25 novembre 2015

READING ROOM

 
Una street photographer di nome Vivian
di Manuela de Leonardis

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La tentazione di cominciare a scrivere partendo dalla sua vita avvolta nel mistero c’è, eccome. Ma farebbe retrocedere ad un piano secondario la qualità del lavoro fotografico di Vivian Maier (New York 1926-Chicago 2009), che ha lasciato ai posteri un archivio di oltre 150mila tra positivi e negativi, provini a contatto e una quantità spropositata di rullini mai sviluppati. 
Del tutto anonima, questa “fotografa amatoriale” riservata e silenziosa, che di mestiere faceva la “nanny” (tata, governante, bambinaia), è diventata un “caso mediatico” a partire dal 2007, dopo la scoperta del suo lavoro da parte dello scrittore e fotografo statunitense John Maloof, curatore delle raccolte antologiche Vivian Maier: Street Photographer e Vivian Maier: Self-Portraits, nonché regista (con Charlie Siskel) del film Alla ricerca di Vivian Maier (2013).
A cura di Maloof è anche il volume in italiano Vivian Maier. Una fotografa ritrovata, pubblicato da Contrasto in occasione delle mostre del MAN di Nuoro e di Forma Meraviglia a Milano, che contiene i testi Howard Greenberg, Marvin Heiferman e Laura Lippman.
Delle oltre duecento fotografie presenti nel libro (prevalentemente sono scatti in bianco e nero) colpisce quel suo sguardo sempre lucido, sistematico, curioso ed empaticamente vicino ai soggetti. Maier non smetterà mai di fotografare nel trentennio compreso tra gli anni ’50 e il 1979. 
Vivian Maier, Una fotografa ritrovata
Forse la macchina fotografica era per lei un modo per sentirsi nel mondo, vivere indirettamente situazioni ed emozioni, ipotesi che potrebbe avere un riscontro anche nell’ossessione ad accumulare giornali che leggeva, fotografava, conservava. Ma, soprattutto, dalla necessità di autoritrarsi costantemente, riflessa nella superficie specchiante di un cerchione di una Volkswagen (Florida, 1960) o di un tostapane (New York, 1954), per non parlare delle vetrine dei negozi, degli specchi o dell’ombra proiettata sull’asfalto: lo sguardo in basso nel pozzetto della Rolleiflex, oppure dritto davanti a sé, sempre serissima.
Una sorta di Mary Poppins della street photography, vestita in modo austero e con le scarpe maschili, Vivian Maier – come per magia – è nel posto giusto al momento giusto, pronta a raccontare la quotidianità con i suoi drammi e i suoi momenti di gioia. 
È alla Weegee quel suo scatto che immortala il corpo a terra, a Chicago il 21 dicembre 1961. Ma c’è anche l’ironia alla Elliott Erwitt, la documentazione alla Robert Frank, un’attrazione per gli emarginati alla Diane Arbus.
Vivian Maier, Una fotografa ritrovata
Insomma, Vivian Maier è una fotografa dei suoi tempi che alterna una visione narrativa basata sulla descrizione (quindi esplicita) con la volontà di evocare storie, alimentandone la suspense, partendo dai dettagli: un paio di gambe femminili accavallate, due mani che s’incrociano, una poltrona che brucia su un marciapiede di New York, una rete squarciata che si libra nell’aria.
Immagini che non sono affatto edulcorate, ma inquadrano le contraddizioni della società, ecco perché l’uso del bianco e nero (lei stessa era solita sviluppare e stampare nei vari gabinetti delle abitazioni che cambiò negli anni) non è mai metaforico.
Vivian Maier. Una fotografa ritrovata
A cura di: John Maloof
Editore: Contrasto
Anno di pubblicazione: 2015
Pagine: 285 
Euro: 39 

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