così il tema del primo numero di “Gomorra”, una rivista di cui proprio Ilardi era direttore) o una stazione ferroviaria, ma anche il cesso di un bar di periferia o un sottoscala dell’università.
Ciò che lascia delusi al termine della lettura di questo libro, per tanti aspetti comunque apprezzabile, è la mancanza di un concetto forte e innovativo che rimpiazzi il nonluogo per ciò cui oggi ormai inadeguatamente si riferisce. Per arrivarci, sarebbe utile rileggere il testo di Augé. I tempi sono talmente cambiati che sentir parlare di “anonimato” e “solitudine dell’individuo” in quelle parentesi che erano i nonluoghi va contro l’esperienza di ciascuno.
I non luoghi sono oggi controllati da telecamere e da agenti in borghese, poiché spesso sono “luoghi sensibili” per il terrorismo, la criminalità e il teppismo, e questa minaccia che vi incombe simbolicamente sempre e ovunque li ha trasformati nel loro negativo, ciò che già Augé intravedeva col concetto di “paramoderno”, dove tutti sono sotto controllo e nessuno è mai solo, ma che rifiutava di immaginare come esito per l’avvenire della modernità.
Il nonluogo doveva divenire il fondamento del nuovo “uomo medio”, e così è stato; ma, come ha scritto Giorgio Agamben, oggi “agli occhi del potere nulla assomiglia a un terrorista come l’uomo ordinario”. Marc AugéTuttavia, non è solo da quando gli ultrà muoiono ammazzati negli autogrill o i kamikaze si fanno esplodere nei mercati che il concetto di nonluogo è diventato obsoleto. Già nei primi anni ’90, lungi dall’essere spazi dell’anonimato e dell’innocenza provata dalle carte di credito, i nonluoghi erano territori di conquista, di individuazione a fini di marketing delle strategie desideranti degli utenti; lungi dall’essere semplicemente spazi lisci del mercato, già allora erano striati dalle brutali forze territoriali che se li contendevano.
Inoltre, leggendo Augé si potrebbe scoprire che il concetto aveva le sue radici anche in altri autori (in particolare Michel de Certeau e, ancor prima, nel geniale Jean-François Augoyard) e che in origine si riferiva a tutt’altro. Il discorso, infatti, verteva sulle tattiche di appropriazione del territorio da parte degli abitanti, non alle strategie di produzione dello spazio da parte delle élite globali. Questo rovesciamento di senso operato dall’antropologo francese (più a causa dei tipici malintesi che caratterizzano la traduzione di un concetto da una disciplina -la filosofia- all’altra -la sociologia e l’antropologia- che per ragioni intenzionali), ha spostato per tanto tempo il fuoco dell’attenzione e della ricerca antropologica su aspetti poco significativi.
Si può finalmente ripartire, grazie anche al libro di Ilardi, a indagare la produzione dello spazio contemporaneo con più libertà di pensiero. E cercare nuovi strumenti concettuali.

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daniele vazquez


Massimo Ilardi – Il tramonto dei non luoghi
Meltemi, Roma 2007
Pagg. 117, € 13, ISBN 9788883535901
Info: la scheda dell’editore

[exibart]

6 Commenti

  1. Ottimo articolo, argomentato e originale. Ora bisognerà vedere quali saranno le nuove strategie discorsive più adatte al consumo: in effetti viene da pensare che tanto nelle pratiche della cultura alta come in quella più popolare conti soprattutto lo slogan (vedi quello di non luogo).

  2. Grazie a Dio forse si smetterà di parlare di questi NON LUOGHI. E c’è ancora gente che guardando una foto o un video o una città o un architettura, te ne parla con entusiasmo. Come se la sola menzione del termine giustificasse una sorta di “attualità” nell’opera. Ora gli artisti che lavorano con lo spazio potranno guardare alla storia dell’arte e dell’architettura smettendo di denunciare ipotetici sprechi da cui sono poi esteticamente e visionariamente affascinati.

  3. bene, finalmente si cerca di argomentare delle idee…
    peccato ti sia rovinato nel finale, dopo un’argomentazione anche abbastanza attenta sei caduto in una banalizzazione veramente dozzinale… quando parli di “tipici malintesi” è solo un luogo comune da filosofi con la puzza al naso e scarsa attenzione. sai benissimo (lo spero) che queste separazioni disciplinari tranquillizzano chi non sa…
    e tutta la filosofia tedesca del Novecento che in buona parte è sociologia? sei sicuro che lo stesso de Certeau che tu citi sarebbe stato a suo agio in questa pretesa categorizzazione disciplinare del suo pensiero?
    cordialmente

  4. IL DECLINO DEI NONLUOGHI?
    Esticazzi!
    Pensa che non sia vero.

    Semmai c’è un declino dei luoghi tipo
    le miniere, sarebbe interessante se
    ci andasse a lavorare anche per poco,
    allora ci si renderebbe conto che dalla teoria alla pratica c’è una differenza sostanziale.

  5. è chiaro che chi si sforza di mettere in discussione il concetto di non luogo è proprio chi forse in “miniera” c’è stato magari dietro al bancone di un autogrill a dispensare rustichelle o a imbustare la spesa in un grande centro commerciale e pertanto è stufo di vedere che una serie di intellettuali da tavolino hanno per anni considerato i luoghi della massa come uno spazio liscio come se le persone che li frequentavano e che in essi vivevano e lavoravano non fossero altro che biglie lanciate su una superficie lucida.

    insomma era ora! mi sembra un ottimo inizio e un buon articolo e spero che si ricominci a produrre concetti più aderenti alla realtà e alla gente che la vive.

    ps. comunque non avrei scomodato il Grande Capo “Estiqaatsi”

  6. caro Daniele forse dovresti frequentare di più aeroporti e centri commerciali, sempre che tu voglia capire il presente, si intende. e farti coinvolgere meno in queste querelles da intellettuali. se c’è una categoria azzeccata per spiegare frammenti del mondo di oggi, essa è quella del non-luogo. non ci rinunciare così facilmente. per partito preso, mi pare.

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