16 ottobre 2020

xbooks #7. Tutti gli incroci di Tullio Pericoli, non solo nel disegno

di

Un libro di frammenti autobiografici che nella scrittura di Pericoli prendono vita a partire dall’incontro con persone per diversi motivi nevralgiche.

Tullio Pericoli

Tullio Pericoli l’ho conosciuto mentre lavoravo al CSAC di Parma, alla fine degli anni ’70. Un giorno Arturo Carlo Quintavalle mi mandò a Milano da Pericoli a prelevare dei disegni da portare in Archivio, nel Palazzo della Pilotta. Lui era il fantastico disegnatore e pittore che io conoscevo grazie ai quadri nella galleria Marconi e ai suoi interventi su libri e riviste e quotidiani dal “New Yorker” a “La Repubblica”. Quando mi aprì la porta del suo studio in quell’edificio dell’800 elegante e familiare, mi ritrovai in un grande spazio di librerie e librerie di volumi serrati e ordinati. Che strano pensai, di quadri, e disegni, neanche l’ombra. Parlammo per ore di libri e di letteratura, e a sera mi accompagnò in stazione con una cinquecento di non so che colore. Così, l’anno scorso, dopo la Biennale del Disegno di Rimini nel 2016, in cui i suoi paesaggi disegnati dal lavoro dell’uomo scandivano gli spazi dell’antica Biblioteca Gambalunga, ci vediamo a Bologna per la presentazione di Incroci. Un libro di frammenti autobiografici che nella scrittura prendono vita a partire dall’incontro con persone per diversi motivi nevralgiche.

Incroci, di Tullio Pericoli

Questo raccontare se stessi nella trama della relazione con l’altro mi rammenta la metodologia autobiografica seguita da Canetti per gli anni viennesi, e per restare in Italia e in tempi più recenti, quel bellissimo palinsesto autobiografico di Oreste Del Buono (Amici. Amici degli amici. Maestri.) uscito da Baldini e Castoldi nel 1994 con una copertina disegnata dallo stesso Pericoli.

Non è certo il primo libro scritto da Tullio, altri ne ha prodotti, anche sul proprio lavoro, e tra gli altri, il bellissimo e utile Pensieri della mano, ma in Incroci scrive del disegno della sua vita e di chi vi ha lasciato un segno durevole, da Emanuele Pirella a Eugenio Montale, da Emilio Tadini a Fausto Melotti, da Livio Garzanti a Umberto Eco a Lucio Mastronardi. E Cesare Zavattini, avanti a tutti, perché senza di lui, chissà. “Avevo ventiquattro anni, ero partito da Ascoli con il pullman dell’una dopo mezzanotte, e dopo un viaggio di cinque o sei ore, ero arrivato a Roma, naturalmente senza dormire (…) Zavattini mi guardava, ma quello che doveva guardare erano i miei disegni, quelli soprattutto. Io sulla punta di una poltroncina, lui su una sedia accanto a un tavolo con la piccola pila di disegni davanti. Cominciò lentamente a sfogliarli. Li osservava lentamente uno per uno come se li mangiasse, con sempre più voglia, spostando gli occhi dal basso all’alto e diagonalmente. E a ogni disegno, da sopra gli occhiali, si girava a guardarmi, quasi volesse controllare le parentele o le differenze tra i disegni e chi li aveva fatti. Nella lettera che gli avevo mandato gli avevo sommariamente raccontato la mia storia: ero quasi laureato in legge, ma dipingere e disegnare erano le sole cose che avrei voluto fare nella vita. “Tu non devi fare l’avvocato” disse. Lo sapevo, me lo aspettavo, sapevo che mi avrebbe detto proprio così. “Ma non devi venire a Roma, devi andare a Milano”. Prese dei fogli e si mise a scrivere. Riempì un paio di pagine e me le diede. Erano due lettere per Milano. Quello che comincia ora sarà per sempre, mi ricordo che pensai. Si era fatto mezzogiorno e con i fogli stretti in mano me ne andai. Ormai non potevo più restare nella piccola città di Ascoli, avevo un dovere. Se non altro per gratitudine verso tanta generosità”. Da Roma a Milano, e qui l’incontro esilarante con il formidabile narratore di storie Gian Carlo Fusco, inviato del “Giorno”, uno dei destinatari delle lettere di Zavattini, che ricorderà a sua volta così l’arrivo di Pericoli a casa sua in via Ampère 15: “Ero in mutande e ciabatte. Ero solo. “Momento!”. Quando aprii, mi vidi davanti uno strano giovanotto. Immaginai che fosse giapponese o vietnamita, e che laggiù la gente dicesse: “Eppure, come sembra d’un altro paese! Proprio ha pochino pochino di noialtri! Che strano!”.

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