03 aprile 2024

I collettivi curatoriali sono gli unici in grado di andare contro le leggi di mercato oggi?

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La solidarietà, la lentezza e l’artigianato sono solo alcuni degli elementi che accomunano le pratiche socio-culturali dei collettivi del mondo, dal Sud America, all’Africa alla Palestina. Una riflessione da Sharjah

The Casablanca Art School: Platforms and Patterns for a Postcolonial Avant-Garde (1962–1987). Installation view: Sharjah Art Foundation, 2024. Photo: Shanavas Jamaluddin

Il March Meeting si svolge a Sharjah, Emirati Arabi, ogni anno dal 2008, ed è concepito come spazio di confronto, dibattito e collaborazione di teorici, artisti e specialisti del settore che provengono dalle Americhe e dai Sud del mondo, volto alla ricerca e al ripensamento dei modelli della produzione culturale. La finalità, secondo le parole della Presidente e Direttrice della Sharjah Art Foundation Hoor Al Qasimi, è quella di forgiare nuovi immaginari e auspicare un futuro di emancipazione e di solidarietà sociale. Quest’anno il tema è stato Tawashujat, parola araba che significa intrecciare insieme, e ha avuto come focus le pratiche socio-culturali e le narrazioni riguardanti i collettivi del mondo, gruppi di persone che lavorano insieme sia dal punto di vista curatoriale che artistico, con ibridazioni processuali fondate sulla partecipazione. Il dibattito ha ripreso il percorso tracciato da documenta 15 nel 2022, curata dal collettivo indonesiano ruangrupa, che aveva posto all’ordine del giorno temi di giustizia sociale, di inclusione, di solidarietà, di mobilitazione politica e di pedagogia radicale.

L’apertura del Convegno, nella sessione dedicata al Potere catalitico dei Collettivi, infatti, ha visto la partecipazione di Mirwan Andan dei ruangrupa insieme ad altri collettivi di stampo curatoriale. Le problematiche affrontate, ma in realtà non sciolte, hanno riguardato la configurazione e la funzione dei collettivi in quanto sistemi non competitivi e orizzontali in seno ad un mondo in cui domina il mercato artistico. Un concetto generico di cura e di partecipazione non ricompone tuttavia la contraddizione. In particolare, Andan, parlando del sistema sociale più che culturale indonesiano, ha esemplificato le metodologie comunitarie radicali e solidali messe in atto dal collettivo. La sezione Verso infrastrutture contro-egemoniche prendeva in considerazione collettivi nati da anni, già presenti a documenta 15, come The Question of Funding, Trampoline House, Ghetto Biennale, che hanno affrontato lotte dal basso per contrastare le disuguaglianze ed operare per l’inclusione sociale e artistica. Una sezione fresca, giovane e fortemente impegnata è stata quella dedicata all’”Identità, la memoria e la materialità” con collettivi fortemente innervati nel territorio e nelle comunità locali. Woven Memory costruisce una storia alternativa del Cile, utilizzando i tessuti fatti al telaio come archivio. Noqanchis considera la tessitura come linguaggio originario degli indios peruviani, inserito in un sistema armonico legato alla crescita e all’agricoltura.

Infine, il palestinese Nöl Collective concepisce anch’esso la tessitura e il ricamo come linguaggio, come archivio e memoria. Ne consegue (sono parole del collettivo) una precisa idea di comunità e sostenibilità, antitetica al capitalismo, poiché basata sui valori di lentezza, artigianalità e condivisione. Un’attenzione particolare è stata dedicata alla Palestina con collettivi storici e contemporanei palestinesi, performance come quella coinvolgente di Jumana Emil Abboud o lettura di poesie del giovane palestinese Mosab Abu Rubble. Vale la pena ricordare il collettivo italo-palestinese Bait al Karama composto da Beatrice Catanzaro e Fatima Kaddumy che hanno impiantato in Palestina una pratica emancipatoria legata al cibo. È stata anche dedicata un’intera mostra alla Palestina, intitolata In the eyes of our present, we hear Palestine. Il convegno ha contribuito a rimettere in circolo le implicazioni culturali, sociali e politiche legate al concetto di pratica comunitaria, partecipativa, allargando l’orizzonte e la prospettiva su cosa possa essere diventata oggi, dopo decine di anni di lavoro e di esperienze, prospettando possibili vie future fortemente legate a valori di solidarietà, contro l’azzeramento della memoria e per una pratica militante di contro-narrazione indispensabile in un periodo di devastante omologazione della cultura e dell’informazione e di impoverimento globale delle coscienze.

Il convegno era arricchito da un interessante gruppo di mostre, di cui cito due proposte. The Casablanca Art School. Platforms and Patterns for a Postcolonial Avant-Garde (1962-1987) racconta della scuola sperimentale nata nel 1962, pochi anni dopo l’indipendenza del Marocco dalla Francia nel 1956. Sotto la direzione di Farid Belkahia e con gli artist Mohammedd Chabâa e Modamed Melehi, la scuola perseguiva il dialogo tra arte colta (aggiornata anche sulle avanguardie europee) e arte popolare con la considerazione dei tessuti e dei gioielli berberi. Le strategie didattiche contemplavano il graphic design, la neo-calligrafia e la tradizione autoctona della decorazione. Furono invitati come docenti l’antropologo olandese Bert Flint e l’antropologo e storico dell’arte Toni Maraini (la figlia di Maraini e regista Mujah Maraini-Melehi è stata brillante ospite del March Meeting), che ha avuto un ruolo importante nell’introdurre la nozione antigerarchica e geometrizzante del Bauhaus nella scuola. La mostra rispecchia con opere, documenti e lavori d’alto artigianato l’altissima qualità della scuola, che ragionava sull’eredità del modernismo aggiornato sulla propria tradizione autoctona con l’assunzione di una prospettiva postcoloniale.

The Casablanca Art School, Installation view, photo Carmen Lorenzetti

La mostra Gavin Jantjes: To Be Free! A retrospective 1970-2023 ha raccontato il lavoro di un artista, attivista, curatore sudafricano basato ora a Oxford, impegnato prima per i diritti degli africani nel suo paese d’origine con la pubblicazione di locandine e illustrazioni anti-apartheid, poi, dopo l’esilio in Europa, coinvolto nelle lotte per la Liberazione Nera (Black Liberation) in Gran Bretagna. Ha studiato ad Amburgo negli anni Settanta, poi è emigrato a Londra, infine ha ricevuto un paio di incarichi come curatore in Norvegia (1998-2018), figura di riferimento per l’emancipazione e una narrazione anticoloniale. Si è dedicato anche alla pittura passando da uno stadio figurativo e narrativo negli anni ‘80 e ‘90 con riferimenti a problematiche socio-politiche volte al riscatto della cultura africana a uno stadio più recente astratto, comprendente alcuni imponenti dipinti eseguiti nella sua residenza a Sharjah. La mostra è stata fatta in collaborazione con l’Africa Institute di Sharjah, che ha curato la giornata di studi precedente l’apertura del March Meeting.

Gavin Jantjes: To Be Free!, Installation view, photo Carmen Lorenzetti
Gavin Jantjes, Unitled, 1989, From “Zulu”, c 1984-1990, photo Carmen Lorenzett

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