-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- Servizi
- Sezioni
- container colonna1
Gioventù ispirata: Antonio Kuschnir e la sua pittura arrivano a Genova
Mostre
Antonio Kuschnir è classe 2001, quindi giovane. Un giovane che fa una pittura tendenzialmente meno giovane del ventiquattrenne che è. Prima di rischiare il linciaggio per age shaming (o accusarci, più prosaicamente, che stiamo dando ad Antonio del vecchio), pensate a quando leggete un qualunque articolo di critica: dell’artista, per solito, viene indicato l’anno di nascita. Questo non per voler gossippare sull’artista (pur non essendo il mondo dell’arte immune ai gossip, sia chiaro), ma perché il numero di primavere ha un peso specifico sulla contestualizzazione critica del soggetto in questione. Quindi, così come un comune mortale può trovarsi con l’età biologica non allineata a quella anagrafica, la ricerca condotta da un artista può trarre in inganno sull’età dello stesso. Fateci caso. Poi fateci anche sapere se la pensate come noi su Kuschnir e O Canto do Rio (a cura di Barbara Magliocco), personale che porta da ABC ARTE un ragazzo molto concentrato sui temi e problemi della pittura prima di lui, utilizzati come possibilità figurative utili a risolvere altrettanti temi e problemi affrontati nella propria pittura. Possibilità che passano per figurazioni enigmatiche, bucolicismi tutt’altro che bucolici, esotismi brasiliani e presenze nascoste ovunque. Anche nel buio.

Tra rimandi e scelte personali. La pittura “lingua viva” di Kuschnir
Quella di Kuschnir è una pittura d’oltreoceano che mette insieme un approccio attuale alla citazione pittorica, con quest’ultima che stuzzica nemmeno il tempo di entrare in galleria: I dreamed a song of us è il Giorgione de La tempesta visto dalla Generazione Z. E qui non si parla solo di riprendere una composizione generale di per sé iconica, quanto della capacità di Antonio nell’estrapolare quell’iconicità e, con la testa prima che con le mani (michelangiolesco Antonio), maneggiarla a mo’ di sample per incanalarla in un immagine interamente sua, in cui chi osserva non si riconoscerà mai. Con un linguaggio un po’ più comprensibile, diciamo che Kuschnir è artista con un’idea in testa, un’evidente voglia di concretizzarla per immagini (ché se no nella vita fai altro, non la pittura), però geloso della sua privacy. Con linguaggio ancora più comprensibile, che Antonio va sì a coinvolgere lo spettatore, a renderlo partecipe, ma mai a trascinarlo in ciò che accade all’interno della tela. Pensiamo al gioco di sguardi che si crea con Barriga da Terra, tela abitata da presenze tanto coscienti da guardarci fisse come noi con loro, astruse ai nostri occhi quanto potremmo esserlo noi ai loro. E dove, alla fine del gioco, ognuno resta al suo posto. Ma anche a pezzi come Aurora, in cui l’artista è sì nell’opera, ma (auto)ritratto in un angolo, con una modalità extra-contestuale non distante da un Pasquale I o un Onorio III, rispettivamente raffigurati nei mosaici absidali di Santa Maria in Domnica e San Paolo fuori le mura a Roma. Come un nostro simile non più simile a noi, in un universo che non ci appartiene, che possiamo solo guardare da fuori e di cui non vediamo nemmeno tutto. Ma che proprio per questo ci rende osservatori attivi, attenti nei confronti di una pittura che, parafrasando Martini, è “lingua viva”.

Guardare al passato per dare forma al presente
Altro elemento peculiare nella pittura di Antonio sono quei bestiari fantasiosi, sovraffollati da creature e tendenzialmente cupi (Mouth è lavoro tanto piccolo quanto potente in questo senso), in cui l’artista propone una visione soprannaturale della natura alla Henri Rousseau, applicandola sincreticamente a quella misticità inquietante che qui in Italia abbiamo conosciuto col tema visivo del Trionfo della morte (prendete quello conservato a Palermo, Palazzo Abatellis, circa metà Quattrocento). E poi ti trovi di fronte a un autoritratto nei (non) panni di Venere, dove l’espressa citazione di Édouard Manet e Tiziano incontra quella intrinseca di un volume e un ritmo corporeo appartenuti anche al Matisse de La Danse. Un autoritratto palesemente non binario, che dimostra come la modulazione di certi modelli iconografici meriti ancora d’essere studiata sotto il profilo iconologico. È aperta la caccia a nuovi Aby Warburg.














