10 ottobre 2019

Non chiamatelo festival “al femminile”: storia di scrittrici InQuiete a Roma

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Intervista a Barbara Leda Kenny, una delle fondatrici di InQuiete, il festival delle scrittrici a Roma (11-13 Ottobre) giunto alla sua terza edizione.

Il logo di InQuiete, il festival di scrittrici a Roma, realizzato da Maria Giulia Colace
Il logo di InQuiete, il festival di scrittrici a Roma, realizzato da Maria Giulia Colace

Al via l’11 Ottobre la terza edizione di InQuiete, il Festival di Scrittrici che si tiene a Roma, nel quartiere del Pigneto, fino al 13 del mese. Un progetto ambizioso che animerà vari spazi della zona con tantissime ospiti del mondo dell’editoria. Reading, incontri, presentazioni di libri, laboratori per bambini e tanto altro. Potete sfogliare tutta la programmazione di quest’anno sul sito del festival. Abbiamo fatto qualche domanda a Barbara Leda Kenny, una delle fondatrici del progetto, per approfondirne alcuni aspetti.

Come e quando è nato il progetto di un festival per scrittrici?

«L’idea di InQuiete ci è venuta nel 2017. Come tante cose belle della vita, tutto è nato da una chiacchierata al bar. La Libreria Tuba compiva dieci anni e per l’occasione volevamo creare una rassegna dedicata alla parola delle donne. Non eravamo così ambiziose da immaginare un festival! Poi Francesca Mancini e Maddalena Vianello hanno organizzato un aperitivo e hanno lanciato la proposta: un festival dedicato alle scrittrici; in Italia non esisteva ancora niente del genere».

Il Pigneto è il quartiere di Roma dove sorge la Libreria Tuba, dove tutto è nato. Per questo avete deciso di rendere InQuiete un festival di quartiere?

«InQuiete è fortemente vincolata a Tuba, non solo perché si trova al Pigneto. Dietro la Libreria Tuba c’è un ragionamento sulla costruzione dello spazio pubblico. Noi viviamo in uno spazio costruito nella maggior parte dei casi da uomini. Anche in questo quartiere, dove l’isola pedonale è affollata di locali, quelli gestiti da donne non riempiono le dita di una mano. Per noi era importante costruire uno spazio pubblico gestito da donne, in grado di generare relazioni positive tra le donne e il resto del mondo.

Allo stesso tempo, prendendoci la responsabilità di un festival, abbiamo deciso di farne uno dedicato alle scrittrici, perché di solito sono messe ai margini dei grandi festival. Anche perché i festival, almeno quelli di Roma, sono tutti gestiti da uomini. L’ambizione a una costruzione di spazio pubblico condiviso è un’intenzione molto politica. Tuba è uno spazio che per sua natura si presta all’intenzione. E poi il Pigneto ha questa caratteristica di essere un ponte tra il centro e la periferia di Roma, più accessibile rispetto agli altri quartieri dove avvengono i grandi eventi culturali».

Com’è stata la ricezione del pubblico della libreria e degli abitanti del Pigneto?

«Il quartiere ama molto il festival. Ci sono stati episodi molto teneri, come la signora che ci ha preparato una torta per ringraziarci dell’evento. L’anno scorso ha piovuto, e un signore è uscito di casa con tutti gli ombrelli e gli impermeabili che aveva a disposizione, per prestarli a coloro che stavano ascoltando una presentazione in piazza.
In generale è un’iniziativa gratificante per il quartiere, che si sente protagonista di una cosa bella che sta succedendo proprio sotto casa. Un quartiere che spesso è stressato dalla pressione legata alla vita notturna, ai locali. InQuiete è un momento di restituzione di qualcosa di positivo al quartiere, che, proprio in virtù del suo essere un polo della socialità cittadina, può vivere delle esperienze stimolanti come un festival di letteratura».

Spesso nei settori professionali si sente dire che “non si trovano donne” preparate per quella posizione, giustificando così l’assenza di figure femminili sul campo (anche se forse non si è cercato abbastanza). È così anche nel mondo dell’editoria e della scrittura? Secondo te anche la cultura è vittima di stereotipi sessisti?

«Per quanto sia comune credere che l’editoria sia un’industria paritaria non è poi molto diversa da altri settori. L’anno scorso, in collaborazione con In Genere, abbiamo dato vita a un Osservatorio su donne e uomini nell’industria editoriale. È emerso che l’editoria è perfettamente in linea con molti altri settori produttivi: pochissime donne ai vertici, nonostante sia un settore di lavoro in cui le donne sono tante. Le donne, però, abitano nelle cucine dell’editoria: traduttrici, editor, correttrici di bozze. Di rado sono a capo di una collana di prestigio o in ruoli apicali del settore.

Con l’Osservatorio abbiamo notato che in alcune realtà, come il Salone del Libro di Torino, la situazione sembra essere positiva: nel direttivo ci sono scrittrici ben note, la programmazione include eventi dedicati alle donne. Quando si va a controllare come sono distribuiti gli ospiti nel programma, però, le donne sono solo il 30% del totale, e negli orari di punta, nelle sale più prestigiose, scendono addirittura al 19%. Spero che nell’edizione del 2019, dopo il nostro monitoraggio, abbiano fatto più di attenzione. Fortunatamente nell’editoria, a differenza di altri settori, vantiamo donne consapevoli come Michela Murgia, che occupano anche gli spazi principali delle rassegne. Ma per ogni Michela Murgia, ci sono dieci donne che vengono presentate alle due di pomeriggio, o alle dieci di sera. Si tratta comunque di una presenza fortemente sbilanciata».

Penso per esempio alle riflessioni nate in questo periodo intorno a Piccole Donne, di cui è uscito il trailer del film. Un libro che è stato letto esclusivamente da donne, come se ci fosse una scrittura “femminile”, realizzata da donne esclusivamente per le donne. 

«Nomina cinque scrittrici del Novecento presenti in un’antologia. Ovvio che dopo aver detto Morante e Ginzburg la maggior parte delle persone si ferma, non arriva a cinque. C’è un problema di trasmissione. Lalla Romano viene percepita come un’autrice femminile, che parla solo alle donne. C’è un filtro sessista che organizza il mondo, anche in questo settore Per questo noi non sentiamo calzante l’accezione “femminile” per InQuiete. È un festival di scrittrici, ma noi pensiamo che le scrittrici parlino a tutti. Hanno bisogno di maggiore visibilità, perché parlano di immigrazione, di violenza, di colonialismo, di politica, di temi universali. Tutti dovrebbero ascoltare: quella delle donne non è una parola monca».

Il festival ha raggiunto ormai la sua terza edizione. Bilanci a posteriori? Proiezioni per progetti futuri?

«Il successo ha stupito in prima persona noi! InQuiete cresce suo malgrado, e noi le corriamo dietro. Questa la bellezza e il limite del festival. Noi ci siamo lanciate in un festival pensando “in qualche modo i soldi li troveremo”. Cosa che è avvenuta solo parzialmente, per cui InQuiete è diventato un festival di comunità, che si sostiene con il lavoro volontario o a prezzo politico per le professioniste. Dobbiamo confrontarci con questa crisi di crescita, per un festival che comunque noi organizziamo dalle 19:00 alle 23:00. Il progetto futuro è trovare i fondi che lo rendano sostenibile anche per le persone che collaborano.

Abbiamo una curatela complessa, gestita da più persone, e ogni anno riuniamo le scrittrici per chiedere loro cosa vogliono trovare al festival. Perciò è tutto imprevedibile; anche se volessimo ripeterci non ci riusciremmo mai. InQuiete ha questa apertura, questa duttilità che noi vorremmo mantenere, perché è ciò che ci permette di pensare sempre cose nuove. A me per esempio piacerebbe renderlo un festival interdisciplinare, una vera e propria festa della parola, includendo oltre a poesia e teatro, anche la musica».

La domanda sorge spontanea: il pubblico maschile partecipa al festival?

«Ci sono moltissime donne, anche se il festival non è solo per loro. In generale, il consumo culturale è femmina. Se per il cinema e la musica le carte in tavola si mescolano di più, le lettrici sono donne, chi va a teatro è donna. E così inevitabilmente anche InQuiete. Però il pubblico è moto eterogeneo, e ci sono anche tanti uomini che partecipano».

Se c’è una cosa che mi piace molto, è il fatto che avete pensato a iniziative per bambini. Non solo per loro, ma anche per permettere ai genitori di seguire gli eventi senza preoccupazioni

«Abbiamo fatto tesoro delle esperienze da Tuba. Spesso ciò che inibisce i genitori dalla fruizione di eventi culturali è il fatto che non ci siano doppi spazi per una doppia socialità, ma una differenziazione dell’offerta. Bisogna scegliere. O vai all’evento per bambini o scegli quello per adulti, sperando che tuo figlio o tua figlia non si annoi dopo qualche minuto, o non si metta a strillare. Per questo abbiamo proposto momenti di co-socialità per adulti e bambini, facilitando i genitori».

Quali sono le novità di questa nuova edizione? Ho letto per esempio del programma “Galassia Inquiete”

«Galassia Inquiete doveva essere una parte off di InQuiete, ma poi è stato integrato nel programma, alla pari con i palchi della main section. Abbiamo deciso di coinvolgere altri spazi culturali del quartiere. Per ora abbiamo selezionato quattro luoghi. Questa potrebbe essere un’altra possibile direttrice di crescita: se il modello funziona, si può allargare, per un festival che diventa sempre più patrimonio del quartiere. Altra grande novità sono le sette ospiti internazionali. Siamo molto contente di questo obiettivo, poiché la selezione di Paesi di provenienza è molto eterogenea: Stati Uniti, Canada, Francia, Spagna, Turchia, Siria, Malesia. Questo ci ha permesso di raccogliere una pluralità di voci e di riunirle tutte insieme al Pigneto».

 

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