14 giugno 2021

Daiga Grantina e Ernesto Neto alla GAMeC

di

"Atem, Lehm "Fiato, Argilla”" di Daiga Grantina, a cura di Sara Fumagalli e Valentina Gervasoni, e "Mentre la vita ci respira - SoPolpoVit’EreticoLe" di Ernesto Neto a cura di Lorenzo Giusti: le nuove mostre della GAMeC sono inscritte e ci inscrivono nel segno del respiro

A sinistra: Daiga Grantina. Atem, Lehm "Fiato, Argilla", Vedute dell'installazione - GAMeC, Bergamo, 2021, Foto: Lorenzo Palmieri, Courtesy GAMeC - Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo. A destra: Ernesto Neto. Mentre la vita ci respira - SoPolpoVit'EreticoLe, Vedute dell'installazione - GAMeC / Palazzo della Ragione, Bergamo, 2021, Foto: Lorenzo Palmieri, Courtesy GAMeC - Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo

«Finalmente, stiamo tornando a respirare». Le parole con cui il Presidente della GAMeC Alberto Barcella, affiancato da Lorenzo Giusti, Sara Fumagalli, Valentina Gervasoni, gli artisti e l’Assessore alla Cultura Nadia Ghisalberti, introduce alle mostre di Daiga Grantina ed Ernesto Neto (autore della cover di exibart 112), risuonano forti, costanti, quando attraversiamo “Atem, Lehm, “Fiato, Argilla”” e “Mentre la vita ci respira – SoPolpoVit’EreticoLe“. Abbandonando un approccio puramente decorativo, volto all’esposizione di tratti pittoreschi, entrambi gli artisti si pongono in relazione alle dinamiche sociali di cui partecipano. Come se le due mostre non fossero soltanto due racconti a sé, ma si incontrassero in un’unica grande storia che è resa concreta da una continua valutazione della sua dimensione sociologica, con tutte le corrispondenti particolarizzazioni di tempo, luogo e medium. 

Daiga Grantina. Atem, Lehm “Fiato, Argilla”, Vedute dell’installazione – GAMeC, Bergamo, 2021, Foto: Lorenzo Palmieri, Courtesy GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo

C’è un fiato, un’energia vitale, che attraversa in senso terrestre, materico, e anche cosmico, “Atem, Lehm, “Fiato, Argilla””, che riprende un verso della poesia di Paul Celan In der Luft, da bleibt deine Wurzel (In aria, lì resta la tua radice, ndr). Per la sua prima mostra personale in un’istituzione italiana l’artista lettone Daiga Grantina (1985, Saldus) usa lo Spazio Zero del museo non come un contenitore né come un elemento con cui entrare in relazione. Lo spazio è un soggetto attivo che scatena infinite e forti relazioni tra opere e ambiente. Una linea geometrica corre lungo l’intero perimetro della sala, abbracciandola, mantenendola. Come uno strumento di navigazione che invita a essere seguito per scoprire le sculture interagenti, essa assume i contorni di una partitura musicale a cui le opere si ancorano e da cui le stesse opere si elevano in una danza trascendente. Nel ritmo sapientemente equilibrato tra pieni e vuoti, rispettivamente tempi della percezione e tempi della riflessione, prende forma l’esperienza mentale del colore che sta all’origine della ricerca di Daiga Grantina, che mina l’uniformità che il nostro occhio vede, rispondendo a un’abilità della mente, in favore della prossimità, il solo esercizio che ci restituisce il colore nella sua variazione costante. Tra le tante suggestioni che le curatrici e l’artista condividono generosamente con il pubblico ce ne è una che, forse più di tutte, racchiude il cuore della mostra: Stendhal. Delle sue fasi a proposito dell’amore possiamo tutti farne pratica. L’ammirazione, entrando e indirizzando il primo sguardo a un corpus di lavori inediti in piume, legno, inchiostro, siliconi e tessuti. Il desiderio, di entrare in una relazione reciproca con le opere, che poi si fa speranza fino al punto tale che le barriere cadono e la passione, crescente, non può più essere trattenuta. Proprio a questo punto, quando Stendhal direbbe che il sentimento trascinante si cristallizza, emerge il significato più intimo di “Atem, Lehm, “Fiato, Argilla”” e della stessa Daiga Grantina. Su come sia possibile delineare il colore si costruisce l’intera mostra e, con questa avvertenza, la cristallizzazione cui si assiste non è da intendersi il fenomeno scientifico che comunemente conosciamo, bensì come un processo di idealizzazione. Il colore è vibrante, non stabile e la piuma, di cui l’artista fa uso, fa emergere tutta l’iridescenza che gli appartiene: a seconda del nostro punto di osservazione, del nostro movimento che è interiore e interiorizzato, sono infinite e sempre diverse le sfumature che si percepiscono. La forma che noi vediamo è la visione idealizzata, cristallizzata appunto, di Daiga Grantina, che lei ci restituisce lasciandocene godere ed esperire tra materia e luce. Nel corridoio adiacente la sala principale è esposto What Eats Around Itself (For Rilke) (2019), morbido e duro, trasparente e opaco, mobile e statico, forte e debole. L’installazione scultorea site-specific, che intreccia silicone colato con vernice, lattice, tessuto e feltro, dialoga con l’altro corpus costituendo una vera e propria dimensione vitale che fa muovere le opere: una zona compressa, l’altra espansa; una inspira, l’altra espira, insieme respirano e fanno respirare. Eccolo qui, il fiato. 

Quello stesso fiato, tanto, Ernesto Neto (1964, Rio De Janeiro. Qui potete trovare la nostra intervista) l’ha in sé quando ci prende per mano, tutti, indistintamente, e intona un vero e proprio inno alla vita per accompagnarci a Mentre la vita ci respira – SoPolpoVit’EreticoLe, l’installazione multisensoriale che trasforma la Sala delle Capriate di Palazzo della Ragione in un vero e proprio centro di vitale energia dove incantarsi è, ancora e di nuovo, possibile.
Vent’anni dopo la sua partecipazione alla Biennale di Venezia (2001) l’artista brasiliano torna in Italia, a Bergamo, e dà forma a un nuovo universo di senso, suggestivo, ancestrale, esistenziale, riparatore. Per curare tutte le ferite della società, pandemica, contemporanea, Ernesto Neto sembra offrirci il suo rimedio: un miracolo di emozioni e sentimenti che si sprigionano liberi lungo le direzioni che (per)corrono i tentacoli – o raggi – di quel “un po’ polpo un po’ sole” che racchiude il disegno centrale dell’installazione. Chiara manifestazione del costante ripensamento, tipicamente ‘Netiano’ sull’energia, sulle forze in campo e sulle reazioni e relazioni che racchiudono tutti i modi – autobiografici e collettivi – di vivere, di esperire e interpretare uno spazio, la mostra è in prima istanza un invito alla vita con le sembianze di un rituale magico che ci spinge a ripensare la genealogia della ragione e del concetto stesso di realtà. Come lo sono stati coloro che nei secoli bui hanno vissuto a stretto contatto con la natura, accusati di stregoneria, perseguitati e bruciati, e come lo siamo noi in questa fase trans-pandemica che stiamo attraversando, Neto si rivolge a una presenza labile, a rischio, e per essa mette in scena un’esperienza fondamentale. Al limite, dove ogni rapporto diventa un rischio, una caduta di orizzonte, un non mantenersi, il rito di Neto, di cui lui stesso si fa performatore, risale questa china e si oppone al processo dissolvitore. Le candele che illuminano, gli abiti in crochet che chiedono di essere indossati a nuovo, i libri di cui autori e titoli – come L’ancestralità spirituale; Re-incanto; Piante sagge, Vite, Foglia; Le Parole del tamburo; Il serpente ha dato alla luce – sono stati inventati: tutto concorre a dare forma a quella magia che segnala e combatte i rischi impedendo che il dramma esistenziale che abbiamo conosciuto resti isolato o irrelativo. Evocata dal titolo SoPolpoVit’EreticoLe, acrostico delle parole “sole”, “polpo”, “vita” ed “eretico”, la vita mentre ci respira ci chiede di lasciare liberi i nostri polmoni di riempirsi e i nostri sensi di inebriarsi con i profumi della paglia, ma anche di piante, spezie ed erbe medicinali. Lì, in quel centro ombelicale che ci abbraccia e racchiude l’analogia tra universo e corpo, possiamo muoverci, prenderci una pausa, sollevare alla nostra memoria la magia riconoscendo un suo legame diretto con la ragione e la civiltà. Lì sì, possiamo affidarci.
E finalmente, tornare a respirare. 

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