08 giugno 2020

Quale futuro per il video? Una nuova ricerca guarda tra i linguaggi

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Il video è il medium più giovane e allo stesso tempo quello che ha cambiato radicalmente il modo di vedere il mondo. Ma quali mutazioni ha subito, a sua volta, dall'arrivo del digitale?

Douglas Gordon, 24 hour Psycho, 1993
Douglas Gordon, 24 hour Psycho, 1993

La forma video. Tra cinema e arti visive dopo il digitale è il saggio di Milo Adami (Roma, 1981) docente, critico e film-maker, uscito poche settimane fa per postmedia books in cui l’autore ci consegna uno studio che nasce dal desiderio di guardare alle sorti e alle mutazioni del linguaggio videografico a partire dall’avvento della tecnologia digitale.
In 240 pagine si innescano una serie di domande: in quali forme sopravvive, il video, oggi? Come il video è stato in grado di rinnovare il modo di rappresentare il mondo in immagine e di contribuire a ri-sensibilizzare la nostra percezione del reale?
E se il digitale, con la sua proliferazione di schermi, immagini prodotte da computer, tecnologie di post-produzione, realtà virtuale, ha completamente riconfigurato le relazioni tra soggetto-osservatore e i modi della rappresentazione audiovisuale, che metodologia bisogna adottare per analizzarne i linguaggi? Come orientarsi e da quale prospettiva storico-critica osservare una simile multi visione?
Ne abbiamo parlato con l’autore

La forma video: l’intervista

Vi è stato un periodo di grazia, e di sovraffollamento, di video-art nelle istituzioni italiane: quindici-venti anni fa circa, con un perdurare del trend, non vi è stata fiera, galleria, mostra istituzionale e non, che non offrisse uno spettro amplissimo di opere video. Poi la bolla si è sgonfiata. E oggi, per esempio, nelle fiere d’arte contemporanea trovare video-art è una rarità. A cosa riconduci questo fenomeno?
«Al digitale che ha uniformato le differenze tra video e cinema. Molti degli artisti che lavorano oggi con il video (in Italia almeno) lo fanno grazie a specifici bandi, premi, residenze, altre volte applicano a fondi statali nazionali o europei con progetti che guardano maggiormente al documentario o al film di finzione, inseguono la sostenibilità, spesso sopravvivono grazie all’insegnamento. Vorrei ricordare che non esiste in Italia un fondo che sostiene la creazione di opere digitali sperimentali come il corrispettivo Fonds d’aide aux expériences numériques del CNC francese. Le gallerie non sono più il primo referente, nascono nuove realtà come ad esempio “In Between Art Film” che sostiene la produzione di opere al confine tra cinema, video e arte contemporanea. Affiorano nuove piattaforme di distribuzione online come Visualcontainer TV, i festival dedicati al video sono ancora molto diffusi in Europa… Se tutto questo non produce più un mercato non vuol dire che il video inteso come forma d’arte si sia estinto. Sarebbe più grave se scomparisse dal dibattito critico o dai corsi universitari».

La forma video, cover
La forma video, cover

Nella tua premessa scrivi che negli ultimi trent’anni le tecnologie della visione (il digitale) hanno completamente riconfigurato le relazioni tra soggetto-osservatore e i modi della rappresentazione audiovisuale. Ci spieghi in che modo, e qual è il risultato?
«Con il digitale non è più facile determinare che tipo di oggetto abbiamo davanti ai nostri occhi. Siamo in un museo, entriamo in una sala buia, senza sedie, un documentario viene proiettato sulla parete di fondo, che cosa stiamo vedendo? Dove mi trovo? Guardiamo al web, proviamo a definirlo, è un palinsesto, una forma espansa di televisione, un cinema “rilocato” (citando Casetti)? Difficile dirlo o determinarlo, forse non utile farlo, si tratta di un’epoca priva di coordinate, il ché tuttavia non esclude che si possa migliorare l’orientamento. Il mio libro guarda “tra” i linguaggi, traccia genealogie di quelle che sono state le mostre, le opere, le contaminazioni intermediali più significative tra video, cinema e arti visive dopo il digitale. Sono sconfinamenti che disorientano, ci costringono a rimettere in discussione le nostre certezze, il video del resto ci ha abituato, nella sua storia è stato arte poliedrica e pluriforme (video teatro, video danza, video scultura, video performance, video attivismo, video diario, video saggio), mi sembra abbia ben preannunciato questa nostra epoca di incerte specificità».

Ancora, tu scrivi di un movimento “cinemacentrico” che nella volontà di preservare l’eredità culturale del cinema, ha marginalizzato molte di quelle forme visive non strettamente apparentabili con la “forma cinema”. Ti riferisci all’arte contemporanea e al suo voler essere sempre più vicina al cinema (a volte non riuscendovi o creando risultati dalla forma incerta)?
«Se l’arte contemporanea guarda al cinema forse perché ne invidia l’orizzontalità, il suo appeal leggero, immediato e democratico, ma questa è altra questione. Io nel libro mi riferisco ai Film Studies che spesso hanno interpretato questi rapporti di vicinanza tra cinema e arte contemporanea da un punto di vista troppo univoco, “cinemacentrico”, quasi a voler determinare un primato, ovvero l’idea che per la prima volta le immagini in movimento fossero entrate nello spazio espositivo (Paini, Royoux, Vancheri, etc.). Non era così, era già accaduto con le video installazioni, arte mobile per definizione. In tempi coevi alle esperienze del cinema strutturalista o dell’expanded cinema – tra gli anni 60′ e 70′- entrambi i linguaggi, cinema e video, avevano ragionato su come espandere e frantumare la visione frontale propria del cinema e della televisione poi. Se poi guardiamo ad ambiti più prettamente commerciali (fiere ed expo) questo era accaduto fin da prima. Per me le immagini in movimento sono una famiglia unita, ci sono legami, differenze, campi magnetici che ciclicamente si attivano e disattivano, l’uno guarda all’altro senza pregiudizi o prevaricazioni. Le opere sono più importanti delle diatribe identitarie ma è bene restituire al dibattito complessità, varietà, trasparenza. Oggi tra gli studiosi c’è una maggiore sensibilità intermediale, è possibile attivare nuovi confronti, nuovi scarti».

Riprendo una tua domanda: l’arte digitale esiste o è un vestito alla moda?
«Si annida nei logaritmi, a volte si nasconde, difficile contenerla. In altri paesi l’arte digitale, penso soprattutto alla Francia, “l’art numerique”, non è mai stata messa in dubbio».

In questo periodo di impossibilità il video ha rappresentato l’unica forma di trasmissione culturale, dimostrando però – nitidamente – i suoi limiti. Franceschini aveva tirato in ballo il “netflix culturale” per sopperire alla distanza sociale, ma a distanza di qualche settimana sembra già un’idea offuscata dagli eventi. Ancora in “La forma video” scrivi: “Una scarsa volontà a livello istituzionale di stimolare, finanziare e premiare la produzione, la ricerca, l’insegnamento, la diffusone delle arti elettroniche e digitali quale risorsa di fondamentale valore culturale, integrativa e parallela a quella maggiormente riconosciuta del cinema, ha contribuito a far sì che il video in Italia abbia strutturalmente sofferto una marginalità che ha reso al pubblico oscure se non ignote la storia, le caratteristiche e le potenzialità”. Come sarà il futuro, per questa “direzione” dell’arte contemporanea?
«Il video credo stia vivendo una nuova contemporaneità, una sorta di riscatto, lo ha atteso per decenni, senza gridare. Alcuni osservatori si sono sbilanciati nel definire il video la forma d’arte del momento, la sua natura poliedrica, extramediale, lo rende un campo (field) o una forma simbolica, un milieux, un ambiente sensibile in grado senza pregiudizi di accogliere le derive semantiche alle quali le immagini in movimento (moving image) sono soggette.Il festival, forse più della forma mostra, è ancora il luogo dove cogliere le trasformazioni, ce ne sono molti da Les Instants Vidèo di Marsiglia, a Videoformes, alcuni vivono online come Streamingfestival, alcuni nuovi emergono (Ibrida festival) altri guardano al film d’arte, al cinema d’artista, alle ibridazioni videografiche come Lo Schermo dell’Arte a Firenze o Asolo Art Film Festival, diretto negli ultimi anni dall’artista Cosimo Terlizzi. Verifico un grande vitalismo: il mio libro è un tentativo di intercettarlo, storicizzarne l’evoluzione, rilanciarne il potenziale».

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