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«Il tempo inizia a profumare quando acquista una durata»: una mostra a Venezia per indugiare sulle cose
Mostre
di Zaira Carrer
Pochi miti contemporanei si sono radicati nella nostra vita quotidiana come quello della produttività perpetua. Ogni istante va riempito, sfruttato, utilizzato; ogni attimo è un’occasione per realizzarsi, migliorarsi, appagarsi. È, questa, la condizione che il filosofo coreano Byung-Chul Han descrive come un’atomizzazione del tempo: un frammentarsi del nostro vissuto in tutta una serie di istanti che si dissolvono nel loro stesso accadere. Non ci concediamo più il semplice vuoto: la noia —quella sorta di cavità spazio‑temporale in cui potrebbe annidarsi la riflessione— è diventata un difetto da eliminare.
Per Han è questa tendenza all’eccesso che priva il tempo del proprio profumo e lo fa correre più velocemente. In Il profumo del tempo. L’arte di indugiare sulle cose (2022), scrive: « Il tempo inizia a profumare quando acquista una durata, quando riceve una tensione narrativa o una tensione profonda, quando guadagna in profondità». È controitiuvo, ma sono dunque le pause e gli intervalli a donare al tempo la propria consistenza.
È da questi assunti che nasce e si sviluppa la mostra Il profumo del tempo, a cura di Cecilia Larese e Bianca Pedron: una collettiva di giovani artisti che, con i loro lavori ci chiedono di rallentare e di assimilare con cura e attenzione ciò che abbiamo davanti agli occhi. In questo modo, lo spazio indipendente Joystick diventa quasi una capsula per la meditazione: una parentesi necessaria tra la frenesia delle calli veneziane.

L’allestimento stesso ci chiede di muoverci nello spazio con cautela, per non urtare le piccole incudini rosa che vanno a formare l’installazione In punta di piedi (2023) di Guendalina Urbani. Il lavoro divide diagonalmente lo spazio, appare pesante e delicato al tempo stesso: sfida i sensi e ci chiede di attraversalo con cura.
Anche Lorena Bucur ci obbliga a rapportarci con l’esposizione in maniera inusuale: la sua opera Incavo (2025) è una pesante lastra di cemento posata a terra, che ci spinge a chinarci per essere apprezzata al meglio. Qui e in Rebus (2025) l’artista imprime sul cemento ancora fresco delicati scatti fotografici: dettagli floreali, un ginocchio sbucciato, brevi frammenti di vita destinati a deteriorarsi e impallidire. Desaturati dal grigio del materiale, i colori che vediamo sono infatti in lento mutamento e di essi non rimarrà traccia. La contraddizione è evidente: il cemento —materiale simbolo della produttività e del progresso edilizio— ospita tracce che rifiutano ogni monumentalità.

I simboli della produttività si mescolano ad una dimensione più leggera anche in L’OISEAU DE FEU a ballet for tower cranes (2014 – 2015) di Calori&Maillard: un’opera video paradossale, in cui le gru di un cantiere di Francoforte sul Meno danzano sulle note di Stravinskij. Qui l’oggetto della crescita sfrenata diventa poetico, ma solo nel momento in cui fallisce la sua funzione originale.
Matteo Rattini, infine, gioca con il nostro senso di attesa: in Dittico (2023), due schermi mostrano la ripresa in tempo reale da una telecamera posizionata all’esterno dello spazio espositivo. Un fiore che si muove piano e qualche nuvola: non c’è altro ad attendere lo spettatore poiché l’opera si sottrae a ogni promessa narrativa, costringendoci a rimanere presenti in un tempo che non concede eventi né svolte.
Attraverso queste opere sospese, quello che Il profumo del tempo suggerisce, dunque, è che il tempo della pausa è forse l’ultima zona franca in cui ancora l’individuo può pensare, ricordare, immaginare al di là delle esigenze dell’efficienza. È il momento in cui il tempo, da sequenza vuota da riempire, torna a essere finalmente esperienza corposa.















