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A Milano, il colore scorre letteralmente a terra. Alla Galleria Luca Tommasi, la mostra Holding our Centre segna il ritorno di Ian Davenport in città con una personale che prosegue idealmente il progetto presentato tra agosto e ottobre a Todi, riannodando il dialogo tra pittura, architettura e percezione. Il titolo suona come un monito, “tenere il centro” in un tempo di oscillazioni continue ma sembra anche indicare un metodo. Nei lavori di Davenport, infatti, il centro non è un punto fisso, piuttosto un momento di tensione tra controllo e caso, tra disciplina del gesto e abbandono alla gravità, tra la rigidità del format e la libertà assoluta del colore. È su questa soglia che la mostra milanese si muove, riunendo due nuclei fondamentali della sua ricerca: i Puddle Paintings e gli Splats.

I Puddle Paintings sono le ormai celebri “cascate” di colore che hanno reso riconoscibile la cifra dell’artista britannico. Strisce verticali, perfettamente ritmate, colate di vernice lucida che scendono dal bordo superiore del supporto e, in alcuni casi, traboccano oltre il margine inferiore, espandendosi sul pavimento in pozzanghere cromatiche. Il quadro diventa una sorta di partitura e la pittura una materia che occupa lo spazio bianco della galleria, a suggerire lo stato di non finito dell’opera, sempre in formazione.
La procedura controllata da Davenport è rigorosa: vernice liquida versata su pannelli, spesso in MDF, lasciata scorrere lentamente, in modo che sia la gravità a distribuire il colore. L’artista lavora per sequenze, calibrando i rapporti fra le tonalità, costruendo progressioni cromatiche che citano la storia della pittura, in particolare quella italiana, come una matrice fondamentale. Dalle campiture rarefatte di Beato Angelico alle vibrazioni di Lorenzo Monaco, fino ai contrasti narrativi di Sandro Botticelli, la tradizione rinascimentale diventa un repertorio di armonie e dissonanze da trasporre in forma astratta. «Per me, l’Italia è sempre stata la patria della fioritura artistica e i pittori del Rinascimento italiano hanno avuto un’influenza enorme sul mio lavoro», ha dichiarato Davenport.

Se i Puddle Paintings organizzano il colore come un flusso disciplinato, gli Splats ne mostrano il lato esplosivo. Su grandi fogli, macchie e schizzi di pigmento sembrano esplodere in modo incontrollato, come se la pittura fosse stata scagliata contro il supporto. Eppure, anche qui, la casualità è solo parziale, dietro la violenza apparente dell’impatto si riconosce un equilibrio cercato con ostinazione, un lavoro di bilanciamento tra densità e trasparenza, pieni e vuoti, gesto e montaggio. È come se Davenport interrogasse la pittura in due direzioni complementari: cosa succede quando la si costringe a tenere la linea e cosa accade quando la si lascia esplodere.
Nella mostra milanese le due serie di opere convivono in modo serrato. Alcuni lavori di grande formato provengono direttamente dall’allestimento di Todi, altri sono inediti, concepiti per lo spazio di Luca Tommasi. L’insieme è utile per mettere a fuoco la logica profonda che le attraversa: la pittura come processo decisionale, come negoziazione del metodo con l’imprevisto.
«Le sue opere riescono a sedurre, quasi magicamente, e attivare lo sguardo sia di specialisti che di profani, grazie ai loro colori dinamici e ai processi del dipingere sempre in vista, come se lo spettatore fosse parte del farsi dell’opera e l’opera qualcosa di vivo e ancora in progress», ha spiegato Marco Tonelli. «Un’arte coinvolgente quindi, quasi partecipata, in cui lo scorrere del tempo e l’immediatezza dell’esperienza sembrano costituire la sostanza della pittura, tenendo in equilibrio apparenza e struttura».

Questo modo di intendere la pittura accompagna Ian Davenport fin dagli esordi. Nato nel Kent nel 1966, formatosi al Northwich College of Art and Design e poi al Goldsmiths College di Londra, entra giovanissimo nel gruppo degli Young British Artists, partecipando nel 1988 alla leggendaria esposizione collettiva Freeze curata da Damien Hirst. Nel 1990 tiene la sua prima personale alle Waddington Galleries e viene incluso nel British Art Show. L’anno successivo è candidato, a soli 25 anni, al Turner Prize, di cui resta uno dei più giovani nominati di sempre.
Le grandi installazioni pubbliche – dalla monumentale Poured Lines Southwark Street (2006), lunga 48 metri, all’intervento Poured Staircase al Chiostro del Bramante di Roma – mostrano come le sue “colature” possano diventare veri e propri dispositivi architettonici, capaci di riscrivere la percezione di un luogo. Alla Biennale di Venezia del 2017, con Giardini Colourfall, aveva adottato la logica del dripping per comporre un muro di oltre mille colature che sembrava oscillare fra pittura e digitale.

Holding our Centre condensa questa esperienza nel formato più raccolto della galleria. Una mostra “laboratorio”, in cui il lessico di Davenport, fatto di scelte precise sulla materia manipolata, si può osservare a distanza ravvicinata.












